Crazy World
di Fabio Troncarelli
Un ricordo del grande William Blake Crump ovvero Blake Edwards (ma occhio anche a Mohammed Masud Raza Khan)
Il 26 luglio 1922 nasceva a Tulsa in Oklahoma uno dei più importanti registi di Hollywood: William Blake Crump. E chi è, direte voi? Quello che tutti conoscono come Blake Edwards, il regista di Colazione da Tiffany, l’inventore della Pantera Rosa e dell’ispettore Clouseau.
Beh “inventore”: co-inventore, insieme al geniale, folle, funambolico attore che ha fatto di Clouseau il monumento immortale al Surrealismo: Peter Sellers. Il quale, ironia del caso, morì proprio di luglio, precocemente, il 24 luglio 1980, a soli cinquantacinque anni; ammesso e non concesso che sia morto veramente e non si sia nascosto da qualche parte, per farci uno dei suoi soliti dispetti e riapparire, ultracentenario, nella parte di Peter Pan in una recita studentesca. Del resto, se vogliamo proprio parlare dell’ironia del caso a proposito di personaggi così ironici per conto loro, allora dobbiamo ricordare che il povero William Blake, oberato da un nome così impegnativo, che promette un grande destino e garantisce l’angoscia di non essere all’altezza di tanto nome, quando provò a spezzare le catene del suo Fato e cercò di farsi chiamare solo Blake, fu costretto dal Fato di cui sopra a usare un cognome altrettanto impegnativo e portatore di angoscia. Abbandonato dal padre Donald Crump, prima ancora di nascere, cambiò cognome e si chiamò Edwards, come il secondo marito della madre, il produttore cinematografico Jack McEdwards, a sua volta schiacciato dal nome impegnativo del nonno, John Gordon Edwards, detto Jack, famosissimo regista del cinema muto, inventore del mito di Theda Bara, passata alla storia per aver inventato, sullo schermo, la donna “Vamp”.
McEdwards aiutò in tuti i modi il suo figlioccio scapestrato e lo introdusse nel mondo dello spettacolo. Ma con scarsi risultati. Se io vi nomino Blake Edwards, voi pensate subito a Clouseau e vi sbellicate dalle risate. Invece le cose non stanno così. Nonostante i suoi successi e nonostante quel rimpallo di nomi, di padri e di destini, che avrebbe riempito la vita di chiunque, il povero Edwards si sentì sempre vuoto o svuotato. Non fu mai contento della sua famiglia e della sua sorte. Non a caso disse nel 1971: «Mi sono sempre sentito alienato ed estraneo rispetto al mio [secondo] padre Jack McEdwards1». Neppure della sua vita fu mai contento e tentò più di una volta di suicidarsi, con esiti grotteschi. Nel 2001, decise di tagliarsi i polsi sulla spiaggia di Malibu, osservando l’oceano. Ma mentre teneva in mano un rasoio, il suo cane alano cominciò a leccargli l’orecchio e il suo secondo cane, un segugio, gli portò una palla trovata chissà dove e gliela spinse tra le gambe. Cercando di scacciare il cane, Edwards lanciò la palla e fece cadere il rasoio. Allora si chinò di scatto, scivolò e si slogò la spalla. Come disse più tardi al New York Times: «Non era proprio il giorno giusto per suicidarsi»2.
Se ci rendiamo conto che dietro alle risate ci sono le lacrime, potremo capire meglio l’esistenza, a dir poco turbolenta, di un regista che aveva fama di essere insopportabile e intrattabile e che litigò sempre, ferocemente, con tutti, perfino con il suo attore preferito e adorato, il diabolico Sellers – un caratteraccio pure lui3 – al punto da girare film con lui senza mai parlargli di persona, comunicando solo attraverso bigliettini o segretarie. E fosse solo questo. Per tutta la vita fu convulsamente dipendente dalla terapia psicoanalitica, col risultato finale non di liberare sé stesso, ma piuttosto di imprigionare nei suoi problemi l’analista, Milton Wexter, al punto da usarlo come sceneggiatore di due suoi film fortemente autobiografici, uno dei quali. That’s life (1986) fu girato interamente a casa sua a Malibu, con la figlia Jennifer Edwards nella parte della figlia del protagonista (Jack Lemmon, esplicito alter ego) e con la figliastra, Emma Walton, nella parte dell’altra figlia di Lemmon; mentre sua moglie Julie Andrews, nella parte della moglie dell’alter ego, era costretta a sorridere di fronte ai tradimenti forsennati del marito, che rimedia persino malattie veneree dalle sue amanti, ma chi se frega!
Era dunque un mostro, un egocentrico sfrenato, un narciso senza pudore? Forse sì. O forse no. Forse era solo il clown di sé stesso, che recitava la parte di sé stesso.
Quanto ai litigi furibondi con Peter Sellers, con dichiarazioni di fuoco dell’uno contro l’altro (del genere: «Peter ormai è un mostro» oppure «Blake ha creduto molto in me, ma ha odiato il fatto che io ci abbia creduto») che pensare dei deliziosi aneddoti in senso contrario, che lo stesso Edwards ha rivelato? Nel bel mezzo del casino senza fine di un film pieno di liti furiose e nel cuore della notte, Peter Sellers gli telefona accorato, risvegliandolo dal sonno profondo, per dirgli: «Dormi in pace, Blake. Dio mi ha parlato. Proprio così, sai? Mi è apparso. E mi ha rivelato come devo fare la scena di domani». Il giorno dopo, con le occhiaie lunghe fino ai piedi e un mal di testa lancinante, il regista si trova davanti un pazzo forsennato che balbetta, farfuglia, incespica sulle parole e non sa che pesci pigliare. Allora prende da una parte il suo attore preferito e gli sussurra soave: «Peter, se senti ancora Dio, gli dici da parte mia che sarebbe meglio se si levasse dai piedi?4».
