Covid: le sofferenze del lavoro e non solo

articoli di Marco Revelli, Marta Fana, Alessandra Daniele, Girolamo De Michele, D. Hunter, Ismaele, Sandro Moiso, Federico Giusti, GigaWorkers, Sara Gandini, Giorgio Moroni, Maurizio Lazzarato, Mark Bergfeld, Gianluca De Angelis, Marco Marrone, Guido Viale, Enrico Pugliese

 

L’agricoltura non è solo questione di frutta e verdura – Enrico Pugliese

Il problema con l’immigrazione – scriveva Max Frisch oltre mezzo secolo addietro – è che «cercavamo braccia e sono arrivati esseri umani (Menschen)».

Si tratta di una contraddizione assolutamente insanabile che ha posto seri problemi al capitalismo e alle classi dirigenti dei paesi di immigrazione le quali hanno tentato sempre di porvi rimedio con la stessa soluzione: l’utilizzo dei migranti per lavoro stagionale. In questo modo si hanno le braccia a disposizione per un periodo limitato senza il fastidio di avere a che fare con esseri umani, persone che rischiano di accampare diritti sociali e civili.

Questa storia antica riguarda in modo particolare l’agricoltura. Sia in sistemi agricoli tradizionali che nelle moderne agricolture capitalistiche, anche tecnologicamente avanzate, il ricorso all’immigrazione temporanea ha avuto ed ha un ruolo assolutamente determinante per alcuni ordinamenti colturali. Si tratta soprattutto delle produzioni ortofrutticole come in California o nelle aree ad agricoltura ricca del Nord e del Sud d’Italia.

Le migrazioni rurali, temporanee per definizione, storicamente non hanno conosciuto confini. In Italia dalle aree di piccola e povera agricoltura contadina o del bracciantato precario delle aree capitalistiche si partiva per regioni vicine e lontane nel paese e all’estero. Il lavoro stagionale alleggeriva la pressione sulla terra dell’azienda contadina e compensava la sottoccupazione endemica del bracciantato precario.

I contadini piemontesi partivano per la vendemmia in Francia e le mondine del Mantovano partivano verso i campi di riso del Vercellese per un paio di messi di duro lavoro. Questi e altri lavoratori stagionali scomparvero poi cacciati dallo sviluppo tecnologico dell’agricoltura (nelle risaie le mondine furono sostituite dagli erbicidi fitoselettivi ) o attratti dallo sviluppo industriale del paese.

Ma non diminuì il bisogno di braccia per lavori precari e stagionali nel quadro di uno sviluppo agricolo basato sul modello californiano: agricoltura ricca e mano d’opera povera. A soddisfare questa necessità a partire dagli anni settanta hanno provveduto gli immigrati provenienti dal terzo mondo ai quali si sono aggiunti negli anni novanta i cittadini dei paesi dell’Europa dell’Est.

Il nesso tra ricchezza dell’agricoltura e povertà della mano d’opera non ha nulla di paradossale. Il modello è reso possibile dall’esistenza di uno sterminato esercito operaio di riserva che ha sempre garantito la disponibilità di una mano d’opera tanto più sfruttata e ricattabile quanto maggiore era la condizione di irregolarità.

Poi nel nostro paese ogni tanto arrivavano le benemerite sanatorie e ciò permetteva a molti di uscire dal ghetto e trovarsi una occupazione migliore. Così in agricoltura restavano gli ultimi arrivati e quelli più sfortunati. Ma la sanatoria faceva di nuovo diventare le «braccia» esseri mani.

A correre ai ripari in Italia furono Bossi e Fini con la loro legge di peggioramento del T. U. delle leggi sull’immigrazione e l’introduzione, al posto del permesso di soggiorno, di un nuovo tipo di permesso altamente limitativo dei diritti dei lavoratori: «il contratto di soggiorno» che legava la possibilità di ingresso e permanenza dell’immigrato a uno specifico contratto di lavoro allo scadere del quale era previsto il ritorno in patria.

Non si trattava di una novità. Esprimenti di questo tipo erano stati fatti in vari paesi – in particolare negli Stati uniti d’America con il cosiddetto «bracero program» – ed erano risultati fallimentari. Il programma americano iniziato ai tempi della seconda guerra mondiale fece entrare negli Stati uniti milioni di immigrati messicani destinati al lavoro agricolo stagionale, che però restarono in larga parte definitivamente. Nel 1964 il programma fu abolito per iniziativa dei sindacati.

In Italia con l’allargamento dell’Unione europea e l’ingresso dei paesi più poveri dell’Est il sogno padronale della stagionalità cominciò per qualche verso a realizzarsi. Titolari del diritto di muoversi all’interno dei confini dell’Ue lavoratori rumeni e bulgari- certo non i più forti sul mercato del lavoro – cominciarono a emigrare secondo un modello di emigrazione stagionale: una pratica seguita informalmente come ai vecchi tempi.

Ma ecco che arriva il coronavirus: con la paura e il lockdown è difficile muoversi. La frutta e la verdura soprattutto al Nord rischiano di non essere raccolte se i migranti non arrivano. Ed allora si invocano corridoi umanitario-vegetali per far venire gli stagionali: è la sofferenza per la frutta e la verdura che intenerisce non quella dei lavoratori.

D’altra parte soprattutto nel Mezzogiorno gli immigrati dell’agricoltura bloccati nei ghetti sono spesso irregolari e non possono muoversi per andare a lavorare. Rischiano fermi di polizia, fogli di via, rimpatri forzati. A meno di una immediata regolarizzazione per motivi umanitari possono contare solo sulla carità privata o sull’aiuto di amici e gruppi di solidarietà. E il problema non riguarda solo gli irregolari nelle campagne.

Nelle stesse condizioni si trovano badanti e soprattutto lavoratori domestici delle grandi città. Neanche essi possono muoversi e andare lavorare perché corrono gli stessi rischi. Come fanno il colf equadoregno o la badante a ore ucraina, da anni a Roma senza permesso di soggiorno regolare, a recarsi da Torre Spaccata dove abitano ai Parioli o al quartiere africano dove risiedono i loro datori di lavoro?

Anche per loro è urgente la regolarizzazione. Non è solo una questione di frutta e verdura.

da qui

 

Ricerca precaria: “Noi stiamo lavorando gratis per voi, voi non potete farci morire di fame” – Ismaele

Chiamatemi Ismaele. L’anno scorso, finita la magistrale, decisi di tentare il dottorato. All’inizio in realtà non ne ero convintissimo e trascorrevo le giornate a parlarne con il mio coinquilino. Avevamo condiviso molto, durante tutto il periodo universitario. Non eravamo concordi su tutto e spesso le nostre chiacchierate diventavano accese. Riconoscevamo entrambi l’utilità della ricerca, ma non potevamo nasconderci che quella strada portava con sé anche dell’altro. Ci dicevamo che certo, quando si fa ricerca, si può produrre sapere critico, mettere tutto in discussione: si può “prendere posizione”. Si può. Non è automatico.

Ma la ricerca non è solo questo. Significa anche accettare un sistema, che ha a che fare con le esigenze economiche e politiche del MIUR (il “Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca”), dell’ANVUR (l’“Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca”) e della stessa Università in cui si ritrova a svolgere il proprio lavoro. A tutto questo va sommata la lotta spietata fra gli studenti prima e durante i colloqui di ammissione, negli stratagemmi pensati per fregare tutti gli altri, dal decidere di proporre un tema di ricerca pensato appositamente per la commissione presente – magari da stravolgere il giorno dopo essere stati ammessi – al nascondere, prima del colloquio, il proprio tema di ricerca agli altri, terrorizzati dalla possibilità che qualcuno possa “rubare” l’idea. Un vero e proprio colloquio di lavoro con concorrenti spietati, architettato da un’azienda che vuole lucrare da quest’antagonismo.

Alla fine, come scrivevo all’inizio, decisi comunque di tentare. Di buona lena comincia a mettere assieme le pubblicazioni, gli esami fatti, i voti, le certificazioni, le conferenze e tutto quello che poteva essere utile a costruire un CV appetibile. Fu una tortura. Ogni volta che aggiungevo qualcosa avevo sempre la sensazione di mettere da parte tutta quella rete di incontri, relazioni, ambienti che quella cosa portava con sé. Niente era “merito” mio, semmai frutto di costruzioni collettive, dallo studio, alla passeggiata, alla chiacchierata da ubriachi, magari in piazza di notte, suonando la chitarra. Ogni cosa aggiunta portava con sé un paesaggio e quell’operazione riduzionista aveva il sapore di burocrazia, puzzava di morte.

Ultimato il CV mi feci convincere a creare un profilo su LinkedIn e su Academia.edu. Nel frattempo, cominciai a studiare tutti i bandi aperti in quel momento. Pur non avendo un punto di caduta specifico, sapevo in quale direzione avrei voluto fare ricerca, che bussola utilizzare. L’urgenza era chiara, il “nodo” in cui si sarebbe risolta l’avrei scoperto strada facendo. Mi misi allora a viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, tentando i colloqui in quelle Università dove in qualche modo sapevo che avrei potuto seguire quella strada che tanto avrei voluto percorrere. Durante tutti gli studi universitari avevo pesato sulle tasche dei miei genitori. A quasi 30 anni, il dottorato per me, oltre alla possibilità di fare ricerca, significava anche rendermi indipendente, avere una borsa (uno stipendio). Si trattava di lavorare e il lavoro dovrebbe prevedere sempre uno stipendio. Dopo alcuni tentativi riuscii a vincere, ma senza borsa.

Avevo una scelta davanti: rinunciare e tentare l’anno dopo o accettare e continuare a chiedere prestiti ai miei genitori. Il tempo per decidere era poco e decisi di accettare. In fin dei conti il dottorato dura tre anni: tre anni di spese (affitto, spesa, bollette, spostamenti, libri..). Fortuna vuole che mi sia ritrovato a fare ricerca con degli amici, più che con dei colleghi. Già la prima volta che abbiamo incrociato gli sguardi, almeno con alcuni, ci siamo capiti. Stavamo percorrendo quel tratto di strada assieme per urgenze simili, seppur attraverso linee di ricerca diverse. Fino a febbraio ci siamo visti quasi ogni settimana, per più giorni. Ci incontravamo per un caffè al bar vicino l’Università, spesso senza darci appuntamento, poi andavamo a seguire le lezioni e poi tutti assieme a mangiare, discutendo per ore. Parlavamo di quanto ascoltato a lezione, dei nostri interessi e dei problemi su cui ci stavamo incaponendo. Nel secondo pomeriggio ci spostavamo in biblioteca o in sala studio e la sera andavamo a cucinare a casa di chi abitava più vicino, approfittandone per ricominciare a discutere. Non ci sentivamo solo dei dati, dei codici, delle matricole: la percezione collettiva e condivisa era quella di essere una comunità in divenire.

Poi è arrivato il coronavirus ed è cominciata la quarantena. Ci siamo ritrovati – come tutti – isolati, divisi e preoccupati. Non potevamo né incontrarci né fare ricerca, senza vere indicazioni. L’unica cosa che ci è stata comunicata è che avremmo dovuto seguire delle lezioni online. Certo, non sono che un surrogato della reale esperienza universitaria, inadatte alla nostra ricerca, ma capisco che in questo momento emergenziale non si possa fare altrimenti. Nulla di assurdo, se non fosse che per seguire le lezioni online bisogna potersi permettere i soldi per le bollette di internet e della corrente. Solo che i miei genitori, causa quarantena, si sono ritrovati di colpo senza alcun tipo di introito. I miei colleghi possono sempre fare affidamento alla borsa (più di 1000 euro al mese), ma io no. Confrontandomi con i colleghi del dottorato, ho chiesto agli organi competenti se fosse possibile per esempio avere una borsa emergenziale o qualche altra forma di sussidio.

Ovviamente tutti i tentativi si sono rivelati dei buchi nell’acqua.

Alla fine, questi colleghi, questi amici, hanno deciso di versarmi parte del loro stipendio per permettermi di pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Sono dovuti intervenire loro, per sopperire a una mancanza delle istituzioni competenti. Grazie a loro sto sopravvivendo e sto facendo sopravvivere anche i miei, che in questo momento non possono permettermi di mandarmi soldi. E chissà quante ricercatrici e quanti ricercatori si trovano nelle mie stesse condizioni, magari senza che per loro si sia innescato un meccanismo di solidarietà da parte dei colleghi.

Noi stiamo lavorando gratis per voi, voi non potete farci morire di fame.

Dunque, chiamateci Ismaele, “Dio ascolta”, in ebraico, ma chi, realmente, ci ascolta?

https://ilmanifesto.it/lettere/ricerca-precaria-noi-stiamo-lavorando-gratis-per-voi-voi-non-potete-farci-morire-di-fame/

 

Il lavoro ai domiciliari – Giorgio Moroni

Da diversi mesi volevo scrivere di una rivoluzione strisciante che interessa l’organizzazione del lavoro, in realtà è un nuovo paradigma che prende forma a partire dallo sganciamento del lavoro dal luogo (dal “posto di lavoro”) e dal tempo (dalla “giornata contrattuale”). Ora ci troviamo di fronte, improvvisamente, alle prove tecniche di una grande rivoluzione dall’alto, mondiale come una “guerra mondiale”, che trasforma agevolmente e senza resistenze i modi di vita, introduce nuove forme di disciplinamento sociale, e porta anche simbolicamente alla ribalta una trasformazionale epocale del lavoro rendendola – da timidamente sperimentale che era – obbligatoria e ineluttabile.

Alcune premesse sono inevitabili, visto il contesto nel quale si è immersi e all’interno del quale la riflessione deve pur continuare a svilupparsi imperturbabilmente. L’oggetto di studio non è il coronavirus: quindi non vengono presi in considerazione temi quali la validità, l’opportunità o l’inevitabilità delle misure adottate in questo paese come negli altri per fronteggiare la pandemia, perché non sono in grado di farlo, ed è molto probabile che oggi nessuno lo sia (la sensazione prevalente è che molti brancolino nel buio senza ammetterlo e che la discussione difficilmente si elevi da quella pur legittima della pausa caffè). Né è qui di interesse approfondire i danni collaterali della infezione, in particolare la rivoltante rinascita di sentimenti nazionalistici evocati per alimentare e glorificare una resistenza “italiana” (per il momento) al virus, o l’ottusa comunicazione con invito a “starsene a casa” rivolto a tutti ma in presenza di una elevata percentuale di popolazione che, fino allo scattare del lockdown, ha continuato a decine di milioni al giorno a uscire per andare a lavorare, e infine la psicosi mortifera di massa gabellata per senso di responsabilità a sostegno della ricorrente ricerca di untori. Così come non vengono qui toccati argomenti quali i nuovi dispositivi di governo nello stato di eccezione, come l’uso disinvolto della decretazione – ivi incluso quella di più infimo grado come il DPCM -, oppure l’esibizione in tempo reale dei numeri dei contagiati e dei morti e la minaccia delle ammende per i contravventori, allo scopo di incutere terrore e ottenere incondizionata obbedienza – tutti argomenti che dovranno comunque farci riflettere, a pandemia rientrata, su questa prima e assoluta epifania di una “economia di guerra” senza la guerra; e per lo più mondiale. Sono tanti i temi che è necessario tralasciare, sia pur a fatica e con fastidio mentre cerchiamo di salvarci con l’isolamento, per andare dritti al punto -ci si tornerà quando l’analisi potrà tornare a cimentarsi con questa svolta storica, non necessariamente l’unica o l’ultima dell’epoca in cui siamo entrati.

Il punto su cui vogliamo insistere è un altro. Il capitale, il modo di produzione capitalistico, è già all’opera dentro il virus e oltre il virus. Il virus come un “cigno nero” ha generato una crisi mondiale, di cui il capitale non è stato né causa né motivo, perché sia esclusa sin dall’inizio qualsiasi fuorviante ipotesi complottistica (questo anche e soprattutto se dovesse emergere a seguito di qualche inchiesta un qualche laboratorio di guerra batteriologica o virale gestito da terroristi o agenti segreti); e affinché inquinamento e polveri sottili, nonché le big farms con i loro allevamenti intensivi, rimangano opportunamente sullo sfondo, dove devono stare, più propriamente considerate come co-fattori. Ma il general intellect del capitale, o se vogliamo il suo “comitato di affari”, è già all’opera per valorizzare gli aspetti “igienici” di questa crisi, per far sì che anche questa crisi – possibilmente con miglior efficacia delle precedenti – possa essere usata per superare lo stallo dei processi di valorizzazione di capitale, per individuare come insomma si possa, per stare dentro la metafora digitale, approfittare di questo generale reset per riavviare un programma da tempo  frozen crashed  (“impallato”).

Le aree di intervento del capitale, in questo fermo immagine che coglie una versione del suo sembiante che da tempo non era così antropomorfica, ovvero così rozza, senza i tradizionali cappelli a cilindro ma con teste diverse per il taglio o la foggia dei capelli, sono due. La prima, è quella – tradizionale – del ricorso massiccio all’indebitamento. L’”economia di virus” si avvale già di una politica monetaria compiacente, a giudicare dalle sempre più strabilianti manovre finanziarie varate, riservandosi di programmare gradualmente la selezione delle attività eligible, quelle su cui investire perché con un coefficiente di “marginalità” superiore,  iniettandovi nuovo combustibile; assicurandosi inoltre il consenso sociale attraverso nuove modalità emergenziali di welfare (soldi in tasca, come nel Trump show). Tutti ci ritroveremo in contesti economici e sociali completamente nuovi, alla cui progettazione e realizzazione non avremo partecipato se non come testimoni passivi o meglio sudditi. Con l’”economia di virus”, in una di quelle situazioni di emergenza assoluta che più gli sono congeniali, il capitale riscoprirà la propria vocazione novecentesca alla pianificazione, scrollandosi di dosso le incertezze quotidiane e le rischiose volatilità della fase finanziaria. Ma di questo non voglio e non posso occuparmi perché è superiore alle mie forze, salvo osservare che, in fondo, qui non c’è nulla di particolarmente nuovo o sorprendente, ferma l’usuale potenza e la possibile efficacia del deal; e che il nuovo ed estremo piano del capitale – in quella che comunque si configurerà come una fase di passaggio a una nuova epoca – si troverà di fronte una umanità sconvolta, tendenzialmente disciplinata dalle regole obbligate dell’emergenza totale e assuefatta alla loro fedele osservanza; così, almeno, all’inizio.

La seconda area di intervento riguarda il lavoro, e questa volta nel ritorno all’antico c’è la novità. Poco dopo la seconda metà del secolo scorso in tutto l’occidente capitalistico le lotte operaie con la loro dinamica rivendicativa avevano estenuato e destrutturato il fordismo portando a una espansione delle garanzie del welfare oltre i limiti della compatibilità e rendendo critico il conseguimento del profitto a partire dalla fabbrica tradizionale. La conseguente ricerca del margine, di nuove forme di accumulazione fuori della fabbrica, attraverso i processi di globalizzazione della produzione governati negli ultimi decenni dal capitale finanziario, al di fuori di ogni razionalità economica, si è sostanzialmente avviata verso il fallimento, e ora è il fattore lavoro che può tornare al centro dell’interesse.  Al termine di un lungo periodo in cui solo lo spaventoso sfruttamento del lavoro delle periferie del mondo (periferie tali rispetto a quello “occidentale”) ha garantito remunerazione al capitale investito, si torna a investire centralmente sul lavoro. Di quale lavoro stiamo parlando? Dopo che le macchine hanno assorbito gran parte del lavoro manuale, anche ampie porzioni di questo sono state digitalizzate, mentre il residuo lavoro manuale non digitalizzabile (quello edile e stradale, oppure quello dei trasporti, o quello relativo alla manutenzione dei corpi incluso le consegne a domicilio, ad esempio) è stato fortemente coinvolto dai processi migratori e si avvale quindi di una forza lavoro di riserva tuttora ricattabile e comprimibile. Il lavoro cognitivo, che aveva la sua premessa nella crisi del regime di accumulazione fordista/industriale e si è autonomamente affermato nel progressivo esaurirsi della razionalità economica del capitale, nella crisi del rapporto tra profitto e ricchezza sociale, impone oggi la sua modalità all’intera società attraverso il lavoro agile o smart, attraverso lo smart-working.

Da tempo alcune società di servizi, spesso multinazionali, si erano dotate delle tecnologie necessarie per introdurre gradualmente forme di smart-working al proprio interno, imponendo ai propri manager obiettivi di avviamento a tale modalità di tutti i dipendenti fino ad almeno una settimana lavorativa per mese. Forse è opportuno a questo punto uscire da un equivoco. Lo smart-working non è il telelavoro – come quello disciplinato dalla normativa vigente in Italia, ad esempio. Il presupposto dello smart-working non è infatti che si lavori a casa esattamente come se si fosse in ufficio, quindi con gli stessi orari dell’ufficio. Con lo smart-working, applicabile indifferentemente a dipendenti consulenti o “partite iva”, cambia completamente lo scenario e la prestazione si svincola dall’orario per articolarsi nell’obiettivo di impresa, nella produzione di ricavi. Smart working è infatti una filosofia manageriale che si fonda su un rovesciamento della prospettiva: alle persone viene “restituita” flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, in cambio della responsabilizzazione sui risultati. La fase preliminare ed essenziale del nuovo corso è quindi il goal setting, l’individuazione – a inizio anno – degli obiettivi da ottenere nell’anno lavorativo; possono essere obiettivi economici legati al raggiungimento di un budget ma più spesso sono obiettivi gestionali, dalla smaterializzazione dei documenti cartacei, alla digitalizzazione dei processi amministrativi, alla creazione di prodotti, all’efficienza di nuovi processi distributivi, al customer care, ecc. L’accettazione di obiettivi comporta evidentemente l’introduzione di forme crescenti di retribuzione variabile il cui volume può arrivare a eguagliare o superare il salario base e la remunerazione fissa. Questi obiettivi saranno prevalentemente slegati dalla presenza di un orario di lavoro, o meglio lo saranno solo nel caso in cui lo smart-worker svolga servizio di assistenza al pubblico, e in questo caso non potrà che esserci una rigorosa turnazione. Ma in tutti gli altri casi il raggiungimento della performance sarà ottenuto a prescindere dall’esistenza di un orario di lavoro. Anzi, l’accettazione di obiettivi necessariamente sfidanti, considerata la prospettiva del bonus, induce a oltrepassare la dimensione classica della giornata lavorativa, quella contrattuale, lavorando dalle prime ore dell’alba e talvolta fino a notte; e spesso anche nei giorni festivi. La lavorazione a cottimo, sostanzialmente scomparsa nell’industria manifatturiera, ricompare, magicamente riproposta al lavoro cognitivo di massa e da lì torna a pervadere la società.

Come viene reso possibile e accettabile il passaggio a nuove forme alienanti di cottimo? Si dà luogo inizialmente a forme di dissuasione dalla permanenza dell’obsoleta “forma ufficio” attraverso l’introduzione di open space con scrivanie spersonalizzate precedute dall’obbligo di utilizzare modalità lavorative completamente paperless e di portarsi il pc a casa. Scompaiono quindi le vecchie scrivanie con foto e ninnoli personali, e ogni giorno sarà una scrivania nuova e diversa, senza che questo possa restituire al lavoro quella patetica attrazione costituita dal proprio “banco” con oggetti e pratiche personali, oppure dalla cerimonia del caffè e delle battute post-partita con il collega a fianco.  Segue l’invito esplicito a “starsene a casa” (proprio così, e oggi dobbiamo dire: un invito ante litteram) per almeno enne giorni nel corso della settimana, sottolineando i vantaggi della serenità – niente stress pendolare da viaggio in andata e di ritorno -, del tempo risparmiato (quello per raggiungere il luogo di lavoro), del risparmio economico (ancora il viaggio, ma anche la baby sitter in qualche caso), e infine del miglioramento del work-life balance, che la soluzione proposta presenta. Questa presentazione induce il lavoratore a pensare che nella proposta di “non presentarsi sul luogo di lavoro”, nella scomparsa del cartellino, non si nasconda la volontà di emarginarlo e alla lunga di ristrutturarlo o tagliarlo; anche perché parte del bonus è proprio legato alla quantità di lavoro effettuato in modalità  smart. Così facendo gli uffici si svuotano costantemente di almeno un terzo dei posti di lavoro, e in tale prospettiva i locali vengono velocemente ristrutturati perché non possano accogliere più di due terzi degli addetti, con questo tagliando i ponti alle proprie spalle circa il ritorno al canone lavorativo precedente; mentre il resto dello spazio viene destinato a sale riunioni. È evidente che questa soluzione consente di per sé risparmi sui costi di affitto dei locali, in caso di trasloco, ma non è questa la ragione prevalente della nuova strategia.

Già le prime statistiche sulle ore di utilizzo del pc connesso al server aziendale nonché la quantità e la qualità del lavoro prestato mostrano impennate record della percentuale di produttività, con riferimento al tempo di lavoro in modalità smart. Scompare il tasso di assenteismo, scompare l’assenza per malattie. Lo smart-working è attivabile con flessibilità, e quindi in presenza di un malessere un lavoratore commuta facilmente una potenziale assenza per malattia con la richiesta di una o più giornate di smart-working in cui il lavoro sarà ugualmente erogato. Perché nulla cambia agli effetti della prestazione, del raggiungimento del goal, il cui ottenimento va perseguito a prescindere dalle assenze per malattie, che si sia “in mutua” o meno. Lo smart-worker si avvia quindi a diventare progressivamente un manager, più esattamente un micro-manager, un manager di sé stesso. Il suo obiettivo di vita, perché nello smart-working la giornata lavorativa si estende fino a coincidere con quella esistenziale, integra e rispecchia quello dell’azienda. Egli è parte cosciente del ciclo complessivo pur senza alcuna facoltà e capacità di determinarlo, mentre il controllo sulle condizioni della produzione, da parte del top-management, è implicitamente garantito dalle nuove regole di ingaggio. Il lavoro cognitivo, a lungo considerato, da imprenditori e manager, come poco produttivo, attraverso l’uso estremo della digitalizzazione applicato al cottimo, è trasformato in una nuova leva di ricchezza. Ecco che ci troviamo quindi in quella situazione in cui nella produzione il principale capitale fisso diviene l’uomo stesso. Il suo surplus comportamentale è estratto e messo a valore. L’incremento della produttività raggiunge livelli tali da preoccupare il top management circa la resistenza e a inviare warning ai propri dipendenti con raccomandazioni a seguire delle regole quali quella di individuare un orario lavoro, vestirsi come se si andasse al lavoro, prevedere delle pause. Esaminata da un punto di vista operaistico, questa è la suprema diavoleria del capitale cognitivo. Laddove esisteva il cartellino da timbrare rigorosamente e il controllo dei tempi, ora abbiamo l’invito a lavorare da casa, a restare a casa, a non venire in ufficio. La dotazione di devices molto evoluti, collegati ai server aziendali, consente di lavorare da remoto (da casa) come e meglio, oltre che di più, che in ufficio. Inoltre, la maniacale e meticolosa cibernetizzazione di ogni funzione provoca la scomparsa del decisore, sia intermedio che apicale: a decidere è la procedura o il manuale, mentre i top manager ormai decidono solo le operazioni straordinarie.

Nell’epoca industriale il tempo diviene moneta di scambio, ma l’organizzazione del lavoro è dominata e preordinata da fattori scientifici di divisione del lavoro che lo rendono totalmente prevedibile nella dimensione e nella qualità. Di qui sono arrivate le ore massime lavorabili, le pause e le feste, gli straordinari; l’organizzazione sorveglia e presidia le attività del lavoratore ma allo stesso tempo lo solleva da ogni responsabilità circa l’obiettivo finale. Nei modelli di smart-working, il tempo si fa liquido, come lo spazio, è condiviso tra organizzazione e “risorsa”, ma il suo gestore assoluto è lo smart-worker, è lui che mette in atto le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo, di cui è responsabile. Salta conseguentemente la segregazione fordista tra tempo di lavoro e di non lavoro, che peraltro non era presente nei sistemi rurali e artigianali precedenti alla rivoluzione industriale. Nella modalità smart spazio e tempo collassano, e la percezione del lavoratore è quella di riuscire a essere presente in contesti diversi e in un tempo che approssima continuamente il presente. Le tecnologie della connessione hanno prodotto un sistema di relazioni in grado di trascendere le due dimensioni, e smart è lavorare in tempi e luoghi diversi. Lentamente lo smart-worker si rende conto di operare in un contesto organizzativo mutato nei suoi fondamenti, muovendosi alla ricerca di un bilanciamento tra le richieste organizzative e le proprie abilità e attitudini personali: così la esperienza lavorativa sfocerà in una nuova definizione di sé, e la sua identità personale verrà costruita attraverso la dimensione professionale. Egli praticando il proprio ruolo lo ricrea continuamente (job crafting) e, schiavo del budget, incarna l’ideale dell’impresa.  Come è già stato detto più volte, lungi dall’entrare nell’era della “fine del lavoro”, siamo in presenza dell’’era del “lavoro senza fine”, dove alla sempre più totale separazione dei corpi corrisponde l’attività sempre più interconnessa dei cervelli.

Milioni e milioni di lavoratori cognitivi in tutto il pianeta stanno massicciamente per entrare in questo nuovo mondo, che al momento non viene percepito così distopico o meglio orribile, come può apparire ictu oculi al vecchio operaista. Perché l’esperimento strisciante è diventato, attraverso l’emergenza del virus, rivoluzione. Oggi lo smart-working è salvifico, protegge dall’infezione, fa intravedere risparmi energetici, guarisce dall’assuefazione ai viaggi in automobile, dall’ossessione del possesso di un’auto, riduce l’inquinamento, riporta alla dimensione suggestiva del laboratorio artigianale aumentata dalla potenza della connessione.  E oggi il lavoro “ai domiciliari” si diffonde in modo inarrestabile; all’alba del dopo pandemia, della prima pandemia interconnessa e mondiale, nulla sarà come prima; e il “nuovo mondo”, disciplinare e smart assieme, cercherà di imporsi come il migliore e l’unico dei mondi possibili, portando agli estremi i propri benefici fino a trasformarli nei suoi limiti; serve urgentemente un nuovo paradigma della critica.

http://effimera.org/il-lavoro-ai-domiciliari-di-giorgio-moroni/

 

 

Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera –  Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.

  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020
  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo
  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020
  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)
  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020
  6. Franchi, cit.
  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020
  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020
  9. Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica

https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/

 

Pagherete caro, pagherete tutto! – Federico Giusti

Cresce la rabbia e l’impotenza. Sono questi gli stati di animo sempre più diffusi a fine Marzo 2020.

La rabbia dinanzi alle migliaia di morti che finiranno negli annuari statistici. Defunti in attesa di sepoltura in qualche camera mortuaria cimiteriale. Rabbia perché la crisi sanitaria provocata dai contagi ha solo palesato quanto in pochi denunciavano da anni: sanità al collasso tra tagli, privatizzazioni e spending review.

I medici cinesi arrivati in nostro soccorso hanno riconosciuto grande professionalità ai sanitari in trincea ma allo stesso tempo ci hanno ricordato che ci sono troppi ospedali vecchi e fatiscenti, di vecchia concezione e inadatti ad affrontare le emergenze. Hanno giudicato insufficienti i Dpi (dispositivi di protezione individuale) in dotazione e insostenibili i carichi di lavoro, acuiti dalla carenza di personale. Per anni abbiamo contestato la costruzione degli ospedali in project financing o la chiusura di tanti presidi, gli accorpamenti compulsivi delle Asl senza mai verificare quanti servizi erano stati ridotti o perfino cancellati.

La rabbia scaturisce anche dalla impotenza che ha accompagnato la nostra azione sindacale, sociale e politica da 10 anni a questa parte. Sono stati cancellati 70 mila posti letto, chiuse 175 unità ospedaliere e in un solo biennio, tra il 2010 e il 2012, tagliati 25 miliardi di euro favorendo la spesa delle famiglie per la sanità privata, dopo aver nel frattempo impoverito quella pubblica.

Erano gli anni, siamo nel 2011, del pareggio di bilancio con tanto di modifica dell’art 81 della Costituzione, l’Europa chiedeva a noi tutti\e senso di responsabilità e la contrazione delle spese pubbliche. Peccato che nel frattempo continuavano a crescere le spese militari, gli interessi del debito, si speculava, tra scandali e ruberie, sulla sanità pubblica.

La rabbia scaturisce dalla semplice rimembranza dei fatti di cronaca o dalla lettura di vecchi articoli e volantini: solo pochi anni fa scrivevamo che con i tagli imposti al sociale e alla sanità non saremmo stati in grado di fronteggiare situazioni di emergenza. E le previsioni si sono presto dimostrate fondate.

La rabbia aumenta come anche l’odio sociale degli esclusi da ogni ammortizzatore sociale. È cosa risaputa che l’Italia sia il paese dell’economia sommersa, di quanti in assenza di un regolare contratto non potranno usufruire del Fis o della cassa o del bonus da 600 euro.

Gli ammortizzatori sociali nell’attuale emergenza sono poi quelli di sempre; a nessuno è venuto in mente che andavano rivisti nell’ottica di estenderne i benefici. Capita per esempio che le aziende dei settori in cui vigono contratti di lavoro che non prevedono l’attivazione dei fondi di solidarietà e che ricorrono a un diffuso ammortizzatore, il Fondo di Integrazione Salariale (Fis), non potranno pagare gli assegni familiari (Anf) perché una circolare dell’Inps lo esclude categoricamente. La vera ragione di questa esclusione è che il Fis opera solo nei confronti dei lavoratori dei settori dove non sono attivi i fondi di solidarietà degli enti bilaterali. Questi ultimi sono, al pari delle leggi sulla rappresentanza sindacale, l’asse portante delle perverse relazioni sindacali, costruite con la complicità dei sindacati confederali, che hanno comportato sempre più disparità e hanno alimentato la previdenza integrativa. In pratica è stato operato una sorta di ricatto: o si versano i soldi agli enti bilaterali o, in alternativa, si può applicare il Fis. Ma in questo secondo caso si penalizzano i dipendenti a cui sarà inibito l’accesso agli assegni familiari.

Quando leggiamo dichiarazioni secondo cui gli Enti bilaterali sono parte integrante di una democrazia pluralista che affianca lo Stato, la maledetta sussidiarietà, dobbiamo amaramente constatare che neppure l’emergenza Coronavirus e la strage di migliaia di innocenti ha imposto una inversione di rotta, si continua a ragionare nella logica dei patti di stabilità, del non accrescimento della spesa pubblica. Si persevera nella costruzione di un sistema di relazioni sindacali attraverso strumenti coercitivi, consociativi e corporativi.

A contagio terminato, se avessimo la forza di farlo, dovremmo istituire dei tribunali del popolo e sul banco degli imputati mettere non solo i fautori dei tagli e delle politiche di austerità ma anche i loro complici sindacali.