Era vero il furore? Vera la rabbia? O solo un gioco delle parti, una sceneggiata continua, come quella di Walther Matthau e Jack Lemmon in ogni film?
Peter Sellers e Blake Edwards sul set della Pantera rosa
O era piuttosto la spia di una lotta permanente contro la depressione, che a volte, come capitava a Peter Sellers, lasciava letteralmente esausti i protagonisti della vicenda, in preda a ossessivi pensieri di suicidio5? Come ha scritto David Coleman: «Edwards fu un depresso per tutta la vita e meditò seriamente sull’opportunità di suicidarsi, tentando anche di farlo, in più di un’occasione del suo percorso di attore che diviene regista… In una disarmante intervista alla CNN del 2002, il regista ammise candidamente di essere vittima di una depressione cronica, con un umor nero… con cui avrebbe potuto gingillarsi solo un regista di film pieni di un umorismo tetro e spassoso come i suoi… Edwards disse senza mezzi termini che la sua depressione era una vera e propria malattia, che aveva cercato di curare con qualche risultato, ma da cui non era mai uscito… La mia depressione è parte intergante della mia vita e mi accompagna da quando sono nato. E’ una specie di malvagio incantesimo..»6.
Un malvagio incantesimo… Beh, visto che parliamo di stregoneria non vi meraviglierete se spuntano le fate buone per sconfiggere le fattucchiere che hanno imprigionato in un incantesimo malvagio chi ci ha incantato con la sua fantasia e con la sua innocenza.
Tre fate buone, come nella Bella addormentata, hanno vegliato sul destino di Edwards e del suo affezionatissimo pubblico, ribaltando il cupo maleficio che lo teneva avvinto e risvegliandolo miracolosamente dal sonno eterno della depressione.
La prima “fata” si chiama Henry Mancini, all’anagrafe Enrico Mancini, nato in America ma oriundo di Scanno, dell’Abruzzo dorato e melodioso, l’Abruzzo “forte e gentile” di Vola, vola, vola e Tutte le funtanelle se so’ seccate. Chi viene da questo mondo, la musica ce l’ha nel sangue, se ne infischia dell’emigrazione e della povertà, e alla fine la sua vena sgorga purissima, come l’acqua cristallina del Gran Sasso, sbaraglia ogni ostacolo e lo fa trionfare come un imperatore. Tale è stato il destino di Mancini. Sulla carta avrebbe dovuto essere travolto dalle sue origini umili, dalla miseria, dall’ostilità contro gli emigranti, da tutta la triste valanga di sofferenze e di crudeltà che accompagnano sempre l’esistenza di chi cerca fortuna lontano dal suo Paese. Ebbene, il capotosto Mancini, non solo ha superato tutto questo ma, complice la sua formazione musicale con un genio come Enrico Castelnuovo Tedesco, è divenuto a sua volta un genio assoluto, uno dei più grandi compositori di Hollywood, capace di vincere quattro Oscar e 20 Grammy Awards cambiando la storia del costume con brani come Scandalo al sole e Moon river.
Mancini è stato il musicista di fiducia di Edwards, la fata buona che lo ha protetto da ogni insuccesso commerciale, perché perfino un film sfortunato sarebbe stato comunque ricordato per la sua musica. Mancini ha creato il tema immortale della Pantera rosa, che da solo assicura a Edwards e a Sellers una stella nella Walk of fame di Hollywood e nella Via lattea degli artisti di tutti i tempi. Ogni volta che uno sente anche solo le prime note della Pantera rosa sul sassofono si mette subito a sorridere, spontaneamente; si guarda intorno con l’aria complice, cercando la pantera e Peter Sellers, pronto a ridere per la milionesima volta dell’ispettore Clouseau attaccato alle spalle dal servitore Kato, il quale combina un casino tale che il Diluvio Universale a confronto è il Pediluvio Individuale nell’acqua di una bagnarola.
Henry Mancini
Abbiamo detto: “cerca la pantera…”. E’ proprio così. Senza l’apparizione della pantera, al suono della musica di Mancini, l’effetto travolgente sarebbe dimezzato. E invece no. Eccola, la meravigliosa creatura e tutti restiamo senza fiato. E’ merito di un’altra fata buona. Di un altro straordinario artista, rotto a tutte le difficoltà, altro genio dell’esilio come stile di vita: il grande, grandissimo creatore di fumetti, l’ebreo errante Fritz Freleng, il creatore di Gatto Silvestro, di Bugs Bunny (Lollo rompicollo), di Duffy Duck e di Speedy Gonzales, che con il cartone della Pantera rosa vinse l’Oscar, il primo di una serie di cinque, sbaragliando tutti.
Fritz Freleng
Con l’aiuto di due fate di questo calibro, anche il più depresso dei depressi avrebbe avuto un giovamento. Come ha detto Edwards: «Il mio lavoro è stata una delle più grandi forme di terapia di tutta la mia vita.7». Proprio così. L’arte è una grande medicina.
Il discorso potrebbe finire qui. Tutti si sentirebbero sollevati al pensiero che in fondo un grande malinconico, come Edwards, ha avuto le sue soddisfazioni e tutti tirerebbero un sospiro di sollievo, sorridendo al ricordo della pantera. Ma le cose non stanno così. Il sospiro di sollievo deve essere rimandato. Non possiamo dimenticare infatti la terza fata buona. Coloro che leggeranno il seguito possono pensare che io sia completamente matto e chiamare “fata buona” il personaggio di cui parlerò. è la più evidente manifestazione della mia follia. Va bene. Facciamo una scommessa. Voi leggete tutto quello che scriverò, senza pregiudizi. Poi deciderete se farmi internare o se invece bisogna dare ragione a Montagne che scriveva: «Si chiudono alcuni matti in una casa di salute, per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi».
Parlerò di un personaggio che nessuno mette in rapporto con Edwards e che, anzi, viene considerato esplicitamente estraneo ad Edwards. Un personaggio che gode fama di essere uno stregone malefico e quindi tutto il contrario di una fata. Insomma farò quello che i Greci chiamavano ἀδύνατον (adynaton): un’ affermazione impossibile.
La terza fata buona, stupidamente creduta strega, è lo psicoanalista indiano Mohammed Masud Raza Khan. Secondo una famosa (e famigerata) studiosa: «Non divenne mai un amico… di Blake Edwards8».
E invece no.
Mohamed Masud Reza Khan e Svetlana Beriosova poco prima delle nozze
Se fate una piccola ricerca su Internet, digitando Masud Khan, resterete orripilati. Troverete una valanga di accuse forsennate, la più gentile delle quali è che fosse un mostro. Perverso, crudele, violento, esibizionista, falso, bipolare e chi ne ha più ne insulta: Khan è meglio perderlo che trovarlo.
Tutta questa paccotiglia può impressionare il lettore sprovveduto di oggi, come il lettore sprovveduto di ieri poteva restare impressionato leggendo i Protocolli degli Anziani di Sion e immaginare che gli Ebrei fossero mostri. L’antisemitismo è stato potentemente aiutato da decine e decine di libri pseudoscientifci, scritti spesso da persone di grande fama, né più né meno come gli scienziati italiani che sottoscrissero il Manifesto della razza nel 19389. Allo stesso modo l’anti-khanismo può essere sostenuto dalla complicità di molti, troppi nomi illustri.
Può sembrare una provocazione assimilare alle vittime dell’antisemtismo un uomo che, fra le tante accuse, è stato incolpato proprio di essere antisemita. Tutte balle. Avete capito bene. Balle. Per questo è lecito mettere Khan sullo stesso piano di tutti coloro che sono stati vittime di false accuse, secondo la strategia di “rivoltare la frittata”, purtroppo nei moderni giorni diffusa tanto quanto nei decrepiti giorni di ieri. Quel che è successo a Khan è simile a ciò che accadde all’indiano Abdul Karim, che tutti abbiamo scoperto grazie al libro della giornalista Shrabani Basu e al bel film di Stephen Frears, che si intitolano ambedue Vittoria ed Abdul. Questo maestro indiano, venuto dal nulla, si era conquistato l’amicizia della regina Vittoria, provocando la rabbia furiosa degli squallidi membri della sua corte e della buona società britannica. Alla morte della regina fu costretto a sparire e ogni testimonanza che provasse il suo rapporto con la sovrana venne distrutta. Tutto, meno che i suoi diari e il diario della regina, che nessuno capiva perché erano scritti in Urdu (Vittoria aveva imparato la lingua da Abdul). La Shrabani Basu ha riscoperto questi documenti dimenticati e la verità è venuta a galla dopo tanti anni!
Allo stesso modo sarebbe ora che certe verità elementari venissero ristabilite, come ad esempio quella che Khan non era antisemita. E’ assurdo.accusare di antisemitismo un autore, per la battuta (infelice) di un personaggio di finzione nel suo ultimo libro (un personaggio: non l’autore, come credono gli imbecilli10). Khan fu profondamente legato ad Anna Freud che era ebrea, ha avuto molti amici ebrei e fidanzate ebree, ha sempre mostrato ammirazione per la cultura ebraica e addirittura ha partecipato a raccolte di fondi per il neonato Stato di Israele con contributi volontari11. Ciò, del resto, pensavano certamente gli editori e i redattori delle due case editrici che hanno pubblicato l’ultimo libro di Khan: tutti ebrei, tutti intellettuali, impegnati nella stampa di opere importanti nella cultura ebraica come gli scritti di Abba Eban e Primo Levi (Basic Books). Non avrebbero avuto alcuna difficoltà a chiedere all’autore di modificare una frase nel suo libro. Essendo lettori di professione, intelligenti, attenti e non bigotti clericali, protagonisti dell’editoria in lingua inglese – come Arthur Rosenthal della Basic Books o Bennett Cerf, Donald Klopfer e Jason Epstein della Random che aveva comprato la Chatto & Windus12 – non batterono ciglio.
Non parliamo poi delle diagnosi da dilettanti, come quella di “bipolare” e di “alcolizzato cronico”, che portano i presunti Catoni a commettere errori banalissimi, come affermare che sia morto di cirrosi epatica, una sorta di punizione divina per i suoi eccessi, dimenticando o fingendo di dimenticare che se uno ha il cancro e fa più di venti operazioni una dopo l’altra e vive senza un polmone, senza la trachea e senza la laringe e non può più parlare, forse la tentazione di bere per dimenticare i propri mali e anche la chemioterapia, che riduce a uno straccio chi è già uno straccio non è una cosa inaudita (comunque, il certificato di morte di Khan afferma che, anche se aveva problemi epatici, è stato stroncato da un tumore13). Allora che ne dite?