Invece di assicurare ammortizzatori sociali uguali a tutti, si mira a speculare sull’emergenza sancendo di fatto l’obbligo di aderire ad enti bilaterali all’interno dei contratti nazionali, solo per favorire l’assistenza sanitaria integrativa – in netto contrasto con il principio costituzionale dell’universalità del diritto alla salute – e della previdenza complementare, rendendo obbligatoria la presenza di questi enti a livello aziendale e locale.

Ecco cosa sta accadendo nei giorni del contagio, persistono con i tetti di spesa, lesinando perfino sull’acquisto di Dpi, dilatano aziende e servizi per i quali corre l’obbligo di apertura e provano a costruire nuove relazioni sindacali nell’alveo della legge sulla rappresentanza. Vogliono costringerci a tornare vittime della normalità, di quella normalità che avevamo più volte riscontrato come stato di eccezione tra privatizzazioni dei beni comuni e impoverimento sociale e salariale.

Non arrendiamoci allora alla banalità del normale, niente sarà come prima e quanti pensano di cancellare dalla nostra mente la strage degli innocenti e la distruzione della sanità pubblica sappiano che non dimenticheremo e alla occorrenza presenteremo il conto.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/pagherete-caro-pagherete-tutto

 

Coronavirus, dal Cura Italia restano fuori troppi lavoratori. Non è meglio un sussidio universale? – GigaWorkers

Il governo italiano, per il mese di marzo, ha stanziato 25 miliardi con il decreto Cura Italia per sostenere l’economia italiana chiamata a fronteggiare la riduzione dell’attività produttiva a causa della pandemia Covid-19; è un primo passo per rispondere alla probabile recessione che ci colpirà nei prossimi mesi. Al riguardo le previsioni sono ballerine e, al momento, poco attendibili. Si va dalla stima di un calo del Pil italiano dell’11% secondo Goldman Sachs al 2,3% di Moody. Un intervento approvato dal Consiglio dei Ministri che dovrà essere aggiornato intorno alla metà di aprile, un provvedimento d’emergenza che vuole tamponare la situazione attuale ma che risulta insufficiente, e non potrà essere risolutivo. È quindi certo che nei prossimi giorni verrà varata una seconda manovra, anche alla luce della flessibilità che la Commissione Europea deciderà di concedere all’Italia.

Possiamo, per il momento, iniziare a considerare questa prima manovra, dalla quale emerge che la cifra messa a disposizione per sostenere in modo diretto il reddito dei lavoratori e delle lavoratrici è pari a 7.938 milioni di euro (il 31,9% del totale), di cui 4.640 milioni di euro per la cassa integrazione e 1.261 milioni di euro per congedo e indennità ai lavoratori dipendenti del settore privato. Per i lavoratori iscritti alla Gestione Separata e per i lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali dell’Ago (commercianti e piccoli artigiani) sono stati messi a disposizione 2.160 milioni di euro attraverso l’istituzione di un’indennità una tantum, per il solo mese di marzo, di 600 euro esentasse.

Si è scelto dunque di erogare il sostegno al reddito sulla base della tipologia contrattuale e della condizione professionale di partenza. Il ricorso allo strumento della cassa integrazione implica già l’esistenza di un rapporto di lavoro stabile in essere (il 58,4% della somma stanziata a sostegno del reddito). Il reddito che viene emesso dalla cassa Integrazione è pari a circa l’80% dello stipendio.

La Uil ha calcolato che sulla base di uno stipendio medio di 1.316 euro al mese, in media lo stipendio con la cassa integrazione è di poco superiore ai 940 euro netti. Rimane difficile calcolare il numero dei beneficiari. Un rapido calcolo ci permette di stimare che il numero massimo dei probabili ricettori si aggira attorno a 4,9 milioni di lavoratori e lavoratrici dipendenti.

Per i lavoratori autonomi, stimati circa 3,6 milioni, viene erogato invece un bonus straordinario di 600 euro (al momento sono state inviate più di 2,6 milioni di domande, dopo il down del sito dell’Inps il 1 aprile all’inizio della procedura). Da notare come questa cifra si ponga ben al di sotto della soglia di povertà relativa che secondo gli ultimi calcoli dell’Istat ammonterebbe a 750 euro mensili.

Permane tuttavia il rischio che una serie di figure del mondo del lavoro non riescano ad accedere ad alcuna indennità, come gli occasionali senza Partita Iva o i lavoratori on demand (a chiamata e gli intermittenti); oppure che una fetta di lavoratori si ritrovino con un reddito insufficiente a garantire loro la sussistenza, come i part-time o i working poor messi in cassa a zero ore. Bisogna inoltre tener conto del blocco, seppur parziale, delle attività economiche e della libertà di movimento e dei loro effetti sul mancato rinnovo dei contratti a termine e sul lavoro nero, che per molte persone rappresenta la principale, se non l’unica, fonte di reddito.

Sulla base di queste considerazioni, viene spontaneo chiedersi: non sarebbe stato forse più efficace e più semplice disporre di una misura universalistica in grado di garantire reddito a tutte/i coloro che si trovano in difficoltà economica a causa del Coronavirus, a prescindere dalla loro condizione lavorativa? Perché non proporre almeno in questa fase un allargamento dell’accesso al Reddito di Cittadinanza (RdC) nel senso di una minor condizionalità, come è stato auspicato anche dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, o da Vito Crimi, attuale capo politico (ad interim) del Movimento 5 Stelle?

Se consideriamo che in Italia le persone che si trovano in una situazione di povertà relativa sono circa 13 milioni e che al momento soltanto 2,5 milioni usufruiscono del RdC, ne consegue che la platea dei possibili beneficiari è molto più ampia di quella prospettata dal Parlamento e dal Decreto Cura Italia, e che la cifra messa a disposizione appare distante dall’essere un’adeguata risposta alla situazione attuale del Paese.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/06/coronavirus-dal-cura-italia-restano-fuori-troppi-lavoratori-non-e-meglio-un-sussidio-universale/5761553/

 

Covid-19: rendere politica la rabbia – Sara Gandini

L’Italia è una enorme zona rossa, nessuno può uscire di casa, se non per comprovati motivi.

In cosa consiste la crisi che ci ha portato a questa situazione?
La gravità è data dalla mancanza di posti in terapia intensiva. Un articolo su Lancet stima che avremmo bisogno di 5000 posti in più. Già nel 2018 i medici denunciavano che la terapia intensiva a Milano era al collasso per via dell’influenza stagionale. D’altra parte sono stati fatti 37 miliardi di tagli alla sanità negli ultimi 10 anni. Con il taglio delle strutture ospedaliere e dei posti letto siamo passati da 4,5 posti letto per 1000 abitanti a 3,2 nel 2017, contro una media europea di ben 5 posti letto ogni 1000 abitanti. Nel 2018, secondo i dati OCSE, la spesa pubblica per abitante è stata di 2200 dollari. Nello stesso periodo in Francia e in Germania è stata più del doppio.

Lo scopo dei decreti messi in atto dal governo è evitare il contagio con un virus mortale?
L’età media dei deceduti è 81 anni e il rischio riguarda soggetti con due o tre patologie croniche (l’aspettativa di vita in Italia è 83 anni). Molti precisano infatti che la causa di morte  non è “per” Covid-19 ma “con” il Covid-19. In Cina i decessi sono stati circa 3 mila. I migliori modelli predittivi per l’Italia stimano che avremo al massimo 4 mila decessi Covid-19 alla fine dell’epidemia. Essendo dei modelli predittivi si basano su delle ipotesi e le stime hanno ampi margini di incertezza, ma non possiamo fare a meno dei modelli predittivi per fare delle scelte in ambito di salute pubblica. Di certo sappiamo che ogni anno in Italia i decessi per complicazioni influenzali variano tra i 10 e 20 mila.

Come mai gli scienziati hanno posizioni contrastanti?

Nelle statistiche non c’è nulla di oggettivo. Le stime sono fatte sulla base di ipotesi e scelte metodologiche che possono essere differenti. Ad esempio il governo tedesco non include nella lista dei decessi “per” Covid-19 le persone che presentano altre patologie, diversamente da Italia e Cina. E questo fa sì che la percezione sociale sia completamente differente.

Possiamo fidarci dei dati riportati dei media?

In una situazione generale di sfiducia nella scienza, i media non aiutano a diffondere una comunicazione scientifica chiara. Sappiamo che, pur di attirare l’attenzione e vendere la notizia, la creano. Questo ha effetti deleteri su larga parte della popolazione, ma è anche vero che in questa occasione si è diffusa una grande curiosità per la statistica, l’epidemiologia e i modelli matematici. In tanti provano a fare stime e a creare grafici sull’andamento dell’epidemia, grazie alle piattaforme online che permettono di condividere immediatamente dati per analizzarli in tempo reale. Da questo punto di vista, è un interessante esercizio di scienza dal basso.

Cosa avremmo potuto fare in alternativa alla misure decise?
Nessuno contesta i primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’8 marzo in cui si raccomanda a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità. Infatti si sa chi sono le persone che hanno maggiori probabilità di sviluppare forme gravi di malattia e sono loro quelle da tutelare. Le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di casi e mettere in quarantena i loro contatti più stretti, non altro.
I dubbi sorgono invece rispetto alla chiusura di interi comparti produttivi e alle limitazioni delle libertà individuali. Non abbiamo certezza che restrizioni così severe siano davvero efficaci. Per dimostrare che una certa misura abbia effetto è necessario confrontarla con una misura differente, e ora non abbiamo dati in questo senso. Per molti epidemiologi, chiudere le frontiere a patogeni altamente infettivi non garantisce nulla perché i confini sono una realtà estremamente “porosa”.

Il panico che si è scatenato e che non ha aiutato a prendere decisioni con la necessaria calma nasce anche dall’uso di parole che evocano immaginari catastrofici, ma che in termini tecnici hanno altri significati. Infatti lo stesso direttore generale dell’OMS ci tiene a precisare che “pandemia” è “una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura irragionevole”, e aggiunge: “descrivere la situazione come una pandemia non cambia la valutazione sulla minaccia rappresentata da questo coronavirus». Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è “la diffusione mondiale di una nuova malattia”. È infatti l’elevata trasmissibilità – e non tanto il tasso di mortalità – a fare di un’infezione una possibile pandemia. Non è sufficiente che una malattia sia molto diffusa e potenzialmente letale, infatti il cancro non è una pandemia, mentre lo è stata la febbre suina. L’OMS, basandosi su uno studio pubblicato sulla rivista Lancet, ha lanciato un forte allarme anche rispetto alla influenza stagionale. Per avere un’idea delle proporzioni degli eventi di cui stiamo parlando, nel mondo ogni anno sono state stimate fino a 650mila morti per problemi legati ai virus dell’influenza. Infatti mentre la letalità dell’influenza è sottostimata, quella da coronavirus è molto probabilmente sovrastimata perché non si sa quante siano le persone realmente entrate in contatto con il virus.

Di fronte a scelte emergenziali di questo tipo, è importante cercare di capire i numeri ma soprattutto porci domande di senso. Per fare un confronto con realtà che conosco di più penso ai tumori, per il quali la mortalità è almeno 10 volte più elevata. L’organizzazione mondiale della sanità ha stimato che a causa dell’inquinamento abbiamo avuto 3,2 milioni di decessi prematuri in tutto il mondo nel 2010, eppure le misure adottate dai governi a questo riguardo sono sempre state minime. Ma come dice un’amica dalle grandi intuizioni, i tumori non sono contagiosi, mentre l’immaginario di un virus invisibile, che ti colpisce grazie alla vicinanza del corpo dell’altro, viaggia veloce, forse più del virus stesso.

Sento quindi la necessità di ragionare sull’efficacia di scelte così drastiche, per capire le giuste proporzioni di questi eventi, perché in questi momenti c’è bisogno di avere un’intelligenza politica strategica di lunga veduta. Mi chiedo quindi chi pagherà la crisi economica che arriverà, chiudendo in casa l’Italia intera. Quante persone perderanno il lavoro? Quanti negozianti/ristoranti/piccoli imprenditori dovranno chiudere? E le badanti, i precari, i riders, i giovani che lavorano a progetto? Il mio timore è che le conseguenze della cura saranno peggiori della malattia che si vuole curare e che le malattie e i morti prodotti dalla recessione mondiale saranno molti di più di quelli che moriranno a causa del virus.

Ma in questo momento ci vuole coraggio a prendere parola per mettere in dubbio la sensatezza delle misure di contenimento senza precedenti decise per l’emergenza Covid-19. Quando qualcuno ci prova subito scatta il linciaggio. Invece di prendersela con le forze politiche che ci hanno portato a questa situazione, la rabbia viene rivolta verso chi pone dei dubbi. Non è ora di fare politica, mi dicono. Così, se provi ad esercitare senso critico, diventi automaticamente un’incosciente insensibile. I media hanno condizionato talmente l’opinione pubblica che chi esce per una passeggiata diventa una specie di untore manzoniano e nascono “le sentinelle di condominio”. Ci stanno bombardando giorno dopo giorno con dati di cui si fatica a capire il senso. In prima pagina le notizie puntano su un immaginario apocalittico, facendo leva su paure consce e inconsce. E trovare le parole, e quindi il simbolico, che sappiano fare ordine, quando lo stato, i media e la scienza hanno perso autorità, non è facile.

La rabbia può essere un’energia positiva ma ci vuole indipendenza simbolica per capire come renderla politica e farne qualcosa di buono. Così mi guardo indietro alle esperienze passate.
Tognoni, che è stato direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud, ricorda che ai tempi di Seveso, quando l’epidemiologia e la sanità erano più forti, la credibilità dell’istituzione è cresciuta perché si è appoggiata ad una comunità scientifica in dialogo con i cittadini. Ora invece un problema di salute pubblica è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, tanto che nella narrazione il virus diventa un nemico invisibile che può colpire mortalmente ovunque e chiunque, e la paura e l’impotenza diventano le protagoniste. Di fronte ad una situazione di “sicurezza nazionale” contro questo invasore imprevedibile lo stato si è posto come garante, senza sentire il bisogno di fare riferimento ad una comunità scientifica. Da qui deriva il disordine simbolico e la mancanza di autorità.

Il Covid-19 non è solo una emergenza sanitaria. È un problema politico. D’altra parte non vi è problema scientifico che possa dirsi neutrale. Se dovremo affrontare una crisi economica di proporzioni imprevedibili, se stiamo accettando che vengano limitate libertà fondamentali, non è a causa di un virus, ma di governanti dissennati che hanno tagliato i fondi al sistema sanitario, e che ora hanno la pretesa di avere trovato la soluzione giusta nel fermo immagine della vita sociale ed economica.

La narrazione che è passata è che i cittadini sono degli “irresponsabili” e lo stato deve fare ordine.

Siamo d’accordo che vista l’eccezionalità della situazione lo stato deve per Costituzione preoccuparsi di tutelare la salute dei cittadini con ogni mezzo, ma fino a che punto e di fronte a quale emergenza possono essere messe in discussione le libertà fondamentali? E se domani l’emergenza saranno i sacrifici economici?

Quindi io, come donna e ricercatrice che lavora in ambito medico e scientifico, non posso che diffidare di uno stato che punta tutto su scelte emergenziali e che non rilancia, né nel dibattito pubblico né come scelte politiche, le questioni strutturali di base della nostra società.

Proprio di fronte a crisi di questo tipo è necessario pensare a come socializzare la rabbia e renderla politica. La rabbia verso uno stato che doveva tutelare la salute pubblica e invece ci sta portando verso una crisi economica dalle dimensioni imprevedibili.

Sara Gandini è epidemiologa e biostatistica. Laureata in Statistica economica, ha conseguito il master in Biometria presso l’università di Reading (UK) e il dottorato in Ricerca epidemiologica presso l’università di Birmingham (Publich Health)

http://effimera.org/covid-19-rendere-politica-la-rabbia-di-sara-gandini/

 

It’s the capitalism, stupid! – Maurizio Lazzarato

«L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace

 

Il capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.

Il blocco totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari, il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti (ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.

Non vi contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.

La crisi del capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine degli anni Settanta.

Crisi che è diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.

Samir Amin, marxista che guarda il capitalismo dal Sud del mondo, la chiama «lunga crisi» (1978-1991) che si produce esattamente un secolo dopo un’altra «lunga crisi» (1873-1890) .

Seguendo le tracce lasciate da questo vecchio comunista, potremo cogliere similitudini e differenze tra queste due crisi e le alternative politiche radicali che la circolazione del virus, che sta rendendo vana la circolazione della moneta, apre.

La prima lunga crisi

Il capitale ha risposto alla prima lunga crisi, che non è soltanto economica perché arriva dopo un secolo di lotte socialiste, culminate nella Comune de Parigi «capitale de XIX secolo» (1871), con una triplice strategia: concentrazione/centralizzazione della produzione e del potere (monopoli), allargamento della mondializzazione e una finanziarizzazione che impone la sua egemonia sulla produzione industriale.

Il capitale diviene monopolistico facendo del mercato una sua appendice. Mentre gli economisti borghesi celebrano l’«equilibrio generale» che il gioco della domanda e dell’offerta determinerebbe, i monopoli avanzano grazie a spaventosi disequilibri, guerre di conquista, guerre tra imperialismi, devastazione di umani e di non umani, sfruttamento, rapina. La mondializzazione significa una colonizzazione che sottomette ormai il pianeta intero, generalizzando la schiavitù e il lavoro servile, per la cui appropriazione si affrontano gli imperialismi nazionali armati fino ai denti.