E che dire di un’altra valutazione sbagliata, secondo cui egli sarebbe stato un fervente e fanatico pakistano (leggi: integralista musulmano) al punto da definirlo così perfino nei titoli dei libri, che parlano di “Vita e opere di uno psicoanalista pakistano14”. E invece Khan pakistano (e fanatico) non era affatto: era nato nel 1922, quando il Pakistan ancora non esisteva e non ha mai chiesto la cittadinanza pakistana per tutta la vita. Beh, che ne dite?
Il lettore che volesse informazioni più dettagliate sulla valanga di errori e di mistificazioni nei confronti di Khan può leggere due saggi molto lunghi e dettagliati che ho scritto, visto che ho titolo per farlo e sono uno storico di professione, commentando analiticamente alcuni errori clamorosi e la mancanza di professionalità degli autori di libri e articoli pseudo-scientifici, dilettanti allo sbaraglio, che non sono né storici di professione, né psicoanalisti di professione15 e quindi parlano di cose che conoscono per sentito dire, ad esempio la diagnosi piscoanlitica di presunti malati o l’uso corretto di fonti attendibili e documenti non faziosi, senza l’ identità e la serietà di uno specialista vero.
Se non volete credere a me, credete almeno alle parole di uno dei più autorevoli psicoanalisti italiani, Andreas Giannakoulas, che ha scritto a questo proposito: «E’ molto triste che quest’uomo [= Khan] sia diventato un bersaglio così facile da essere oggetto di pseudo-biografie (perfino in Italia di recente) come esercizio di quella perversione del mercato, che, con perfidia organizzata, moltiplica le produzioni della pubblicistica universitaria e non solo. La categoria dell’ignoranza onnipotente e dell’arroganza parassitaria16».
Bene. Usciamo dal fango e torniamo a riveder le stelle. Non mi permetterò di parlare delle idee di Khan: non ne ho la competenza e sarei presuntuoso se lo facessi. Parlerò solo di qualche aspetto della sua figura pubblica e della sua influenza sulla cultura del tempo.
Khan era indiano (non pakistano: sennò pure Garibaldi era francese e Cristoforo Colombo era spagnolo!). Negli anni sessanta l’India andava di moda. Soprattutto a Londra. I Beatles presero come loro Guru un santone che si chiamava Maharishi Mahesh Yogy, dedicandogli una canzone. Altri se ne andarono a Poona da Bhagwan Shree Rajneesh, praticando sesso selvaggio ed estasi di ogni tipo. E fossero stati i soli. Questa sbornia dell’India non nasceva dal caso ma dalle ceneri del colonialismo inglese, dal senso di colpa di poche persone coscienti, rispetto a una massa di incoscienti, anticipate dalle parole di fuoco di Somerset Maughan nel Filo del rasoio e dalle parole piene di saggezza di Edward Morgan Foster in Pasaggio in India.
Ma, rispetto a tutto questo, Khan aveva una marcia in più. Non solo perchè era uno psicoanalista brillante, che insieme al suo protettore Donald Winnicott faceva faville nel sonnolento panorama della psicoanalisi inglese degli anni cinquanta. Ma perché si era gettato con forza e incoscienza nella lotta contro i mali dei suoi pazienti, spesso aristocratici o ricchissimi figli di una società marcia com’era quella dell’Inghilterra post-coloniale, prendendoli, con discrezione tutta orientale, letteralmente a pesci in faccia.
L’indiano, esiliato a Londra, era timido e taciturno. Non era mai arrogante e anzi sembrava sempre molto umile. Come ha detto Eric Rayner, un celebre psicoanalista, che lo conobbe bene: «Niente di lui intimidiva fisicamente o mentalmente; non c’era nel suo tono niente di punitivo o minaccioso17».
Eppure quest’uomo umile non era un emulo di Ghandi, né il seguace di un Guru che predica pace e bontà. Era un guerriero silenzioso, un guerriero del Punjab, la sua terra di origine, la terra dei più grandi guerrieri del mondo. Mi permettete di citarmi? Non lo faccio per esibizionismo. Come dice Dante:« Per necessarie cagioni lo parlare di sè è conceduto… quando sanza ragionare di sé, grande infamia o pericolo non si può cessare18».
Come ho scritto a proposito di Khan, inascolato, nel 2005: «Il suo spirito è lo spirito del Punjab, terra di combattenti indomiti, capaci di grande nobiltà d’animo. La terra dei Sikh, che dopo secoli di massacri, sono ancora capaci di ribellarsi e conquistare il potere su tutta la regione. La terra dei grandi condottieri mussulmani, come Mohammed bin Qasim, che conquistò Daipul nel 712 d. C. e introdusse la religione islamica, concedendo però libertà di culto agli Indù. La terra dei Pashtun afgani, invincibili, mai piegati dagli Inglesi, il cui primo dovere morale è proteggere l’ospite anche a costo della vita. La terra dei grandi cavalieri indù del Rajput, capaci di gesta epiche degne di Orlando e di Carlo Magno, come il grande Prithiviraj Chouhan, che si umilia per amore della bella Sanyogita, ma non si umilia mai davanti al nemico, l’infido Mahumud Gori, neppure quando nel 1192 questi lo cattura e lo acceca slealmente: da cieco, è ancora capace di ucciderlo e di passare così nella leggenda.
Il Punjab è la terra amata dai grandi moghul e dal più grande di tutti, Akbar (1556-1605), analfabeta per scelta, che passa la vita ad ascoltare i saggi di tutte le religioni per scoprire che la verità non esiste; Akbar che si rifiuta di uccidere i nemici a sangue freddo e cerca volontariamente la morte per sfuggire agli orrori della guerra, ma quando la trova, quando incontra una tigre feroce è capace di ucciderla con le mani, perché la vita, alla fine, prevale sempre sulla morte.