La finanziarizzazione produce un’enorme rendita di cui approfittano soprattutto i due più grandi imperi coloniali dell’epoca, l’Inghilterra e la Francia. Questo capitalismo, che segna una profonda rottura con quello della rivoluzione industriale, sarà l’oggetto delle analisi di Hilferding, Rosa Luxembourg, Hobson. Lenin è sicuramente il politico che ha colto meglio e in tempo reale il cambiamento della natura del capitalismo e con timing ancora insuperato ha elaborato, con i bolscevichi, una strategia adeguata all’approfondimento della lotta di classe che centralizzazione, mondializzazione, finanziarizzazione implicano.

La socializzazione del capitale, su una scala e a una velocità fino quel momento sconosciute, farà rifiorire i profitti e le rendite, provocando una polarizzazione dei redditi e dei patrimoni, un super sfruttamento dei popoli colonizzati e una esacerbazione della concorrenza tra imperialismi nazionali . Questo breve e euforico periodo, compreso tra il 1890 e il 1914, la «Belle époque», apre al suo contrario: la prima guerra mondiale, la rivoluzione sovietica, guerre civile europee, fascismo, nazismo, Seconda guerra mondiale, l’avvio dei processi rivoluzionari e anticoloniali in Asia (Cina, Indocina), Hiroshima e Nagasaki.

La «belle époque» inaugura l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Queste ultime si succederanno lungo tutto il Ventesimo secolo, ma solo nel sud nel mondo, nei paesi in grande «ritardo» di sviluppo tecnologico, senza classi operaie, ma con molti contadini. Mai la storia dell’umanità aveva conosciuto una tale frequenza di rotture politiche, tutte, come disse Gramsci a proposito della sovietica, «contro il Capitale» (di Marx).

La seconda lunga crisi

Comincia già all’inizio degli anni Settanta, quando la potenza imperialista dominante, liberando il dollaro dagli impacci dell’economia reale, riconosce la necessità di cambiare strategia rompendo il compromesso fordista.

Durante la seconda lunga crisi (1978-1991) i tassi di crescita dei profitti e degli investimenti si dimezzano rispetto al dopoguerra e non torneranno mai più a quei livelli. Anche in questo caso la crisi non è solo economica, ma interviene dopo un potente ciclo di lotte in Occidente e una serie di rivoluzioni socialiste e di liberazioni nazionali nelle periferie. Il capitale risponde alla caduta del profitto e alla prima possibilità della “rivoluzione mondiale”, riprendendo la strategia di un secolo prima, ma con una più forte concentrazione del comando sulla produzione, una mondializzazione ancora più spinta e una finanziarizzazione capace di garantire un’enorme rendita ai monopoli e a gli oligopoli. La ripresa di questa triplice strategia costituisce un salto di qualità rispetto a quella di un secolo fa. Lenin credeva che i monopoli della sua epoca costituissero la «stadio ultimo» del capitale. Al contrario, si sviluppa, tra il 1978 e il 1991, una nuova e più agguerrita tipologia di ciò che Samir chiama «oligopoli generalizzati» perché controllano oramai l’insieme del sistema produttivo, dei mercati finanziari e della catena del valore. La celebrazione del mercato nel momento stesso in cui si affermano i monopoli caratterizzerà anche la ripresa dell’iniziativa capitalista contemporanea (Foucault parteciperà a questi fasti, infettando generazioni di sinistrosi accademici).

Dopo la seconda «belle epoque» segnata dallo slogan di Clinton «It’s the economy, stupid», la fine della storia, il trionfo del capitalismo e della democrazia sul totalitarismo comunista, e altre amenità del genere, come un secolo fa (e in maniera differente) si apre l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni. Guerre certe, rivoluzioni solo (lontanamente) possibili.

Il trittico, concentrazione, mondializzazione, finanziarizzazione è all’origine di tutte le guerre, le catastrofi, economiche, finanziarie, sanitarie, ecologiche che abbiamo conosciuto e che conosceremo. Ma procediamo con ordine. Come funziona la fabbrica del disastro annunciato?

L’agricoltura industriale, una delle cause maggiori dell’esplosione del virus, fornisce un modello del funzionamento della nuova centralizzazione del capitale da parte degli «oligopoli generalizzati» (1). Attraverso le semenze, i prodotti chimici e il credito gli oligopoli controllano la produzione a monte, mentre a valle lo smercio delle merci prodotte e la fissazione dei prezzi non è determinata dal mercato ma dalla grande distribuzione che li fissa in maniera arbitraria affamando i piccoli agricoltori indipendenti.

Il controllo capitalistico sulla riproduzione della «natura», la deforestazione, l’agricoltura industriale e intensiva altera profondamente il rapporto tra umani e non umani da cui emergono, da anni, nuovi tipi di virus. Lo sconvolgimento degli ecosistemi da parte di industrie che ci dovrebbero nutrire, è sicuramente a fondamento delle ciclicità ormai assodata dei nuovi virus.

Il monopolio dell’agricoltura è contemporaneamente strategico per il capitale e mortale per l’umanità e il pianeta. Lascio la parola à Rob Wallace, autore di «Big Farms Make Big Flu», il quale sostiene che l’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente legato al modello industriale dell’agricoltura (e in particolare la produzione del bestiame) e ai profitti delle multinazionali.

«Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate (…) La quasi totalità del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati, minacciando il mondo intero (…) Allevare monoculture genetiche di animali domestici rimuove ogni tipo di barriera immunologica in grado di rallentare la trasmissione. Grandi densità di popolazione facilitano un più alto tasso di trasmissione. Condizioni di tale sovrappopolamento debilitano la risposta immunitaria [collettiva]. Alti volumi di produzione, aspetto ricorrente di ogni produzione industriale, forniscono una continua e rinnovata scorta di suscettibili, benzina per l’evoluzione della virulenza. In altri termini l’agroindustria è talmente concentrata sui profitti che l’essere colpiti da un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è considerato come un rischio che val la pena correre».

La finanziarizzazione

La finanziarizzazione funziona come una «pompe à fric» (pompa da soldi) operando un prelevamento (rendita) sulle attività produttive e su ogni forma di reddito e di ricchezza in quantità inimmaginabili anche per la finanziarizzazione a cavallo del XIX e XX secolo. Lo Stato gioca un ruolo centrale in questo processo, trasformando i flussi di salario e reddito in flussi di rendita. Le spese del Welfare (soprattutto le spese per la sanità), i salari, le pensioni sono oramai indicizzati sull’equilibrio finanziario, sul livello cioè della rendita desiderato dagli oligopoli. Per garantirlo, i salari, le pensioni, il Welfare sono costretti ad adeguarsi, sempre al ribasso, alle esigenze dei «mercati» (il mercato non è mai stato né sregolato né capace di autoregolazione, nel dopoguerra è stato regolato dallo Stato, negli ultimi 50 anni dai monopoli). I miliardi risparmiati sulle spese sociali sono messi a disposizione delle imprese che non sviluppano né impiego né crescita né produttività, ma rendita.

Il prelevamento si esercita in maniera privilegiata sul debito pubblico e privato che costituiscono fonti di una ghiotta appropriazione, ma anche focolai di crisi quando si accumulano in maniera delirante come dopo il 2008 favoriti dalle politiche delle banche centrali (la bolla dei debiti delle imprese che hanno usato il quantitative easing per indebitarsi a costo zero per speculare in borsa, sta esplodendo!) Le assicurazioni e i fondi pensione sono degli avvoltoi che spingono continuamente alla privatizzazione tutto il Welfare per gli stessi motivi.

La crisi sanitaria

Questo meccanismo di cattura della rendita ha messo in ginocchio il sistema sanitario e indebolito le capacità di fronteggiare le urgenze sanitarie.

In questione non sono soltanto i tagli alle spese sanitarie cifrati in miliardi di dollari (37 negli ultimi dieci anni in Italia), il non reclutamento di medici e personale sanitario, la chiusura continua di ospedali e la concentrazione delle attività restanti per aumentare la produttività, ma soprattutto il criminale «zero bed, zero stock» del New Public Management. L’idea è di organizzare l’ospedale secondo la logica dei flussi just in time dell’industria: nessun letto deve restare inoccupato perché costituisce una perdita economica. Applicare questo management alle merci (senza parlare dei lavoratori!) era già problematico, ma estenderlo ai malati è da pazzi. Lo zero stock riguarda anche il materiale medico (le industrie sono nella stessa situazione per cui non hanno dei respiratori disponibili in stock, ma devono produrli), i medicinali, le maschere ecc. tutto deve essere «just in time».

Il piano anti pandemia (dispositivo biopolitico per eccellenza) costruito dallo Stato francese dopo la circolazione dei virus H5N1 nel 1997 e nel 2005, Sras nel 2003, H1N1 nel 2009, che prevedeva riserve di maschere, respiratori, medicinali, protocolli di intervento, preparazione del sistema sanitario ecc., gestito da una istituzione specifica (Eprus), è stato, a partire dal 2012, smantellato dallo logica contabile che si è affermata nella Pubblica amministrazione ossessionata da un compito tipicamente capitalista: ottimizzare sempre e comunque il denaro (pubblico) per cui ogni stock è una immobilizzazione inutile, adottando un altro riflesso tipicamente capitalistico: agire sul breve periodo. Per cui lo Stato francese perfettamente allineato con l’impresa, mancando a ogni principio di «salvaguardia delle popolazioni», si trova completamente impreparato di fronte a l’«imprevedibile» emergenza sanitaria attuale.

Basta un qualsiasi intoppo e il sistema sanitario salta producendo costi in vite umane, ma anche costi economici molto più elevati dei miliardi che sono riusciti a accaparrarsi sulla pelle della gente (con buona pace di Weber, il capitalismo non è un processo di razionalizzazione, ma esattamente il suo contrario).

Ma è il monopolio sui farmaci che è forse l’ingiustizia più insopportabile.

Con la finanziarizzazione molti oligopoli farmaceutici hanno chiuso le loro unità di ricerca e si limitano a comprare i brevetti da start-up per poter possedere il monopolio dell’innovazione. Grazie al controllo monopolistico propongono in seguito i medicinali a prezzi esorbitanti, riducendo l’accesso ai malati. Il trattamento della epatite C ha fatto recuperare in pochissimo tempo 35 miliardi all’impresa che aveva comprato il brevetto (costato 11), facendo degli enormi profitti sulla salute dei malati (senza neanche più la solita giustificazione dei costi della ricerca, trattasi di pura e semplice speculazione finanziaria). La Gilead, proprietaria del brevetto è anche quella che possiede il farmaco più promettente contro il Covid-19. Se non si espropriano questi sciacalli, se non si distruggono gli oligopoli delle Big Pharms, ogni politica di salute pubblica è impossibile.

I settori della «salute» non sono governati dalla logica biopolitica del «prendersi cura della popolazione» né dall’altrettanto generica «necropolitica». Sono comandati da dei precisi, minuziosi, pervasivi, razionali nella loro follia, violenti nel loro effettuarsi, dispositivi di produzione del profitto e della rendita (2).

La governamentalità non ha nessun principio interno che ne determina gli orientamenti, perché ciò che deve governare è il trittico concentrazione, mondializzazione, finanziarizzazione e le sue conseguenze non sulle popolazioni, ma sulle classi. I capitalisti ragionano in termini di classi e non di popolazione, e anche lo Stato che gestiva i cosiddetti dispositivi biopolitici, decide ormai apertamente su queste basi perché è letteralmente in mano ai «fondés du pouvoir» del capitale da almeno cinquant’anni. È la lotta di classe del capitale, il solo, per il momento, che la conduce coerentemente e senza esitazione, che orienta tutte le scelte come dimostrano spudoratamente le misure anti-virus.

Tutte le decisioni e i finanziamenti presi da Macron sono per le imprese in perfetta continuità con le politiche dello Stato francese dal 1983. Dopo aver represso a manganellate le lotte del personale ospedaliero (medici compresi) che denunciavano il degrado del sistema sanitario durante tutto l’anno appena concluso, ha concesso, una volta scoppiata la pandemia, 2 miserabili miliardi per gli ospedali. Su «pressione» dei padroni ha invece sospeso i diritti dei lavoratori che ne regolano l’orario (adesso si può lavorare fino a 60 ore la settimana) e le ferie (i padroni possono decidere di trasformare i giorni persi a causa del virus in giorni di ferie), senza indicare quando questa legislazione speciale del lavoro finirà.

Il problema non è la popolazione, ma come salvare l’économia, la vita del capitale.

Non c’è nessuna rivincita del Welfare all’orizzonte! Macron ha ordinato uno studio per la riorganizzazione del settore della salute alla «Cassa di depositi e prestiti» che incita a utilizzare ancor più il settore privato.

Il lockdown in Italia è stato a lungo una farsa (come lo è in Francia attualmente), perché la Confindustria si è opposta alla chiusura delle unità di produzione. Milioni di lavoratori si spostavano quotidianamente, si concentravano in trasporti pubblici, fabbriche e uffici, mentre si tacciavano di irresponsabili i runner e si vietavano gli assembramenti di più di due persone.

Sono stati gli scioperi selvaggi che hanno spinto per una chiusura «totale» alla quali gli imprenditori si stanno ancora opponendo.

La dichiarazione dello stato di emergenza di Trump ha trasformato la pandemia in una colossale occasione di trasferimento di fondi pubblici a compagnie private. Secondo quanto emerso lo stato di emergenza sanitaria permetterà a:

– Walmart di condurre drive-thru testing nei 4769 parcheggi dei suoi negozi

– Target di condurre test nei parcheggi dei suoi negozi

– Google di mettere a lavoro 1700 ingegneri per creare un sito web per determinare se le persone hanno bisogno di test – anzitutto nella Bay Area e non su tutto il territorio nazionale

– Becton Dickinson di vendere dispositivi medici

– Quest Diagnostics di elaborare i test di laboratorio

– il colosso farmaceutico svizzero Roche autorizzato da U.S. Food and Drug Administration a usare i propri sistemi diagnostici

– Signify Health, Lab Corp, CVS, LHC Group, di fornire test e servizi sanitari a domicilio

–Thermo Fisher, una società privata di collaborare con il governo per fornire i test

Le azioni di queste compagnie stanno già andando alle stelle.

Dopo che Trump ha smantellato con un timing perfetto il consiglio di sicurezza nazionale per le pandemie nel 2018 (spese inutili!), la «risposta innovativa» del governo, come ha detto Deborah Birx, supervisore della risposta al coronavirus della Casa Bianca, è ora «centrata completamente sullo scatenamento del potere del settore privato».

L’assurdità assassina di questo sistema si rivela non soltanto quando la rendita si accumula come «allocazione ottimale delle risorse» nelle mani di pochi, ma anche quando, non trovando opportunità di investimento o resta nel circuito finanziario o al sicuro nei paradisi fiscali, mentre i medici e gli infermieri mancano di maschere, mancano i tamponi, i letti, il materiale, il personale.

Hanno pompato tutto il denaro che potevano e questo denaro, nelle condizioni del capitalismo attuale, è solo sterile e impotente, carta straccia perché non riesce a trasformarsi in denaro-capitale. Anche i cosiddetti «mercati» se ne stanno rendendo conto e ne domandano sempre di più pur non sapendo cosa farne. I finanziamenti e gli interventi delle banche centrali rischiano di andare a vuoto, perché non si tratta più di salvare le banche, ma le imprese. I miliardi immessi con il quantitative easing sono finiti a finanziare la speculazione delle banche, ma anche delle imprese e degli oligopoli e a gonfiare il debito privato che ha superato da anni quello pubblico. La finanza è più disastrata che dopo il 2008. Ma questa volta, à differenza del 2008 è l’economia reale che si ferma (sia dal lato della domanda che dell’offerta) e non le transazioni tra banche. Rischiamo di assistere a un remake della crisi del ’29 che potrebbe trascinarsi dietro un remake di quello che è successo subito dopo.

Un nuovo piano Marshall?

Il denaro funziona, è potente se c’è una macchina politica che lo utilizza e questa macchina è costituita da rapporti di potere tra classi. Sono questi che si devono cambiare perché sono questi che sono all’origine del disastro. Continuare a iniettare denaro volendo mantenerli inalterati non fa che riprodurre le cause della crisi, aggravandole con la costituzione di bolle speculative sempre più minacciose. È per questo motivo che la macchina politica capitalista sta girando a vuoto provocando danni che rischiano di essere irreparabili.

Le politiche keynesiane non sono state solo una somma di denaro da inserire nell’economia in funzione anti ciclica, ma implicavano, per poter funzionare, un cambiamento politico radicale rispetto al capitalismo a egemonia finanziaria del secolo scorso: il controllo ferreo della finanza (e dei movimenti dei capitali che, adesso, si stanno ritirando velocemente, a causa del virus, dai paesi in via di sviluppo) perché lasciata libera di espandersi e di allargare il potere degli azionisti e degli investitori finanziari che si dividono la rendita, non potrà che ripetere i disastri delle guerre, delle guerre civili e delle crisi economiche del primo Novecento. Il compromesso fordista prevedeva un ruolo centrale delle istituzioni del «lavoro» integrate alla logica della produttività, un controllo dello Stato sulle politiche fiscali che tassavano il capitale e i ricchi per ridurre i differenziali di reddito e patrimonio imposti dalla rendita finanziaria ecc. Niente che assomigli anche lontanamente a queste politiche sta dietro ai miliardi di miliardi che le banche centrali immettono nell’economia e che servono solo a non fare crollare il sistema e a ritardare la resa dei conti. Non cambia assolutamente niente se al posto del quantitative easing ci sono miliardi investiti nella green economy, e neanche se viene stabilito un surrogato di reddito universale (che intanto, se lo danno, lo prendiamo per finanziare le lotte contro questa macchina di morte).