Ma il Punjab non è solo la terra dove si sono incontrati e scontrati i più grandi guerrieri della storia. E’ anche la terra dove si sono accavallate le più grandi religioni dell’India, confrontandosi con foga e generando i più grandi scettici del continente asiatico, esseri straordinari che il mondo crede pazzi e che deridono il mondo pazzo, preda della follia: uomini come Guru Nanak (1469-1532), il fondatore della religione Sikh, che si batté contro tutte le religioni confessionali, per la purezza dello spirito e la libertà da ogni ortodossia; o come i grandi sufi mussulmani, che praticavano ardentemente la malamatiyya, ridicolizzando chi è profondamente ridicolo e non lo sa con un comportamento coscientemente ridicolo.
La malamatiyya nacque a Nishabur, la città di Omar Khayyam, un autore che Khan ama e cita esplicitamente [M. R. Khan, Trasgressioni, Torino, Boringhieri, 1992, p. 68] ed ammira forse perché, come ha scritto brillantemente Alessandro Bausani, “veniva alle mani” con Dio [Introduzione a Omar Khayyam, Quartine, Torino, Einaudi, 2003, p. XIX]. Come lui, i sufi del Punjab, che Khan conosce e cita a più riprese, venivano alle mani con l’ipocrisia ed alcuni di loro, i più accesi, conducevano la stessa battaglia praticando la malamatiyya. Si tratta della setta dei Qalandar, emigrati in Anatolia dall’Asia minore e dalla Persia orientale. Questo movimento (che deve il nome al termine qalandar: “vagabondo che si attira il rimprovero con un comportamento scandaloso e libertino”) è attestato in India a partire dal 1230 circa a Delhi, in Punjab, in Sind e in Bengala.
Uno dei maestri delle sette che praticavano la malamatiyya, Abu Hafs, sostiene che i membri della setta devono esporsi deliberatamente al biasimo degli altri, con un comportamento eccentrico e stravagante. Dio compensa un simile sforzo di umiltà e di abnegazione concedendo loro la chiaroveggenza e il potere di conoscere i segreti. I sufi devono distaccarsi da ciò che li lega al mondo per abbandonarsi a Dio. Devono mostrarsi empi e malvagi, perché nessuno li creda santi, smascherando così l’ipocrisia dei falsi religiosi che ostentano la virtù solo per avere la lode. Essi erano, come ha detto Bausani, ‘pazzi sacri’ [A. Bausani, Il pazzo sacro nell’Islam saggi di storia estetica, letteraria e religiosa , Milano-Trento, edizioni Luni, 2000].19»
Beh, è ora di tornare a Blake Edwards. Che c’entra tutto quello che ho detto con lui e con Peter Sellers? Abbiate pazienza e ci arrivo. Cominiciamo da un cappello. Avete capito bene: cappello. Quale? Ma il karakul, diamine. Per chi non lo sapesse, il karakul, di lana di agnello, è il cappello tradizionale dei Pashtun, i guerrieri indomiti dell’Afghanistan che gli Inglesi non sono riusciti mai a sconfiggere definitivamente. Il suo valore simbolico fu percepito dal più grande leader mussulmano dell’India, il creatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, che lo portava sempre, quasi a volersi differenziare visivamente da Gandhi, che portava il kashmiro, il bianco cappello di khadi (una fibra ricavata dal cotone a cui si può aggiungere seta e lana) che divenne il simbolo degli indipendentisti.
Muhammad Ali Jinnah
Ecco, fu proprio portando in testa il karakul che nel 1959 Khan si sposò con la più grande ballerina dell’epoca, Svetlana Beriosova, amica della principessa Margaret e beniamina dei salotti dell’aristocrazia britannica. Le nozze fecero rumore. Khan, l’umile indiano, sposava una stella della buona società. E la sposava (ma questo non lo notò nessuno) portando in testa il cappello dei guerrieri afghani invincibili, come se si fosse presentato a un pranzo di gala della regina Elisabetta vestito da Che Guevara, col sigaro in bocca e il basco con la stella rossa.
Masud Khan e Svetlana Beriosova il giorno delle nozze
Naturalmente molti disapprovarono le nozze. Ma altri no. Alcuni, la parte migliore della società britannica, aristocratici e plebei, ne furono felici. Uno di loro, Anthony Asquith, nobile di nome e di fatto, regista (allora) famosissimo, ne fu talmente entusiasta che lo ricordò, con simpatia, in un film delizioso: in cui il protagonista era, per l’appunto, Peter Sellers, accompagnato da una magnifica Sofia Loren. Il film si chiamava La Miliardaria. Il testo l’aveva scritto nel 1936 Georg Bernard Shaw e raccontava la storia di un’insopportabile e prepotente ereditiera, simbolo del capitalismo, che non riesce a farsi amare da nessuno e viene rimessa in riga da un medico egiziano, povero in canna, ma fervente seguace di Allah e del socialismo. Da questa commedia noiosissima e didascalica, Asquith, aiutato da uno sceneggiatore allora famoso quanto lui, il fantasioso e brillante Wolf Mnrkowitz, tirò fuori una commedia sofisticata, con la Loren bella e brava come mai e un Peter Sellers al solito strepitoso.
Non possiamo soffermarci quanto sarebbe necessario su quest’opera. Dal nostro punto di vista basta dire che gli attori protagonisti, indirizzati dal regista e dallo sceneggiatore, si ispirarono alla coppia Khan-Beriosova, che spopolava nei giornali e nei cinegiornali dell’epoca.