Keynes che conosceva bene queste canaglie diceva che per «garantire il profitto sono disposti a spegnere il sole e le stelle». Questa logica non è minimamente intaccata dagli interventi delle banche centrali, ma confermata. Non possiamo che attenderci il peggio!

Basta spingere un po’ più in là questa logica (ma di molto poco, vi assicuro) e conosceremo nuove forme di genocidio che i diversi «intellettuali» del potere non sapranno poi come spiegarsi («il male oscuro», il «sonno della ragione», la «banalità del male» ecc.).

Le guerre contro i «viventi»

Il confinamento che stiamo vivendo assomiglia molto a una prova generale della prossima, ventura crisi «ecologica» (o atomica, come preferite). Chiusi in casa per difenderci da un «nemico invisibile» sotto la cappa di piombo organizzata da quelli che sono responsabili della situazione creatasi.

Il capitalismo contemporaneo generalizza la guerra contro i viventi, ma lo fa fin dall’inizio della sua storia perché sono l’oggetto del suo sfruttamento e per sfruttarli deve sottometterli.

La vita degli umani, come tutti possono constatare, deve sottostare alla logica contabile che organizza la salute pubblica e decide chi vive e chi muore. La vita dei non umani si trova nelle stesse condizioni perché l’accumulazione del capitale è infinita e se il vivente, con la sua finitudine, costituisce un limite alla sua espansione, il capitale lo affronta come tutti gli altri limiti che incontra, superandoli. Questo superamento implica necessariamente l’estinzione di ogni specie.

Sia la specie umana che le specie non umane sono accattivanti solo come occasioni di investimento e unicamente come fonte di profitto.

Gli oligopoli se ne sbattono altamente (bisogna dirlo come lo sentono!) di tutte le Cop del mondo, dell’ecologia, di Gaia, del clima, del pianeta. Il mondo non esiste che nel breve periodo, il tempo di far fruttificare i capitali investiti. Ogni altra concezione del tempo è loro completamente estranea.

Ciò che li preoccupa è la «rarità» relativa di risorse naturali ancora largamente disponibili cinquanta anni fa. Sono assillati dal garantirsi l’accesso esclusivo di queste risorse di cui hanno bisogno per assicurare la continuità della loro produzione e del loro consumo che costituiscono uno spreco assoluto. Sono perfettamente al corrente che non ci sono risorse per tutti e che lo squilibrio demografico andrà accentuandosi (già oggi 15% della popolazione mondiale vive al nord e 85% nei sud del mondo).

Lontani da ogni preoccupazione ecologica, pronti a tagliare fino all’ultimo albero in Amazzonia, coscienti che solo una militarizzazione del pianeta potrà garantire loro l’accesso esclusivo alle risorse naturali. Non si stanno preparando solo altre enormi catastrofi naturali, ma anche guerre «ecologiche» (per l’acqua, la terra ecc).

Disposti come sempre a regolare i loro conflitti con il sud del mondo attraverso le armi, le utilizzano e le utilizzeranno senza alcun stato d’animo per prendersi tutto di cui hanno bisogno, proprio come con le colonie. L’Africa con le sue risorse è fondamentale, gli africani che ci abitano molto meno.

Ma continuiamo con l’analisi del disastro prossimo venturo già in corso sempre sulle tracce di Samir Amin

La mondializzazione, apparentemente, non oppone più paesi industrializzati a paesi «sottosviluppati». Opera invece una delocalizzazione della produzione industriale in questi ultimi che funzionano come dei subappalti dei monopoli senza alcuna autonomia possibile perché la loro esistenza dipende dai movimenti dei capitali stranieri (tranne in Cina). Ma la polarizzazione centro/periferie che dà all’espansione capitalista il suo carattere imperialista, prosegue e si approfondisce. Si riproduce all’interno paesi emergenti: una parte della popolazione lavora nelle imprese e nell’economia delocalizzata , mentre la parte più importante cade, non nella povertà, ma nella miseria.

La finanziarizzazione impone a questi paesi una «accumulazione originaria» accelerata. Devono industrializzarsi, «modernizzarsi, ripercorrendo in qualche anno quello che i paesi del nord hanno realizzato in secoli. L’accumulazione originaria sconvolge in maniera assurdamente accelerata la vita di umani e non umani e altera i loro rapporto creando le condizioni per l’apparizione di mostri di ogni tipo.

La novità della mondializzazione contemporanea è che questa distribuzione centro/periferia, si installa anche all’interno dei paesi del Nord: delle isole di lavoro stabile, salariato, riconosciuto, garantito da diritti e codici (in via, comunque, di restringimento continuo) circondate da oceani di lavoro non pagato o a buon mercato, senza diritti e senza protezioni sociali (precari, donne, migranti). La macchina «centro/periferie» non è scomparsa. Non solo ha assunto la forma neocoloniale, ma si è inserita anche nelle economie occidentali.

Analizzare l’organizzazione del lavoro partendo dal general intellect, dal lavoro cognitivo, neuronale e via cantando, è assumere un punto di vista eurocentrico, uno dei peggiori difetti del marxismo occidentale che continua, imperterrito, a riprodursi.

I paesi delle periferie non sono controllati e comandati solo dalla finanza, ma anche dal monopolio della tecnica e della scienza strettamente in mano agli oligopoli (il diritto ha messo a loro disposizione anche l’arma della «proprietà intellettuale»). Qualunque sia la potenza della tecnica e della scienza , si tratta di dispositivi che funzionano all’interno di una macchina politica. Il capitalismo che stiamo subendo è, per dirlo con una formula, un XIX secolo high-tech, con un sottofondo di darwinismo sociale, altro che «capitalismo delle piattaforme», numerico, della conoscenza ecc. E’ la macchina del capitale che impone centralizzazione, finanziarizzazione, mondializzazione e sicuramente né la scienza e né la tecnica.

Guerre certe! E le rivoluzioni?

La seconda lunga crisi, come la prima, apre a una nuova epoca di guerre e di rivoluzioni.

La guerra ha cambiato di natura. Non si scatena più tra imperialismi nazionali come nella prima parte del XX secolo. Ciò che emerge dalla lunga crisi non è l’Impero di Negri e Hardt, ipotesi largamente smentita dai fatti, ma una nuova forma di imperialismo che Samir Amin chiama «imperialismo collettivo». Costituito dalla triade Usa, Europa, Giappone e guidato dai primi, il nuovo imperialismo gestisce dei conflitti interni per la spartizione della rendita e conduce delle guerre sociali senza tregua contro le classi subalterne del nord per spogliarle di tutto quello che è stato costretto a cedere loro durante il XX secolo, mentre organizza invece guerre vere e proprie contro i sud del mondo per il controllo esclusivo delle risorse naturali, le materie prime, il lavoro gratuito o a buon mercato, o semplicemente per imporre il suo controllo e un apartheid generalizzato.

Gli Stati che non operano gli aggiustamenti strutturali necessari per farsi saccheggiare saranno strozzati dai mercati e dal debito o dichiarati «canaglia» da dei gentlemen come i presidenti americani che hanno un numero spaventoso di morti sulla coscienza.

I neoliberali americani e inglesi, all’inizio dell’epidemia hanno cercato di spingere ancora oltre la guerra sociale contro le classi subalterne, trasformandola, grazie al virus, in eliminazione maltusiana dei più deboli. La riposta liberista alla pandemia, prima ancora che da Boris Johnson, era stata lucidamente articolata da Rick Santelli, analista della emittente economica CNBC: «inoculare tutta la popolazione col patogeno. Si accelererebbe solo un decorso inevitabile, ma i mercati si stabilizzerebbero». Questo è quello che pensano veramente. Con condizioni più favorevoli non esiterebbero un istante a mettere in opera «l’immunità di gregge».

Questi gentlemen, spinti dagli interessi della finanza, sono ossessionati dalla Cina. Ma non per i motivi che loro stessi danno in pasto all’opinione pubblica. Quello che non li fa dormire non è la concorrenza industriale o commerciale, ma il fatto che la Cina, unica grande potenza economica, ha integrato l’organizzazione mondiale della produzione e degli scambi, ma rifiuta di essere inserita nei circuiti dei pescecani della finanza. Banche, cambi, borse, movimento dei capitali sono sotto lo stretto controllo del Partito comunista cinese. L’arma più temibile del capitale, che succhia valore e ricchezza in ogni angolo della società e del mondo, non funziona con la Cina. I grandi oligopoli non possono neanche controllare la produzione, il sistema politico, e sono nell’impossibilità di distruggere le economie, come hanno fatto con altri paesi asiatici a cavallo del passaggio del secolo, quando non rispettavano gli ordini dettati delle istituzioni internazionali del capitale. In questo caso potrebbero essere tentati di aprire un conflitto. Ma vista l’approssimazione e l’incompetenza dei governi e degli Stati imperialisti nella gestione della crisi sanitaria, ci dovrebbero pensare due volte. Visti dall’Oriente, restano comunque delle «tigri di carta».

Per essere chiari: la Cina non è un paese socialista, ma non è neanche un paese capitalista nel senso classico, né tantomeno neolibearale come molti sciocchi dicono.

Lo stato d’eccezione

Quello che Agamben ed Esposito, sulla scia di Foucault, sembrano non voler integrare è che la biopolitica, se mai è esistita, è ora radicalmente subordinata al Capitale e continuare a usare il concetto non sembra avere molto senso. Difficile dire qualsiasi cosa sull’attualità senza un’analisi del capitalismo che si è completamente inghiottito lo Stato. L’alleanza Capitale e Stato che funziona dalla conquista delle Americhe, ha subìto nel XX secolo un cambiamento radicale, di cui Carl Schmitt stesso rende perfettamente e malinconicamente conto: la fine delle Stato come l’Europa l’aveva conosciuto dal XVII secolo perché la sua autonomia si è andata progressivamente riducendo e le sue strutture, tra le quali anche le cosiddette biopolitiche, sono diventate delle articolazioni della macchina del capitale.

I pensatori dell’Italian Thought hanno preso lo stesso abbaglio di Foucault che nel 1979 (ma quaranta anni dopo, è imperdonabile!), anno strategico per l’iniziativa del capitale (la Fed americana inaugura la politica del debito in grande stile), afferma che la produzione di «ricchezza e povertà» è un problema del XIX secolo. La vera questione sarebbe il «troppo potere». Di chi ? Non si capisce. Dello Stato? Del biopotere? Dei dispositivi di governamentalità? Proprio in quell’anno, si delinea invece una strategia tutta imperniata invece sulla produzione di differenziali dementi di ricchezza e povertà, di ineguaglianze mastodontiche di patrimonio e di reddito e il «troppo potere» è del capitale che, se vogliamo usare le loro vecchie e logore categorie, è il «sovrano» che decide della vita e della morte di miliardi di persone, delle guerre, delle emergenze sanitarie.

Anche lo stato d’eccezione è stato ammaestrato della macchina del profitto, tant’è vero che convive con lo stato di diritto e sono, entrambi, al suo servizio. Catturato dagli interessi di una volgare produzione di merci, si è imborghesito, non ha più il significato che gli attribuiva Schmitt! Persa la sua aulica e truce capacità di «decidere» di una fine tragica o un nuovo inizio, è ridotto a semplice strumento di ordine pubblico!

Conclusione sibillina

I comunisti sono arrivati all’appuntamento con la fine della prima «Belle Epoque», armati di un bagaglio concettuale d’avanguardia, di un livello di organizzazione che ha resistito anche al tradimento della socialdemocrazia che ha votato i crediti di guerra, di un dibattito sul rapporto capitalismo-classe operaia, rivoluzione i cui risultati hanno fatto tremare, per la prima volta, capitalisti e Stato. Dopo il fallimento delle rivoluzioni europee hanno spostato il baricentro dell’azione politica all’est, nei paesi e nei «popoli oppressi», aprendo il ciclo di lotte e rivoluzioni più importanti del XX secolo: la rottura della macchina capitalistica organizzata dal 1942 sulla divisione tra centro e colonie, lavoro astratto e lavoro non pagato, tra produzione manchesteriana e rapina coloniale. Il processo rivoluzionario in Cina e in Vietnam è stato d’impulso per tutta l’Africa , l’America Latina e tutti i «popoli oppressi».

Molto rapidamente, subito dopo la Seconda guerra mondiale questo modello è entrato in crisi. Lo abbiamo aspramente e giustamente criticato ma senza essere in grado di proporre niente che si issasse a quel livello. Molto lucidamente dobbiamo dire che siamo arrivati alla fine della seconda «Belle époque» e dunque all’«epoca delle guerre e delle rivoluzioni» completamente disarmati, senza concetti adeguati allo sviluppo del potere del capitale e con livelli di organizzazione politica inesistenti.

Niente paura, la storia non precede linearmente. Come diceva Lenin: «ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni».

Bisogna però ripartire, perché la fine della pandemia darà inizio a scontri di classe molto duri. Partire da quello che è stato espresso nei cicli di lotta del 2011 e del 2019-20, che continuano a mantenere delle significative differenze tra nord e sud. Non c’è alcuna possibilità di ripresa politica se restiamo chiusi in Europa. Capire il perché dell’eclissi della rivoluzione che ci ha lasciati senza alcune prospettiva strategica e ripensare cosa significa una rottura politica con il capitalismo oggi. Criticare i limiti più che palesi di categorie che non rendono minimamente conto delle lotte di classe a livello mondiale. Non abbandonare questa categoria e organizzare invece il passaggio teorico e pratico dalla lotta di classe, alle lotte di classe al plurale. E su questa affermazione sibillina mi fermo.

NOTE:

  1. Gli oligopoli sono «finanziarizzati», il che non significa che un gruppo oligopolistico sia costituito semplicemente da fondi finanziari, assicurativi o pensionistici che operano in mercati speculativi. Gli oligopoli sono gruppi che controllano sia grandi istituti finanziari, banche, fondi assicurativi e pensionistici sia grandi gruppi produttivi. Controllano i mercati monetari e finanziari che occupano una posizione dominante su tutti gli altri mercati.
  2. Il confinamento è sicuramente una delle tecniche biopolitiche (gestione della popolazione tramite statistiche, esclusione e individualizzazione del controllo che entra nei più infimi dettagli dell’esistenza ecc.) ma queste tecniche non hanno una logica propria, piuttosto sono, almeno dalla metà del XIX secolo , de quando il movimento operaio è riuscito a organizzarsi, oggetto di lotta tra le classi (recupero da parte dello Stato delle pratiche di “mutuo soccorso” operaie). Il Welfare nel XX secolo è stato un elemento di scontri e negoziazioni tra capitale e lavoro, strumento fondamentale per contrastare le rivoluzioni del secolo scorso e integrare le istituzioni del movimento operaio, e poi delle lotte delle donne ecc. Il Welfare contemporaneo, una volta che i rapporti di forza sono, come oggi, in favore del capitale, è diventato un suo settore di investimento e management come ogni altra industria e ha imposto la logica del profitto alla sanità, alla scuola, alle pensioni ecc. Anche quando lo Stato contemporaneo interviene come in questa crisi lo fa secondo un punto di vista di classe per salvare la macchina del potere di cui non è che una parte. Non viviamo in una sociétà biopolitica (R. Esposito) ma hypercapitalista.

https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/17483-maurizio-lazzarato-it-s-the-capitalism-stupid.html

 

La follia di lavorare a ogni costo – Mark Bergfeld

Dopo l’evacuazione dei passeggeri contagiati, la nave da crociera Princess Diamond ha avuto bisogno di pulizie approfondite. Un appaltatore australiano ha vinto la gara e puntualmente ha inviato ai suoi addetti alle pulizie un messaggio in cui offriva una «grande opportunità» per una settimana di lavoro. I lavoratori in questione erano addetti alle pulizie delle scuole, privi dell’esperienza necessaria a rapportarsi a situazioni di pericolo batteriologico. Ma visti i loro bassi salari, i cinque-seimila dollari promessi per una settimana di lavoro avrebbero suscitato sicuramente interesse.

Per fortuna, l’United Workers Union non era disposta ad accettare l’atteggiamento irresponsabile dei dirigenti. Hanno protestato davanti al quartier generale dell’azienda e hanno esortato i lavoratori a non accettare l’incarico. L’orario proposto e le condizioni di lavoro erano tutto fuorché trasparenti – e gli addetti alle pulizie non avevano ricevuto nessuna formazione specifica. I lavoratori non erano stati testati per precedenti problemi di salute, che li avrebbero resi più vulnerabili.

La disputa sulla Princess Diamond esemplifica bene il problema alla base del modo in cui i media stanno presentando la crisi del Coronavirus. Si parla tanto di come i governi e le imprese stanno provando a fronteggiare la crisi, ma molta meno attenzione è prestata a come questa stessa crisi sta rimodellando il mondo del lavoro – e il peso che scarica sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici. Invece è la cosa che potrebbe davvero fare la differenza e non solo tra i professionisti del comparto sanitario.

Dai lavoratori del terzo settore a basso reddito fino ai fattorini che a Wuhan hanno continuato a nutrire la popolazione in quarantena, alcune categorie stanno subendo più di altre gli effetti di questa crisi – e spesso sono quelle più a rischio. Gli addetti alle pulizie e gli impiegati delle carceri, ad esempio, sono in molti casi la prima linea di difesa contro la diffusione del virus. È assurdo che spesso siano anche i lavoratori pagati peggio di tutti.

Di fronte a questa situazione – e ai cambiamenti crescenti sulle modalità di lavoro per i lavori a bassissimo reddito – non dobbiamo pensare al Coronavirus come a una sorta di disastro naturale. È urgente stimolare i sindacati affinché proteggano la sicurezza dei lavoratori, per assicurarci che quanti stanno in prima linea siano pagati adeguatamente, da un lato, e dall’altro abbiano tutte le protezioni necessarie.

Il presenzialismo è pericoloso

I capi si lamentano sempre dell’assenteismo dei loro dipendenti. Tuttavia, ai tempi del Coronavirus, dovremmo essere più preoccupati del contrario: il presenzialismo di quanti dovrebbero riguardarsi o avere accesso a trattamenti sanitari ma si sentono obbligati a presentarsi al lavoro.

Ad esempio i lavoratori della ristorazione e affini, che spesso guadagnano talmente poco che saltare un giorno di lavoro li metterebbe nei guai. Come ha commentato un utente di Twitter, se questi lavoratori non avranno accesso alla malattia retribuita, continueranno a presentarsi a lavoro – e con ciò contribuiranno alla diffusione del virus. Nel 2017, secondo l’Us Bureau of Labor Statistics solo il 46 percento dei lavoratori del settore dei servizi ha avuto accesso ai permessi per malattia [negli Stati uniti, ndt].

In Gran Bretagna, invece, la malattia retribuita inizia solitamente dopo il terzo giorno di assenza. Nondimeno, la catena di pub Jd Wetherspoon – che conta più di 45 mila dipendenti – ha dichiarato che tratterà il Coronavirus come qualsiasi altra malattia, e cioè che i lavoratori malati che resteranno a casa per paura di diffondere il virus rimarranno senza paga. La forza lavoro part-time della catena di pub sarà particolarmente colpita da questa politica, dato che i lavoratori inglesi hanno diritto alla malattia retribuita solo se guadagnano più di 118 sterline a settimana.

In Cina, teatro del primo focolaio, le aziende private hanno decurtato i salari o ritardato i pagamenti. In molti casi, i lavoratori sono stati costretti a usare le proprie ferie e a prepararsi per congedi non retribuiti. Alla Foxxconn, fornitore Apple, i lavoratori stanno tornando a lavoro dopo la quarantena per un terzo del salario. Nel frattempo, nel settore della ristorazione i lavoratori si trovano disoccupati perché privi di clienti.

Alcuni datori di lavoro stanno facendo dei cambiamenti. Il Financial Times sta dando consigli ai colletti bianchi su come lavorare da casa, e sostiene che il tanto decantato avvento dello smart working al di fuori dell’ufficio stia finalmente diventando realtà. Molti luoghi di lavoro tradizionali stanno andando verso il lavoro agile, un tempo prerogativa della Silicon Valley e dell’industria tecnologica, per impedire che i propri dipendenti contraggano il virus perdendo ancora più giorni di lavoro per malattia. L’azienda petrolifera Chevron ha chiesto ai suoi trecento e passa lavoratori di Londra di lavorare da casa. Ma questi professionisti che passano al lavoro da casa hanno ben poco impatto sulla diffusione della pandemia, dato che milioni di lavoratori dei servizi e delle fabbriche devono necessariamente operare nei luoghi di lavoro. Se qualche lavoratore si presenta a lavoro malato, si corre il rischio di infettare i clienti; se li fai restare a casa, potresti essere costretto a chiudere del tutto bottega.

Il problema è che la cultura del presenzialismo scarica il peso della decisione sui lavoratori e le lavoratrici – e spesso fa sì che si presentino al lavoro quando dovrebbero invece stare a casa. Il rapporto di forza nei luoghi di lavoro – la tirannia dei capi e il bisogno di essere pagati – porta spesso a prendere una decisione irrazionale che mette in pericolo tutta la società. Anche se presentarsi al lavoro nonostante tutto viene considerato «dedizione», non è affatto un bene per i propri colleghi – né per i clienti.

Il lavoro sta cambiando

Ma non è solo la cultura dei colletti bianchi a cambiare. Sta anche cambiando il contenuto stesso del lavoro – cosa vuol dire lavorare. Questo è soprattutto il caso di quanti lavorano nelle industrie che potrebbero contribuire alla prevenzione delle malattie, come i lavoratori e le lavoratrici di cura, nei settori delle pulizie e sanitario, lo staff medico, che può porre un freno alle conseguenze peggiori del virus, così come per altre persone che possono potenzialmente farsene vettore.

In Nigeria, dove il primo paziente positivo al Coronavirus è stato identificato due settimane fa, le guardie giurate sono state mobilitate per distribuire igienizzanti a tutti quelli che entrano negli edifici. Utilizzare i lavoratori peggio pagati per impedire un focolaio deve andare di pari passo con un aumento dei benefit per i lavori a rischio e, soprattutto, con il diritto alla malattia, così che possano svolgere il loro lavoro in maniera efficiente. Purtroppo, questo non sta assolutamente accadendo – con la maggior parte dei lavoratori sotto pressione affaticati da ulteriori responsabilità senza aumenti di paga.

È una cosa che ho notato durante una recente visita a un museo di Brussels, dove lo staff del museo doveva sanificare le audioguide dei visitatori. Anche se sembra un compito poco importante, i lavoratori quasi mai ricevevano una formazione adeguata su come eseguire questo compito improvviso, che spesso diventava parte del loro lavoro. E ancor più raramente venivano pagati di più per questi compiti aggiuntivi: «fa parte del lavoro», dicevano i capi. Chiunque lavori a contatto con il pubblico sa bene come spesso questi piccoli compiti e attività si sommino finendo col diventare ingestibili. Fatto particolarmente vero quando la malattia causa una carenza di personale.

Nell’industria delle pulizie, il Coronavirus sta intensificando il regime di lavoro, con l’introduzione di nuovi standard di igiene. Questi standard sono decisi da organismi di normalizzazione dominati da compagnie che spesso codificano i propri metodi di lavoro per guadagnare un vantaggio competitivo sul mercato. Ma i lavoratori non possono mettere bocca su questi standard – né è scientificamente provato che producano effetti positivi.

I lavoratori della sanità incaricati di occuparsi della situazione non stanno messi meglio. Una fonte interna all’Us Department of Health and Human Services ha rivelato che il dipartimento non ha abbastanza mascherine protettive per tutti i lavoratori. La mancanza di mascherine protettive sta peggiorando, dato che la popolazione generale le sta acquistando in dosi massicce. Persino l’Us Surgeon General ha dovuto chiedere al pubblico di limitare l’acquisto di mascherine, così che i professionisti del settore sanitario che ne hanno davvero bisogno possano contenere il Coronavirus e curare i lavoratori senza infettarsi a loro volta.

Il focolaio cinese illustra molto bene come sovraccaricare i lavoratori degli ospedali mini alla base tutti gli sforzi nel contrastare il virus. Qui, più di tremila operatori sanitari cinesi hanno contratto il Coronavirus, e otto di loro sono morti. In un caso, un paziente ricoverato nell’ospedale di Wuhan ha infettato dieci medici. La mancanza di rifornimenti sanitari, l’aumento esponenziale del numero di pazienti, e l’alta contagiosità del virus si sono combinati con lo stress, i lunghi orari di lavoro, e la carenza di personale, creando un circolo vizioso per coloro a cui era affidata la gestione della crisi.

Mentre il Coronavirus viaggia da paese in paese, non c’è quasi alcun dubbio che sempre più lavoratori saranno responsabili di doverne gestire gli effetti. Quello che resta da capire è se questo carico di lavoro extra comporterà un aumento dei salari, una maggiore formazione e una maggiore sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Tutte cose fondamentali per garantire alle prime linee di mantenere la propria dignità nello svolgimento del lavoro che sono chiamati a fare.

La fine della gig economy?

I lavoratori della gig economy corrono un rischio particolarmente alto di contrarre il virus – eppure sono fra quelli peggio retribuiti. In Cina come altrove, i rider del food delivery sono in prima linea nel far sì che la popolazione in quarantena sia ben nutrita. Eppure non sanno se la persona che sta ordinando del cibo è malata oppure no.

È vero che il turismo sta rallentando, ma i lavoratori dei servizi che si trovano a stretto contatto con i turisti hanno spesso contratto il Coronavirus, a volte con conseguenze mortali. A Taiwan, un autista di taxi che ha trasportato passeggeri dalla Cina e da Hong Kong è morto lo scorso febbraio. Mentre il turismo rallentava, gli autisti di taxi in Thailandia hanno visto i loro mezzi di sussistenza venire distrutti da paghe che passavano da trenta a dieci dollari al giorno.

Gli ammalati sono spesso invitati a usare taxi o app di ridesharing al posto delle ambulanze. A Londra, una paziente di Coronavirus quando è stata male non ha chiamato l’ambulanza, ma al suo posto ha preso un taxi Uber per andare al pronto soccorso più vicino, dove ha varcato la soglia e si è presentata allo staff della reception. È stata una corsa breve, e l’autista non è stato contagiato. Tuttavia, queste storie sottolineano il pericolo a cui i lavoratori della gig economy sono esposti.

I lavoratori indipendenti della gig economy non hanno diritto alla malattia retribuita o ad agevolazioni per l’assistenza sanitaria. Il Washington Post ha riportato che gli autisti stanno pulendo le loro macchine. Ovviamente, questi autisti non sono pagati per il tempo passato a pulire. A differenza di Lyft, Uber ha mandato ai propri autisti un messaggio interno con le precauzioni dettagliate che devono prendere. Questo non fa altro che sottolineare il fatto che sono suoi impiegati – e dovrebbero essere trattati come tali.

Il modello di lavoro di queste aziende, e la loro gestione algoritmica e il controllo che hanno sui lavoratori, sono insostenibili al tempo del Coronavirus. La mancanza di trasparenza o dei basilari diritti dei lavoratori – con datori che non fanno niente per proteggere i propri dipendenti dalla diffusione del virus – sta contribuendo anche a un razzismo anti-asiatico, e alcuni autisti si rifiutano di accettare passeggeri con tratti asiatici.

Le richieste dei lavoratori, le risposte dei sindacati

Attualmente, sembra che il Coronavirus stia continuando a esacerbare le diseguaglianze del mercato del lavoro. Il movimento dei lavoratori non dovrebbe smettere di fare pressioni sui datori di lavoro, come se fossero semplicemente vittime della situazione. Le aziende dovrebbero garantire mascherine protettive, offrire opportunità di lavoro da casa, e fornire giorni di malattia aggiuntivi e più agevolazioni per l’assistenza sanitaria.

Il Trades Union Congress (Tuc) della Gran Bretagna sta facendo da esempio nel chiedere dei cambiamenti per la malattia retribuita. Per il Tuc, ai lavoratori al di sotto della soglia delle 118 sterline a settimana dovrebbe essere garantita la malattia a partire dal primo giorno. Un cambiamento simile coinvolgerebbe 2 milioni di lavoratori. Il 3 marzo, il primo ministro Boris Johnson ha detto alla Camera dei Comuni che la paga legale per la malattia (94,25 sterline a settimana) sarà garantita a partire dal primo giorno, ma si è rifiutato di rispondere alla domanda del leader del Labour Jeremy Corbyn se questa estensione sarà applicata ai lavoratori part-time.

Nel frattempo, i lavoratori della sicurezza aeroportuale dell’Aeroporto di Francoforte, in Germania, hanno chiesto che gli siano garantite le mascherine protettive. Anche se le mascherine non impediscono necessariamente la diffusione del virus, i sindacati dovrebbero sicuramente chiedere più misure di sicurezza e di salute per i lavoratori della prima linea.

Soprattutto, i sindacati dovrebbero chiedere più giorni di «lavoro da casa» o da remoto – una domanda crescente nella forza lavoro odierna. Anche se il lavoro da casa può presentare dei problemi, come quello di lavorare nei fatti molte più ore, questa misura avrebbe dei vantaggi considerevoli soprattutto per le donne – che hanno più difficoltà nel bilanciare il lavoro con la cura dei bambini e degli anziani.

Senza dubbio, la crisi del Coronavirus porterà a numerosi cambiamenti nel mondo del lavoro. Ma, come per ogni crisi, la domanda è chi ne dovrà pagare il conto. Per i lavoratori e le lavoratrici, un’opzione è il fatalismo – accettare le pretese dei capi che affrontare questi rischi sia oramai «parte del lavoro». Oppure, possiamo insistere sul fatto che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità, e implementino i cambiamenti necessari a far sì che i lavoratori e tutti quanti siano al sicuro.

*Mark Bergfeld è direttore del Property Services & Unicare at Uni Global Union – Europa. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.

https://jacobinitalia.it/la-follia-di-lavorare-a-ogni-costo/


La produzione inarrestabile –
Gianluca De Angelis, Marco Marrone

Analizzando i dati sui settori rimasti in attività con il decreto del governo si scopre che almeno il 40.3% di chi lavora oggi non sarebbe necessario. Ma per fermarli serve un controllo pubblico non solo su cosa produrre ma anche su come si produce

A prescindere dal come la si pensi, il Decreto del 22 Marzo è un evento storico. Dalla sua costruzione, alle modalità di diffusione, fino alla sua effettiva efficacia, si tratta di un atto eccezionale che conferma la particolarità del tempo che stiamo vivendo. La stretta, l’ennesima in poche settimane, arriva nella tarda serata del 21 dalla viva voce del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, via Facebook. Stavolta però non si guarda alle attività dei singoli, ma a quelle produttive: la chiusura di tutto ciò che non è «rilevante». Stiamo rallentando il motore – spiega Conte – non lo stiamo fermando.

Il principio sembra andare incontro a quanto richiesto espressamente e unitariamente da Cgil Cisl e Uil nella stessa giornata: chiudere le produzioni non cruciali onde evitare ulteriori contagi. Nonostante le rassicurazioni da parte di Confindustria, infatti, gli scioperi dovuti al mancato rispetto delle norme sanitarie nei luoghi di lavoro e le denunce di abusi hanno evidenziato un problema concreto sia per quanto riguarda il rischio di contagio, sia per il contemporaneo spostamento di migliaia di persone che rischia di vanificare gli sforzi psicologici ed economici richiesti fin qui alla popolazione. Tuttavia, molta è stata la confusione di queste ore, tra il lobbismo di Confindustria e le minacce di sciopero dei sindacati. Confusione generata soprattutto dall’impiego degli ormai celebri codici Ateco – uno dei principali strumenti di analisi statistica, economica e fiscale del mondo produttivo, che però in questi giorni mostra tutti i suoi limiti nel fotografare in modo affidabile la nostra economia. Viene però da chiedersi: sono i limiti di questo strumento ad aver determinato le oscillazioni di questi giorni o, piuttosto, il modo in cui esso è stato impiegato?

Una delle ambiguità decisive emerse dal discorso di Conte è cosa debba intendersi per attività «essenziali» e quanti lavoratori sarebbero coinvolti dal blocco, che era poi la vera questione «essenziale». Mentre sul primo punto, sin da subito e per tutta la giornata successiva, sono circolate liste più o meno estese con l’elenco delle attività incluse nel provvedimento, sul secondo, ossia quante persone saranno al sicuro nelle loro case, ben pochi dati sono stati diffusi dai media ufficiali o dalle parti coinvolte. Per questo, al di là dello sforzo per individuare le dimensioni della platea che non potrà aderire al martellante invito a stare a casa, la domanda a cui provare a dare risposta non è soltanto in che modo si è giunti a questa decisione, ma anche «che cosa si sta effettivamente decidendo?».

Cosa ci dicono i dati?

Negli ultimi anni la volontà di quantificare ogni aspetto della realtà è diventata un’ossessione tanto degli scienziati quanto dei legislatori. Spesso – basti pensare al decennio dell’austerità – i numeri sono stati un vero e proprio strumento di governo, volto tanto a rassicurare la popolazione quanto a spoliticizzare ogni questione di natura economica. Eppure, mai come durante la pandemia l’informazione numerica è stata sottoposta a un tale sovraccarico di significati. I contagi, le vittime, i tamponi, le vittime, i fondi stanziati, le vittime, i letti in terapia intensiva, le vittime, le offerte, le vittime: un flusso di valori assoluti che invece di avvicinarci alla dimensione umana dei fenomeni descritti, ha finito per allontanarcene. Un’astrazione che ci spinge ad andare oltre la scala dell’umanità, come ha ben colto Fred Uhlman nel suo romanzo L’amico ritrovato. Quelli che  non fanno narrativa, e con i numeri decidono e lavorano, sanno però che il valore assoluto di un fenomeno rischia di non dire molto rispetto al suo significato sociale. È forse anche per questo che sin dalle prime ore del 22 marzo diversi sono stati i tentativi per rispondere alla questione lasciata inevasa dallo stesso Conte: quante persone saranno messe in condizione di #stareacasa?

In realtà, la domanda è tutt’altro che semplice. Nonostante la produzione di dati sia diventata una costante dell’agire umano, il loro utilizzo ai fini conoscitivi dipende da coloro che determinano sia la struttura della raccolta sia quella dell’accesso ai dati stessi. Il loro utilizzo, infatti, presuppone una sequenza di azioni specifica determinata dagli scopi e dagli obiettivi che la animano. Nel quadro della ricerca pubblica, quella serie di azioni permette di comprendere la logica di un intervento normativo e prevederne gli effetti immediati. È questo, in primo luogo, a rendere la mancata individuazione della platea dei lavoratori coinvolti dal Dpcm del 22 Marzo una questione politica.