Sellers, che avrebbe dovuto essere un imprecisato medico egiziano, divenne un medico indiano: si chiamava Mohamed el Kabir – non “Ahmed” come molti sostengono: cfr. quello che dice Seller stesso nel film: 1 h , 4 m, 57 s) – che è un altro modo di dire Mohamed Khan: “el Kabir” infatti significa “il Grande”, tipico attributo di sovrani, come Alfredo “il Grande” o Carlo “Magno”; e “Khan” significa “re”.
Sellers parla Hindi come un Indù di Dheli o di Calcutta (nel film 44 m, 59 secondi: “mera naam” significa “il mio nome”) ma – ad onta di ogni credibilità – porta sempre il karakul afgano. Inoltre, ha costantemente la faccia seria e concentrata e non sorride quasi mai, come faceva di solito in pubblico Khan, che solo al momento del matrimonio si lasciò andare in un imprevisto sorriso.
Peter Sellers in La Miliardaria e Masud Khan
Quanto alla Loren, prese a modello i volti ispirati della Beriosova e le sue appariscenti mises, coadiuvata dal talento del grande sarto Pierre Balmain.
Svetlana Beriosova nel Lago dei cigni e Sofia Loren in La Miliardaria
Svetlana Beriosova nei panni della Regina Nera e Sofia Loren in La Milardaria
Svetlana Beriosova in Les biches e Sofia Loren in La Milardaria
Il grande pubblico non ebbe dubbi e accolse il film con entusiasmo: in esso riviveva la favola bella, raccontata dai giornali e dai cinegiornali, che esaltavano le nozze regali fra un’oscuro medico indiano (che pure vantava origini principesche) e una ballerina che invitava a cena la principessa Margaret.
Svetalana Beriosova e Masud Khan nel 1961 (foto di Henri Cartier Bresson) e Peter Sellers e Sofia Loren in una foto di scena della Miliardaria
Gongolavano anche coloro che non si riconoscevano nella psicoanalisi freudiana tradizionale. Nel film compariva infatti un personaggio che non c’era nella commedia di Shaw, uno psicoanalista, ligio alla lezione di Freud, che viene sbeffeggiato e malmenato dalla Loren. Questa frecciatina contro il freudismo classico viene dalla penna di Manwoticz, sposato a una psicoanalista di scuola junghiana, rivale di quella freudiana.
Tuttavia non era certo Jung l’ispiratore del personaggio del dottor el Kabir. Certo, la sceneggiatura di una commedia non è il luogo adatto per disquisizioni teoriche. Però basta una sola battuta di Peter Sellers, fulminante, anche se blanda e dimessa, per ricordare al pubblco i metodi non ortodossi di Khan, ispirati a una psicoanalisi innovativa. La battuta non c’era nella commedia di Shaw e fu aggiunta con astuta nonchalance da Mankowitz: il riluttante el Kabir non vorrebbe sposare l’arrogante miliardaria, ma finisce col precipitarsi da lei, quando sa che vuole chiudersi in un convento, dicendo: «Ho trovato una donna autodistruttiva. Devo correre immediatamente da lei» (“I’ll find a self-destructive woman. I must go to her immediately”: 1 h, 21 m, 18 s).
Come si fa – anche se siamo nel contesto di una commedia di intrattenimento ironica e sorridente – a non pensare “immediatamente” a tante affermazioni di Khan dello stesso tenore? Come si fa a non pensare a quella paziente, che egli incontrò alcuni anni dopo il film, ma che riassume simbolicamente il tipo di paziente che egli incontrava anche prima: la “ragazza dalla testa vuota”, violentemente distruttiva e autodistruttiva, che aveva fracassato furiosamente lo studio della sua analista e che, subito dopo, esigeva un incontro con il famoso Khan, alle undici di sera, visto che tanto lui “lavora a tutte le ore”? La ragazza fu ricevuta subito, anche se questa prassi non è quella considerata standard. Come ha scritto Khan, commentando l’episodio: «Evito sempre di soffermarmi troppo a riflettere quando devo prendere decisioni cliniche in situazioni così fuori dal comune… convinto dell’inutilità di considerazioni aprioristiche sulla “analizzabilità” di una persona: o si accetta di curarla o ci si rifiuta di farlo; questo è tutto20».
Per quanto la figura del medico indiano fosse caricaturale, il pubblico rimase entusiasta e riconobbe qualcosa che già aveva approssimativamente conosciuto, qualcosa in cui si riconosceva: l’esigenza, certo vaga, di un cambiamento radicale del proprio stile di vita, che poi dilagò negli anni Sessanta e culminò con la rivoluzione culturale del Sessantotto.
La popolarità di Sellers crebbe enormemente dopo aver interpretato il dottor el Kabir. L’attore aveva già recitato la macchietta dell’indiano sprovveduto in un programma radio degli anni, The Goon Show, una specie di Alto gradimento di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Ma il suo personaggio si limitava solo a fare errori e confusioni linguistiche, spesso a sfondo sessuale. Il pubblico rideva grossolanamente, senza farsi troppo problemi. Invece l’esperienza della Miliardaria, insegnò a Sellers l’arte di muoversi in modo meno buffonesco e la sua “invenzione” piacque enormemente a spettatori che avevano voglia di fare un salto di qualità rispetto a quelli del vecchio vaudeville. Per questo i produttori del film si affannarono a sfruttare il successo di Sellers, facendo scrivere una canzone adatta al suo personaggio, basata su espressioni buffe, su cui sorridere con indulgenza, come l’esclamazione Goodness Gracious Me (Bontà divina a me!) che ne divenne il ritornello. La canzone, cantata insieme alla Loren, fu un successo travolgente in Inghilterra nella Hit parade del 1960. Inutile dire che i soliti bacchettoni bianchi e i soliti fanatici indiani trovarono da ridire sul razzismo implicito (lo vedono solo loro) di questa nuova maschera della Commedia dell’Arte cinematografica.