Quanti sono i lavoratori delle attività essenziali?

L’obiettivo di ridurre l’esposizione al contagio non ha nulla a che vedere con il tipo di attività svolta, piuttosto con le sue caratteristiche di svolgimento. Il punto non è l’attività in sé ma la possibilità di ridurre i contatti con altre persone durante il suo svolgimento nonché gli spostamenti necessari per compierla. In questo senso l’essenzialità di un’attività è meno interessante della possibilità di una sua realizzazione in remoto, ad esempio. Ci sono poi altri aspetti da considerare, non da ultimo il rischio fisico che l’attività comporta, che incide anche sull’esposizione dovuta a eventuali interventi di soccorso. Tali complessità spiegano in parte perché molti imprenditori avessero già optato per una riduzione della produzione, sfruttando a questo fine gli ammortizzatori sociali di sostegno al reddito messi a disposizione con il decreto «Cura Italia». L’intervento del 22 Marzo arriva invece come un’approssimazione successiva alle iniziative spontaneamente già prese. Con la continua crescita esponenziale dei contagi, le misure adottate sin qui risultano insufficienti, motivando il governo a estendere il blocco della produzione su tutte le attività non essenziali. La complessità del compito di individuare quali esse siano è stato risolto dall’ormai noto «allegato 1» comprendente 75 voci.

L’elenco è una parte del complesso sistema di codifica merceologiche delle attività produttive che conosciamo come Ateco. Più avanti si avrà modo di entrare nel dettaglio della sua origine e struttura. Per ora basti sottolineare che la classificazione merceologica riguarda le imprese e non il lavoro che si svolge al loro interno. Il codice Ateco non spiega, quasi mai, che lavoro si svolge. Può dare una mano a identificare il tipo di azienda o a individuare il campo in cui si è occupati. Per questo anche i più informati scorrendo la lista delle attività hanno incontrato difficoltà a comprendere se dovevano restare a casa o meno.

Il codice Ateco è strutturato come un albero, in cui ogni cifra indica l’ambito produttivo generale rispetto a quello più specifico individuato con le cifre successive. Questa informazione è importante perché maggiore è il numero delle cifre più è specifica l’attività da misurare, e più è difficile tradurre quell’attività in una quantificazione certa. Da un lato, infatti, anche ove disponibile, un’eccessiva puntualità nelle rilevazioni potrebbe essere lesiva della privacy dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte, dall’altro, però, la progressiva riduzione dei campioni di rilevazione nelle indagini che raccontano il lavoro in Italia espongono la misura a errori, detti campionari, che rendono sconsigliabile avventurarsi in considerazioni al di là di un certo limite.

Nei file diffusi trimestralmente per la rilevazione continua sulle forze di lavoro, l’Istat mette a disposizione tre diversi livelli di specificità delle attività merceologiche: a una e a due cifre nei file resi pubblici e a quattro cifre in quelli destinati agli enti di ricerca che, in altri termini, dovrebbero sapere come usarla al meglio. Ora, il dettaglio specificato dal Dpcm è misto. Si passa da alcune aree identificate con una sola cifra (J o K), fino ad attività identificate alla sesta. Questo basta a far comprendere come l’utilizzo della banca dati fornita dall’Istat sia un’approssimazione dell’approssimazione del numero che cerchiamo. In primo luogo, infatti, non è possibile arrivare alla specificità richiesta da una misura di contenimento dell’epidemia come questa; in secondo, per quanto solida e affidabile, quella che abbiamo resta un’indagine campionaria e non la rilevazione dell’intero universo delle imprese effettivamente esistenti. Questa strada è quella che ha portato la Fondazione Di Vittorio (istituto afferente alla Cgil) a individuare in 15 milioni i lavoratori impiegati in attività essenziali secondo la definizione adottata dal Dpcm in questione e gli interventi precedenti, in special modo quello dell’11 marzo dedicato alle attività di commercio e servizi al dettaglio di determinati prodotti.

Un tentativo diverso è stato quello svolto da Davide Dazzi, ricercatore dell’Ires Emilia-Romagna (istituto anch’esso affiliato alla Cgil), che ha scelto la via dei bilanci depositati dalle imprese, raccolti in una banca dati privata, per allestire una mappa dell’essenzialità. Nel caso specifico, questo approccio coglie la questione di fondo: se il codice Ateco descrive le imprese, allora è dall’impresa che si deve partire. La difficoltà per questa strategia è che in Italia i bilanci delle imprese sono soggetti a pubblicazione solo in determinati casi, e tanto la loro raccolta quanto la loro standardizzazione costituisce un passaggio ulteriore che non va dato per scontato.

A fare questo lavoro è la rete delle Camere di Commercio e viene reso disponibile dal sistema del Registro Imprese. Nel sito, però, solo la ricerca puntuale sull’impresa è in parte accessibile. Il microdato, invece, quello che permette di fare delle elaborazioni ad hoc aggregando le informazioni di più imprese, è soggetto a pagamenti differenziati per tipologia di informazione richiesta e numero di record estratti. Lo stesso vale per le altre banche dati che si rifanno a quella delle Camere di Commercio. Di tutt’altra origine è invece la banca dati Aida, utilizzata da Davide Dazzi nel’ambito del progetto Open Corporation e resa disponibile da Bureau van Dijk – società afferente a Moody’s – nel listino dei suoi prodotti nazionali e globali.

La scelta dell’utilizzo di questa banca dati pone non poche difficoltà relative alla sua struttura e natura. In primo luogo è uno strumento che nasce per soddisfare i bisogni conoscitivi a fini di mercato e di marketing, rivolgendosi a tipologie di utenti diverse con varie possibilità di abbonamento che ammettono gradi di copertura diversi e quindi risultati variabili. In secondo luogo, la banca dati è soggetta a due limitazioni significative: la parzialità delle imprese censite e l’aggiornamento delle informazioni contenute. Da un lato, infatti, il grado di copertura è differenziato per la tipologia d’impresa; dall’altro, l’aggiornamento incostante dei bilanci fa sì che l’informazione controllata oggi non sia più verificabile domani. Inoltre, come specifica lo stesso ricercatore, l’estrazione è fatta per «ultimo bilancio disponibile» dell’azienda e quindi tiene insieme dati riferiti a momenti diversi. Per questo, nel ragionamento che fa Dazzi, i valori assoluti sono lasciati in secondo piano rispetto ai valori percentuali.

A partire da queste limitazioni, Dazzi specifica che le imprese coinvolte nelle attività essenziali sono il 39,9% di quelle presenti nel database a cui corrispondono circa il 56,6% dei lavoratori dipendenti rilevati nei bilanci, quindi 7,5 milioni di persone. Tenendo presente che nei bilanci il lavoro considerato è solo quello dipendente – mentre quello autonomo è parte dei costi per l’acquisto di beni e servizi – il calcolo fatto dal ricercatore non può che essere parziale. Il focus del suo ragionamento, infatti, non è tanto quello di individuare il numero esatto dei lavoratori coinvolti, quanto mostrare la territorializzazione del tessuto produttivo e, quindi, la differenziazione territoriale dell’impatto del Decreto, riportandoci alle ragioni alla base dell’intervento normativo e mostrando la debolezza delle fondamenta su cui poggia.

Nel tentare di rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti, ossia il numero dei lavoratori coinvolti dal decreto del 22 Marzo, si potrebbe dire che, prendendo per buona approssimazione dell’esistente il campione presente in Aida e quindi la percentuale dei lavoratori dipendenti essenziali fornita da Dazzi (56,6%) e applicandola al numero totale dei dipendenti conteggiati nella Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro per il 2019 (18,048 milioni), il provvedimento permetterebbe di stare a casa a 10,215 milioni di dipendenti, lavoratori autonomi esclusi. Si tratta di condizioni, insomma, che rendono qualsiasi sforzo conoscitivo un esercizio di stile tardivo nei tempi, fine a sé stesso nei contenuti e inutile rispetto agli obiettivi che ci premono. D’altra parte, è speranza di chi scrive, questa approssimazione delle decisioni, e ancor più la carenza delle informazioni a disposizione dei ricercatori e dei decisori politici, è una delle tante cose che non potrà tornare a essere come prima.

Quanti sarebbero invece dovuti restare a casa?

Per poter comprendere la difficoltà di avere un chiaro metro con cui orientarsi all’interno dell’attuale economia, basta guardare alla complessità del processo che ha portato alla costruzione dei codici Ateco, coinvolgendo enti che vanno dall’Agenzia delle Entrate alle Camere di Commercio, Ministeri e persino associazioni imprenditoriali, con l’obiettivo di: «adottare la stessa classificazione delle attività economiche per fini statistici, fiscali e contributivi, in un processo di semplificazione delle informazioni gestite da pubbliche amministrazioni e istituzioni». Una tecnologia vera e propria che però incide in maniera decisiva sulla vita economica di molte imprese. Basti pensare che la stessa macchina che taglia e lucida il legno serve sia per fare le porte che i mobili; ma mentre nel primo caso il premio Inail sale perchè le porte nel sistema Ateco sono considerate «Edilizia» – un settore più a rischio – nel secondo scende. Non sorprende, dunque, che la sua stesura abbia richiesto diversi decenni di raffinazione. L’attuale versione, infatti, è datata Gennaio 2008 e va a sostituire quella del 2002, che a sua volta ha preso il posto di quella del 1991 – per non parlare degli interventi minori, anche più frequenti. Le ragioni di questo continuo aggiornamento riguardano le profonde trasformazioni che la produzione ha avuto nell’ultimo ventennio. L’innovazione tecnologica, la nascita di nuovi settori, l’ibridazione degli altri, oltre che una progressiva tendenza alla frantumazione della produzione, non potevano dunque che implicare un continuo sforzo di adattamento della classificazione.

Nonostante lo sforzo, la dinamicità delle trasformazioni sembra destinare il tentativo di fotografare l’economia compiuto da questi codici a un costante fallimento. Si pensi ad aziende come Deliveroo, che sono configurate come servizi informatici, ma anche al fatto che, nell’attuale modello produttivo basato su una rete di inter-scambi di fornitura tra le aziende, l’appartenenza a una di queste categorie non è indicativa della filiera in cui è inserita. Da un lato l’ascesa della globalizzazione neoliberista, dall’altro l’affermarsi dei modelli produttivi del just-in-time, con politiche di esternalizzazione e riduzione dei costi, hanno letteralmente stravolto il sistema produttivo, e così la capacità descrittiva del codice Ateco è oggi fortemente ridotta.

È questa complessità, secondo lo studio fatto da Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Sabattini, ad aver tratto in inganno il governo nell’arduo compito di definire le imprese essenziali. Invece «di partire dai settori fondamentali – ossia Agricoltura e agroindustria, Sanità e assistenza sociale, Ricerca scientifica e istruzione, Pubblica amministrazione, Telecomunicazioni, Servizi pubblici – e, a cascata, individuare con puntualità tutti i loro fornitori diretti ed indiretti, indipendentemente dalla branca di afferenza […] hanno incluso attività fondamentali più altre attività al loro servizio facente parti della filiera a loro associata». Se a ciò si aggiunge il lavoro di lobbying di Confindustria che ha esteso le maglie dell’elenco, ciò che si è venuto a determinare è il coinvolgimento di un numero ben maggiore di persone. Ragionando sulla base delle ore lavorative necessarie a far funzionare i settori fondamentali – non quelli che il governo definisce come essenziali – viene fuori che a una larga parte di lavoratori è stato chiesto di andare a lavorare quando non necessario. Pur con i limiti già indicati relativi all’utilizzo delle banche dati disponibili, le ore necessarie a far funzionare i settori fondamentali sarebbero appena il 31,8% del totale, mentre, quelle svolte ammesse dal decreto rappresentate dalla somma di quelle blu e rosse del grafico seguente, sono ben il 46,5%: «In pratica – concludono gli autori – ben il 40.3% di chi lavora oggi dovrebbe in realtà essere a casa». E si tratta di una sottostima, perché anche nei settori fondamentali sono compresi una serie di sottocodici che attività fondamentali non sono, oltre a non includere settori come aerospazio, petrolchimico e siderurgia che non sono inclusi nel decreto ma restano comunque attivi secondo il Dpcm.

Con tutti i limiti dell’aggregazione nazionale che non risponde alla questione del «rischio contagio», è quest’ultimo il ragionamento che ci si sarebbe aspettati per garantire il governo dell’emergenza e scongiurare la sventura di un Governo in emergenza.

Che cosa si sta effettivamente decidendo? 

L’errore compiuto dal governo non è solo di natura metodologica. L’ultimo Dpcm, infatti, consente alle imprese che partecipano alle filiere produttive di quelle che il governo definisce come attività essenziali, la possibilità di continuare la propria produzione previa segnalazione al Prefetto. Un meccanismo farraginoso rispetto agli obiettivi tanto più che, nella frammentazione produttiva di oggi, consente virtualmente a chiunque di millantare una qualsiasi connessione con i settori elencati nel celebre Allegato 1. Inoltre, tale formula ricalca ancora una volta il principio secondo cui le aziende pensano di  godere della più assoluta libertà nel decidere l’organizzazione del lavoro e della produzione. Ossia, il principio che sino a oggi ha guidato tanto molte delle trasformazioni nei processi produttivi, quanto le riforme del mercato del lavoro nel nome della «flessibilità» e persino le riforme fiscali che in questi anni hanno sottratto risorse preziose alla stessa salute pubblica. Non sorprende, dunque, che oltre al numero delle imprese coinvolte, questo sia stato uno dei punti di maggiore controversia per i sindacati che, nella trattativa che ha seguito la minaccia di convocazione dello sciopero da parte delle sigle confederali, sono riusciti a mitigare la questione con un ruolo consultivo.

In questo senso, il governo non ha solo sbagliato le risposte, ma anche le domande. La domanda giusta, in un momento come questo, non era se intervenire o meno nel limitare una parte della produzione, o come farlo, ma se questa dovesse temporaneamente passare sotto un controllo pubblico della sua organizzazione e destinazione o meno. L’unico modo per riuscire a rallentare la produzione, garantendo la fornitura dei servizi essenziali alla popolazione prevenendo allo stesso tempo la diffusione del contagio, è infatti programmare almeno temporaneamente l’economia: definire quantità e tipologie di prodotti necessari e da lì individuare le filiere necessarie alla sua produzione.

In altre parole, non è possibile effettuare un passaggio di questo genere rimettendo in discussione soltanto cosa produrre, ma anche come produrre, a partire da quella frammentazione creata in questi anni che ha letteralmente fatto «spiccare il volo» all’economia, rendendola imperscrutabile con le vecchie mappe a disposizione dei governi. Tra le contraddizioni che il Covid-19 sta facendo esplodere c’è anche quella di un sistema produttivo reso sempre più fragile dalla ricerca del profitto e del consenso tra gli azionisti. La scelta di tagliare stock e magazzini e di spingere verso una produzione sempre più globalizzata ha reso la produzione contemporanea «inarrestabile», perché immersa in reciproci legami di interdipendenza, ma anche ingestibile.

Per poter rallentare il motore, come dice Giuseppe Conte, è dunque necessario rimettere in discussione non solo i settori essenziali, ma anche i modelli di organizzazione della produzione e del lavoro, rendendoli non più funzionali al profitto, quindi all’impresa, ma al bene collettivo. Invece di rendere i lavoratori protagonisti di questa emergenza, impiegando le loro competenze nel ridefinire nel più breve tempo possibile una produzione al servizio della società, sono stati invece posti al margine dal governo chiedendogli solo di accettare passivamente le loro condizioni, «sacrificandosi» per il paese. Ma la romanticizzazione della quarantena è una questione di classe: non ci sono angeli o eroi, ma lavoratori e lavoratrici e come tali vanno rispettati, non sacrificati.

*Gianluca De Angelis, ricercatore sociale, è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. Marco Marrone, sociologo e attivista, è assegnista in sociologia presso l’Università di Bologna. Gli autori ci tengono a ringraziare Davide Dazzi di Ires Emilia-Romagna, i ricercatori della Fondazione Di Vittorio e Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Sabattini per i preziosi studi che hanno ispirato questo articolo.

https://jacobinitalia.it/la-produzione-inarrestabile/

 

Effetti della crisi nella nuova mappa del lavoro – Marco Revelli

Senza pudore, le Confindustrie del Nord continuano a ripetere lo stesso mortifero ritornello: riaprire, riaprire, riaprire. Come se il mezzo migliaio di morti che ogni giorno dobbiamo contare fosse un dettaglio trascurabile. E i 4.000 nuovi contagi che quotidianamente la protezione civile aggiunge ai propri grafici fossero minuzie di cui praetor non curat. Imperterriti, come d’altra parte hanno sempre fatto.

I nostri imprenditori continuano ad anteporre la borsa alla vita (dei propri dipendenti, in primis, e di ogni altro che sia d’impaccio nel conto profitti e perdite). Pretendendo che – vogliamo dirlo? – i disastri del bergamasco e del bresciano, da loro voluti, non insegnino nulla.

Eppure il messaggio del virus è chiarissimo. Col linguaggio feroce che la natura sa usare quando vuol farsi sentire, ci dice che l’ordine del discorso va cambiato. Che è già cambiato. Le mappe su cui orientiamo i nostri percorsi sociali, a saperle leggere così come la pandemia le ha ridisegnate, già ci disvelano paesaggi fino a ieri invisibili – seppur presenti -, gerarchie di valori rovesciate.

A cominciare dalla mappa del lavoro. Sono bastati pochi giorni di confinamento per tornare a separare, come il grano dal loglio, essenziale e superfluo: la composizione sociale messa al lavoro sul necessario, e quella posizionata sull’inutile, con la seconda confinata a casa, e la prima sottoposta a una mobilitazione totale simile a quella bellica: mandata al lavoro coatto come al fronte, senza protezioni e tutele nel peggior stile dell’”armiamoci e partite”.

Il francese Denis Maillard usa una coppia di grande efficacia per esprimere questa “rivelazione” della nuova frattura di classe: l’antitesi – e lo scambio di posto nella piramide dei ruoli – tra back office e front office. Tra chi “si trattiene nell’invisibilità del lavoro coatto al servizio degli altri” e chi sta “nella luce del lavoro visibile e riconosciuto socialmente”.

I secondi, quelli del front office, manager e professioni intellettuali, pubblicitari e intrattenitori mediatici, trionfanti fino a ieri come campioni del tout marché e dell’economia del loisir, ora “ritirati nei loro appartamenti”. Gli altri – non solo gli addetti ai “lavori di cura” ma tutti quelli che operano fisicamente, cioè “con le mani”, sulle filiere “della vita” – trascinati in prima linea dal rovesciamento imposto dal virus: back office “au front”, scrive con un gioco di parole.

Maillard – oggi contagiato anch’egli – è una bella figura di medico filosofo, autore di un libro forte su La colére francaise, in cui aveva offerto un’analitica descrizione di questa emergente costellazione del lavoro “di base” (già emerso con i gilet jaunes), fatto di “addetti alle consegne delle merci nelle grandi città alle 5 del mattino, magazzinieri che mettono sugli scaffali migliaia di prodotti, operai edili e addetti alla ristorazione”, padroncini e imprenditori di se stessi, artigiani, gestori di macelli e commessi di negozi, badanti e infermiere, paramedici e autisti d’ambulanza, pensionati talvolta, o disoccupati e interinali

Ad essi possiamo aggiungere ora tutti gli operai delle industrie che si “autocertificano” come parti delle filiere lunghe e fitte giudicate indispensabili per la popolazione, quei milioni di donne e uomini che gli imprenditori pretendono di mettere al lavoro come post-moderni servi della gleba. Anch’essi fino a ieri invisibili, e ora rivelati nella loro strategica centralità, nel momento in cui lo tzunami dell’epidemia ha spazzato via come cascame la barocca infrastruttura del superfluo.

Sarebbe interessante sapere quanti sono tra loro “i caduti” (tra i medici sappiamo che superano i 100, tra infermiere e paramedici decine e decine, come tra gli e le assistenti nelle RSA, ma quante sono le vittime contagiate sulle metropolitane e gli autobus presi per andare al lavoro coatto, quanti gli infettati sulle linee di assemblaggio?).

Il presidente dell’Unione industriale di Brescia ora dice che “tener chiuso sarebbe un suicidio” (sic!), e che l’”azienda è il posto più sicuro”. Lo dice con una faccia tosta senza precedenti, da una città trasformata in lazzaretto dalla febbre del fare dei suoi padroni. E questo ci porta a un’altra riscrittura delle mappe prodotta dal virus.

Perché la macelleria epidemica lombarda? Perché quella concentrazione di ammalati e deceduti là dove massimo è l’attivismo produttivo, la fibrillazione della vita activa, la densità del tessuto industriale oltre che dell’inquinamento?

Non è un fatto solo italiano: negli Stati Uniti le prime cartografie della Pandemia mostravano due epicentri, nella east e nella west coast. Nel Regno Unito a Londra. In Francia nell’Ile de France e nel Grand Est. I potenti hub del lavoro totale che mette sotto stress i territori. Ma qui è stato peggio. La tragedia lombarda non ha confronti.

Arrischio un’ipotesi: forse perché il nostro è un capitalismo double face, intenso nei suoi baricentri – e la Lombardia è tale – ma fragile. Iperattivo nella sua molecolare interazione ma debole nella sua struttura di fondo, tecnologica e finanziaria. Un po’ come quello spagnolo. E’ qui che il coronavirus ha trovato le proprie praterie…

Ora li chiamano “eroi”, questi che fanno “tenere” la società, che permettono “che questa sopravviva nonostante tutto, e che continui ogni mattina come un miracolo invisibile rinnovato quotidianamente“ (è ancora Maillard). Ma sono “eroi per un giorno”.

Gli altri, gli imboscati del front office sono pronti a riprendersi ruolo e privilegi. A tornare a pagare una miseria il back office, e disporne dei corpi e delle anime come prima, più di prima. Le mosse delle Confindustrie del Nord lo dicono a chiare lettere: niente deve cambiare. Si sono presi una bella sberla dal Governo, per ora. Ma non demorderanno.

Organizziamoci per impedire che questo accada. Da ora.

da qui

La fase due – Guido Viale

Il compito, la mission, del neonominato “doctor Wolf” Vittorio Colao e del suo team quasi tutto composto da manager e consulenti della grande industria è chiaro: accelerare il ritorno alla “normalità produttiva”: quella che ci conduce, in allegra compagnia con molti altri paesi, alla catastrofe climatica e ambientale prossima ventura. In gran parte la sua sarà mera opera di copertura, perché più di metà delle fabbriche ha già ripreso o non ha mai smesso di produrre. Ma per chi? E perché?

Per fare fronte a ordini già in corso; o per non perdere le commesse future; o per impedire che ce le porti via un altro; o per dimostrare che si è in grado di rispondere a futuri nuovi ordini, rispondono gli imprenditori. Non importa se si tratta di produzioni essenziali o no; se si vuole evitare una recessione, o ridurne la gravità, tutte le fabbriche sono essenziali. Tutto deve riprendere come prima, a costo di sacrificare salute e vita degli operai, delle loro famiglie, dell’intera comunità. Prima gli italiani? No, prima la produzione, il mercato, il profitto.

Ma proprio le imprese e i settori oggi in prima fila nell’imporre che si lavori costi quel che costi saranno anche, tra non molto, le prime a fare ricorso alla cassa integrazione e a mandare a casa gli operai che oggi costringono a lavorare.

Per la produzione di armi – F35, sottomarini e cannoni – forse il problema non si pone, perché i committenti sono lo Stato, che continuerà a indebitarsi per pagarle, e altri governi, che fino a che l’ultima goccia di petrolio sgorgherà dal sottosuolo ne useranno i proventi per armarsi fino ai denti. Poi, forse, si dovrà ridimensionare anche quel mercato di morte.

Ma chi comprerà le auto del 2020 e del 2021, quando gran parte di quelle prodotte nel 2018 e nel 2019 sono ancora nei piazzali in attesa – a prezzi scontati – di un compratore? E chi mai riuscirà a risollevare in pochi mesi o pochi anni un mercato crollato dell’83%?

Certo, con la fine dello lock-down ci sarà una corsa a riprendere in mano il volante: è quello che invitano il sindaco di Milano e quelli come lui, perché sui mezzi pubblici si viaggerà distanziati e loro non intendono potenziare il servizio e organizzare uno scaglionamento degli orari di ingresso e di uscita da fabbriche e scuole. Ma tra riprendere a guidare l’auto vecchia e comprarne una nuova il salto è grande; e non alle viste.

E dietro al mercato europeo dell’auto entrerà in crisi gran parte dell’industria meccanica e della siderurgia, imponendo, tra l’altro, ai lavoratori e ai cittadini (liberi e pensanti) di Taranto di trovare quello che in dieci e più anni Governo e sindacati non hanno avuto il coraggio o la capacità di cercare: un’alternativa occupazionale a un’impresa comprata – come tutti sanno – solo per chiuderla e accaparrarsene il mercato.

E la moda? Altro pilastro del cosiddetto “made in Italy”, opera per lo più del lavoro di altri paesi. Molti ci penseranno due volte prima di rinnovare il proprio guardaroba: se ne è accorto anche Armani. E senza una “ricaduta” popolare, l’alta moda delle sfilate rischia la fine di tutte le altre forme di turismo di lusso e dei “Grandi eventi”: fiere, expò, grandi mostre, campionati, grandi gare, olimpiadi. Il Giappone ne ha già avuto un assaggio.

De profundis, quindi, anche per l’aeronautica civile. E anche per le crociere, rivelatesi veri focolai di contagio (e per la cantieristica italiana, in gran parte votata a questo mercato). Ma anche per le vacanze esotiche: l’dea di ritrovarsi in mezzo a un contagio, un incendio, un uragano, una guerra, una rivolta di popolo, impossibilitati a tornare a casa, farà scegliere a molti mete più a portata di mano (e non è detto che sia un male). Reggerà forse il turismo religioso: c’è tanto bisogno di miracoli.

Il problema maggiore riguarda però agricoltura e alimentazione e ha poco a che fare con il coronavirus, ma molto con la crisi idrica, i cambiamenti climatici e la mancanza di manodopera schiava (quella fornita dagli immigrati “clandestini”, da sempre sfruttati, ma ora bloccati). Si rischia una vera e propria crisi alimentare (con supermercati semivuoti; e sarà sempre più difficile importare cibo dall’estero) che farà capire a tutti che times are a-changing.

Insomma, correre ai ripari non vuol dire massacrare lavoratori e comunità per riattivare le vecchie produzioni, ma mettere in cantiere quelle nuove: impianti per le rinnovabili e l’efficienza energetica, ristrutturazione del già costruito, gestione accurata di risorse e rifiuti, mezzi di trasporto collettivi o condivisi, agricoltura biologica e di prossimità, riassetto idrogeologico dei territori e tutto ciò che è legato alla prevenzione: ce n’è abbastanza per impiegare e riqualificare eserciti di disoccupati.

Gli operai delle produzioni “non essenziali” sono i primi a sapere che il loro posto è a rischio; per questo, quando possono, scioperano o si oppongono all’inutile apertura delle loro fabbriche. E se non lo sanno, è perché autorità (anche quelle che hanno dichiarato l’emergenza climatica e ambientale) e sindacati non gli hanno mai detto la verità. Gliela hanno nascosta per paura di dover cambiar tutto, a partire da loro stessi e dal loro ruolo.

Ma se non lo fanno loro lo devono fare movimenti come Fridays for future ed Extinction Rebellion. Partendo da scuole e università, oltre che dalle piazze, per coinvolgere di lì famiglie, quartieri, istituzioni e sindacati. Senza mai rinunciare però all’azione diretta, e all’appoggio – non solo per denunciare, ma anche per progettare – dei saperi di scienziati ed esperti.

Ce ne sono molti in giro, disoccupati o non valorizzati da chi li impiega, ma desiderosi, se gliene si offre l’occasione, di mettersi al servizio di una vera riconversione. Costruiamo insieme un futuro diverso.

https://comune-info.net/la-fase-due/

 

Non è lavoro, è sfruttamento – Marta Fana

 

Business as usual – Alessandra Daniele

L’Italia va a puttane di default.
Anche quando non c’è nessuna particolare emergenza, l’Italia va comunque a puttane di suo.
I ponti crollano, i fiumi esondano, le mafie prosperano, le fabbriche esalano fumi cancerogeni e colano gli operai nell’acciaio fuso.
I politici istigano all’odio razziale o cantano Bella Ciao solo per rastrellare voti, e una volta eletti fanno esclusivamente gli interessi dei loro padroni, nazionali e internazionali.
E vanno a puttane.
In Italia milioni di persone sono costrette all’eroismo quotidiano per sopravvivere a un sistema socio-economico che mette la vita umana all’ultimo posto della sua lista – dopo “varie ed eventuali” – e da una classe dirigente di scarafaggi stercorari che ad ogni emergenza s’arrampica sul tricolore, e fa appello all’orgoglio e alla coesione nazionale.
“Siamo tutti sulla stessa barca”.
Cazzate.
C’è chi ha ricevuto il tampone per la diagnosi del Covid-19 al primo sternuto, e chi è morto soffocato dopo settimane di abbandono in un ospizio-lager.
C’è chi fa la lagna via Skype perché gli manca la movida, e chi ogni mattina è costretto a rischiare il contagio per andare a produrre o cercare di vendere carabattole che adesso non ci servono, e che forse non ci serviranno mai.
Gli italiani sognano di tornare alla normalità, ma non dovrebbero.
La normalità fa schifo.
La normalità sono le fabbriche cancerogene, le formiche negli ospedali, i cravattari delle banche e dell’Unione Europea, il precariato a vita, i manganelli dei Decreti Sicurezza, i tagli sanguinosi a Sanità e Ricerca.
La normalità è quello che ha prodotto questa emergenza come tutte le altre, e che cercherà di sfruttarla a suo uso e consumo. Nella Fase 2 si potrà tornare a circolare, ma solo nei binari, come tram: divieto di qualsiasi assembramento non finalizzato alla produzione di beni e servizi.
Una vita da droni.
“Ci salveremo tutti insieme”.
Cazzate.
Con questa classe dirigente di parassiti sulla schiena non ci salveremo mai.
Se non di Covid-19, moriremo di Covid-21, di cancro, di acciaio fuso.
Ci beccheremo una fucilata accidentale dal vigilante davanti al discount.
“Andrà tutto bene”.
Cazzate.
Se continueremo ad accontentarci della normalità, andrà tutto a puttane.

https://www.carmillaonline.com/2020/04/12/business-as-usual/

 

I disumanizzati della working class – recensione di Girolamo De Michele

Recensione di “Chav. Solidarietà coatta”, di D. Hunter, a cura e traduzione di Alberto Prunetti, per Alegre

I primi venticinque anni di Hunter sono dipesi dall’economia informale del capitalismo, un’economia sommersa che agisce dietro la facciata del libero mercato capitalista. Per lui questo ha implicato essere sex worker, ladro e spacciatore. Negli ultimi quattordici anni Hunter è stato un organizzatore attivo della comunità anti-capitalista, e ora ha scritto un libro sulle sue esperienze di vita»: questa, su Plan C, è la scheda biografica di D. Hunter, autore di Chav Solidarity, tradotto col titolo Chav. Solidarietà coatta da Alberto Prunetti all’interno della collana Working Class che cura per Alegre (pp. 160, euro 15).
La parola chav «è un modo semplice per disumanizzare un vasto gruppo di persone»: i chav, i coatti, sono i marginalizzati e demonizzati dalle politiche neoliberiste dei governi britannici degli ultimi 40 anni. Liquidati come «coglioni bestiali o feccia da sussidio di disoccupazione» dai bravi cittadini liberali, sono il prodotto dell’atomizzazione della working class. Per Hunter, sono persone che si prendono cura a vicenda, fiere e allo stesso tempo tenere, sfruttate e ignorate. Non hanno problemi a reagire per proteggere la propria gente: quando lo fanno, nella difesa delle strade come nei riots del 2011, sono liquidati come teppisti, e alla stessa working class è chiesto di voltare loro le spalle. Sono attraversati dalle segmentazioni sociali, collocati al di sotto di quella classe lavoratrice che, stratificata in maniera da rendere quasi impossibile ogni trasformazione rivoluzionaria, vive delle briciole di chi sta in alto, senza avere coscienza del fatto che «se loro mangiano le briciole, chi sta ancora più in basso resta a stomaco vuoto».

BRICIOLE CHE VENGONO rivendicate con una solidarietà negativa mascherata da etica del lavoro – sono guadagnate in quaranta ore di fatica settimanale, dunque bisogna darsi da fare per conservarle: «fin quando quelli di noi che vengono premiati con le briciole per fare quaranta ore di lavoro alla settimana pensano che ci meritiamo quelle briciole, e che ognuno deve pensare da solo a sopravvivere, allora siamo fottuti».
Hunter parla dei sobborghi londinesi – ma potrebbe essere la banlieue parigina piuttosto che Tor Pignattara o qualunque altra periferia nelle quali le sinistre, i «movimenti dai denti finti» non mettono piede. Parla di quello che viene derubricato, cancellando il legame fra le relazioni interpersonali «degradate» e le strutture e forme del capitale, come degrado sociale: il prodotto di una società classista che ha bisogno di disumanizzare le persone per rendere sopportabile le diseguaglianze. «Troviamo ogni tipo di motivazione per considerare gli altri un po’ meno umani di noi, e diventa più semplice e più devastante se le vittime sono persone meno forti da un punto di vista economico, sociale e culturale»: perché our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno.

QUESTI CORPI «DEGRADATI» sono tutt’altro che nuda vita – posto che ne esista, al di fuori delle elucubrazioni che tanto piacciono all’invisibile anarchismo piccolo-borghese: sono corpi che conoscono relazioni o conflittualità quotidiane che sono sempre collegate alle nostre storie individuali e alle storie che condividiamo con gli altri, dunque sempre politiche. Esprimono un senso dell’essere in comune che precede la politicizzazione – la lettura di Marx nei libri di famiglia, si sarebbe detto un tempo – e si manifesta in un istintivo rifiuto dell’obbedienza, perché la vita delle persone obbedienti è la vita di chi continua ad arrabbiarsi, a perdere la casa, ad andare in prigione, a morire per strada.
Hunter ha attraversato questa condizione intrisa di violenza, e ne è stato attraversato, sin dalla sua infanzia. La narra senza compiacimento morboso, ma anche alcun moralismo. Anche se adesso ha l’aspetto di un bibliotecario, è ancora un coatto; non si aspetta di uscirne del tutto, gli basta non sanguinare più: «adesso ho deciso come vivere, come contribuire alla liberazione delle comunità da cui provengo, come difenderle, come sostenere chi non ha potuto godere dei benefici del capitale come ho potuto in certo qual modo fare io».

https://ilmanifesto.it/i-disumanizzati-della-working-class/

 

 

 

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