Il personaggio dell’indiano, così estraneo rispetto ai suoi simili e alla società in cui vive, ma anche così innocente e umile, fu ripreso in una chiave diversa, ma non opposta, dallo stesso Sellers in quel capolavoro assoluto di Blake Edwards che è Hollywood party, che non a caso fu girato proprio nel Sessantotto e ne simbolizzò, in una certa misura, lo spirito più profondo: una commedia scatenata, esilarante, surreale in cui il personaggio principale è un individuo estraneo a un mondo stupido e crudele, che grazie alla sua goffa semplicità trionfa su tutto e tutti. Si tratta di un attore di origine indiana, Hrundi Bakhs, un vero e proprio angelo sulla terra. che rovescia continuamente il significato delle parole e dei comportamenti delle persone che lo circondano, chiusi nella loro superficialità aggressiva, svelando con il suo candore la follia di un mondo di folli che non si rendono conto di esserlo. Senza dubbio questa figura di dropout deve molto alla comicità surreale di Stan Laurel, dei fratelli Marx e di Jacques Tati, preso deliberatamente a modello in certe scene. Ma deve anche qualcosa alla figura del medico della Miliardaria. Sellers infatti riprese alla lettera il modo di parlare, il tono della voce e i gesti del suo personaggio del 1960: come el Kabir stringe le palme in forma di umile saluto, invitando i presenti a scendere nelle profondità dell’anima; come el Kabir abbassa gli occhi con timida tenerezza, di fronte agli occhi minacciosi e aggressivi dei suoi interlocutori; come el Kabir pronuncia sentenze che non vogliono dire nulla, ma sembrano frutto della saggezza di uno Yogi; come el Kabir commette deliziosi errori di grammatica che ci fanno sorridere e ispirano simpatia; come el Kabir dà prova di nobiltà d’animo e salva una ragazza “auto-distruttiva”.
Peter Sellers in La Miliardaria e in Hollywood Party
Il regista lasciò mano libera al suo attore preferito, che improvvisò quasi tutte le gag del film ispirandosi al personaggio magistralmente interpretato e che lo aveva reso celebre. Come al solito, regista ed attore avevano litigato e non si parlarono che attraverso bigliettini. Ma in realtà erano come il Gatto e la Volpe: quello che l’uno non ci metteva di suo, ce lo metteva l’altro. Basti pensare a questo: per sottolineare la filiazione di Sellers e della ragazza auto-distruttiva dal modello archetipo dell’indiano Khan e della ballerina Beriosova, Edwards (che come abbiamo visto mischiava volentieri vita e finzione) scelse come interprete Claudine Longet, che era stata una ballerina delle Folies Bergères di Los Angeles e aveva spiccato il volo, rispetto alla sua professione, sposando un celebre cantante che la introdusse a Hollywood.
Qualcuno potrebbe osservare: le cose che abbiamo notato sono in fondo solo accenni, allusioni. E che in ogni caso nel primo e nel secondo film il protagonista è solo una figuretta senza profondità, un ritrattino in punta di penna, la cui natura eterea e allusiva non dobbiamo forzare. E’ vero. Però anche Stan Laurel era una figuretta senza profondità. E Charlot era pco più che un personaggio di fumetto, evaso dalle strisce disegnate e finito chissà come sullo schermo. E allora? C’è qualcuno che oserebbe dire che tutto questo è puro divertimento e niente più?
Non dobbiamo negare o rimuovere il significato di immagini che si presentano come ombre sorridenti.
E non dobbiamo negare neppure il loro significato per chi le ha create. Ad esempio dicendo stupidamente che «Edwards non divenne mai amico di Khan». Blake Edwards non divenne amico di molte persone, a cominciare da Peter Sellers: però, conosceva benissimo Khan, meglio di moltissimi altri. Perché? Perché Khan era un caro amico di sua moglie, Julie Andrews, che quando era ancora sposata con Tony Walton, nei primi anni sessanta, abitava a Londra sulla stessa strada di Khan, Harley Street , la via degli psichiatri. La Andrews era amicissima della Beriosova, che era per lei una vera sorella e che fece da madrina a Emma Walton, l’ultima figlia dell’attrice con il primo marito.
La Beriosova e la Andrews frequentavano gli stessi salotti e gli stessi amici ed avevano le stesse idee. La Andrews, ispirandosi proprio a Khan, divenne una vera suffraggetta della psicoanalisi e conobbe Edwards proprio andando dal suo analista, mentre il regista tornava dal suo. I due cominciarono a parlare di psicoanalisi, in breve si fidanzarono e si sposarono21.
Galeotto fu Khan? In un certo senso sì. Egli, come la terza fata della Bella Addormentata, esercitò un incantesimo buono che permise alla Bella e al suo Principe di incontrarsi ed amarsi. Anche questo ha avuto il suo peso nella Self-Therapy di tutti e due.
Più di una persona potrebbe pensare che si tratta di fantasie o nel migliore dei casi degli effetti imprevedibili di una “analisi selvaggia”, anzi di una “auto-analisi selvaggia”, praticata da persone sprovvedute.
Sarà pure vero. Ma è anche vero che a volte questo è tutto quello che la vita offre. E allora c’è poco da scegliere. La vita è molto strana e confusa, come canta, con la sua inconfondibile voce, Julie Andrews nel film Victor, Victoria, diretto dal marito, lo smarrito, il depresso Blake Edwards, sulle note (guarda un po’) di Henry Mancini:
Crazy world
Full of crazy contridictions, like a child.
First you drive me wild, and then you win my heart…
(Pazzo mondo,
pieno di pazze contraddizioni, come un bambino.
Prima mi fai impazzire e poi mi prendi il cuore…).
LE NOTE
1 Stuart Byron, Confessions of a Cult Figure, in Village Voice August 5, 1971 p56
2 Don Groves, Blake Edwards: Death of a troubled clown, in SBS Movies, 26/2/ 2014
3 Ed Sikov, Mr. Strangelove: A Biography of Peter Sellers, New York, Hyperion, 2003.
4 Peter Sheridan , Dark side of the loon, in The Sunday Express, Feb 25, 2010.
5 David Coleman, The Bipolar Express: Manic Depression and the Movies, New York, Rowman and Littlefield, 2014, p. 178: «Jeannette Scott…amante segreta di Sellers nella maturità…ricorda che l’impegno conflittuale di essere all’altezza delle richieste di Kubrick [durante le riprese del Dottor Stranamore] lasciava Sellers completamente esausto…e che fu costretta a intervenire quando l’attore si chiuse nel bagno minacciando il suicidio…un proposito faticosamente bloccato anche altra dopo notti in bianco piene di lacrime».
6 Ibid., pp. 170-71:
7 Coleman, Bipolar express cit., p. 172.
8 Linda Hopkins, False self, The Life of Masud Khan, New York, Other Press, 2007.
9 Pubblicato, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, su “Il Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza, anticipa di poche settimane la promulgazione della legislazione razziale fascista (settembre-ottobre 1938). Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, Il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Il testo fu sottoscritto da illustri sienziati: Lino Businco, docente di patologia generale, ‘Università di Roma; Lidio Cipriani, docente di antropologia, Università di Firenze; Arturo Donaggio, docente di neuropsichiatria, Università di Bologna, nonché presidente della Società Italiana di Psichiatria; Leone Franzi, docente di pediatria, Università di Milano; Guido Landra, docente di antropologia, Università di Roma; Nicola Pende, docente di endocrinologia, Università di Roma, nonchè direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica; Marcello Ricci, docente di zoologia, Università di Roma; Franco Savorgnan, docente di demografia, Università di Roma, nonché presidente dell’Istituto Centrale di Statistica; Sabato Visco, docente di fisiologia, Università di Roma e direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche; Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma.
10 Ho chiarito questo punto in Fabio Troncarelli, Citizen Khan. Il Principe ribelle tra Medioevo e Psicoanalisi, in Il pane degli angeli. Storia, cinema, psicoanalisi in cerca di una saggezza possibile, Roma, Aracne, 2005, pp. 200-214. L’ultimo libro di Khan ha un carattere decisamente letterario e i protagonisti dei dialoghi messi in secna non sono persone realiu, ma persone inventate, anche se a partire dalla realtà. E’ dunque veramente sconcertate che qualche sprovveduto possa credere che le loro parole siano autentiche e non capisca che, come i personaggi di una commedia, dicono cose che servono allo sviluppo della vicenda e che l’esito finale del dialogo e il suo significato contno molto di più che le singole parole di un personaggio in un determinato momento. O vogliamo credere che Dante fosse un vigliacco e non abbia mai voluto scrivere la Commedia perchè all’inizio dice “Io non Enea, io non Paolo sono” e Virgilio lo sprona ad andare avanti?
11 Judith Cooper, Speak of me as I am. The Life and Work of Masud Khan, London , Karnac Books, 1993, pp. 32-34
12 Jason Epstein, Book Business. Past Present and Future, New York, Chatto & Windus, 2000
13 E’ questo ciò che è scritto nel suo certificato clinico, citato da Roger Willoughby, Masud Khan: The Myth And The Reality, London, Free Association Books, 2006, p. 238. Hanno dunque torto Gazzillo e Silvestri che affermano che Khan fu: «ucciso dalla cirrosi, dovuta al suo alcolismo, non dal cancro»: F. Gazzillo- M. Silvestri, Sua maestà Masud Khan: vita e opere di uno psicoanalista pakistano a Londra, Milano, Cortina, 2008, p. 122).
14 Gazzillo-Silvestri, Sua maestà Masud Khan: vita e opere di uno psicoanalista pakistano a Londra, cit.
15 Fabio Troncarelli, Citizen Khan cit.; Id., Il caso Masud Khan, in Fabio Troncarelli, Academia.edu.
16 Andreas Giannakoulas, La tradizione psicoanalitica britannica indipendente, Roma, Borla, 2010 p. 123.
17 Eric Rayner, Prefazione a Cooper, Speak of me cit., p. 12
18 Dante Alighieri, Convivio, I, 12
19 Troncarelli, Citizen Khan cit., pp. 209-212.
20 Mohammed Masud Khan, I sé nascosti. Teoria e pratica psicoanalitica, Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 120.
21 Per tutte le notizie sulla Andrews si veda Richard Stirling, Julie Andrews: An Intimate Biography, New York, St. Martin Press-3 PL, 2007, pp.. 169- 172. Vedi anche Julia Andrews, Home: a memoir of my early years, London, Doubleday, 2008.
MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.
Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.
La redazione – abbastanza ballerina – della bottega