Guerre? Cum grano salis

articolo e video di Vincenzo Costa, Andrea Zhok, Richard Black, Michele Manfrin, Alberto Negri, Ola Bini, Costituente della terra, Daniela Padoan, Fulvio Scaglione, Benedetta Piola Caselli, Caitlin Johnstone, Enrico Vigna, Donatella Di Cesare, Enrico Euli e il convegno di “Missione Oggi”

 

I conti della serva e i nobili ideali – Vincenzo Costa

Non tutti siamo esseri elevati, coraggiosi, idealisti, non tutti siamo renziani o ex renziani, gente che notoriamente ha fatto dell’ideale un motivo di vita, una guida sicura. Gente che ha combattuto per la giustizia, contro l’oppressione sindacale, per restituire la libertà ai lavoratori contro le organizzazioni del lavoro, non tutti siamo gente che ha lottato per liberarli dai loro pregiudizi, come quello del posto fisso, delle garanzie, dello stato sociale. Non tutti siamo animati da questo spirito di libertà che anima te, amico renziano o piddino.

E io, che sono volgare come la gramigna (cit Guccini), insieme a tanti altri amici volgari come me, noi che somigliamo allo Scrooge di Dickens, noi che il renzismo non abbiamo mai potuto farlo nostro a causa della nostra gretta costituzione psichica, del nostro degrado morale, del nostro utilitarismo che sfiora l’indecenza, ecco, noi facciamo i conti della serva, anche quando c’è una guerra facciamo i conti della serva.

Sordi a ogni appello alla grandezza e al coraggio noi siamo ossessivamente angosciati dal fatto che in un anno una famiglia media (e noi siamo così medi, dozzinali, cosi furfanti da appartenere alla medietà) spenderà, a causa delle sanzioni, 2.421 euro in più.

2.421 euro svaniti, pfuff, evaporati dalle nostre tasche.

E la notte non sogniamo più, e non piangiamo per il coraggio dei mirabilissimi filosofi (ah, i nostri fratelli) della AZOV, non troviamo tempo per solidarizzare con le loro mogli che hanno fatto il giro delle sette chiese per chiedere di salvare la vita a quegli eroi che loro, diciamolo, non volevano salvarsi, perché loro sono discendenti dei vikinghi.

Loro aspiravano al Valhalla, dove avrebbero banchettato con Odino e coi veri dei, soppiantati poi da quella miseria che è il cristianesimo, degno di popoli volgari, come noi in fondo. Ecco, noi non aspiriamo al Valhalla, tanto meno ancora all’aquila di sangue. Noi siamo vili.

Noi aspiriamo ad arrivare a fine mese.

Lo so, è una meta così gretta da appartenere all’ultimo uomo, ma noi siamo così simili all’ultimo uomo, così piccini, meschini.

Noi vorremmo solo non avere perso l’8% del potere d’aquisto del nostro stipendio. Lo so, siamo gretti, volgari come la gramigna. Ogni 1.000 euro fa 80 euro. Su uno stipendio di 2000 euro fa una discreta sommetta in un anno

Ci toglie il sonno della notte il fatto che se avevamo 10.000 in banca, chi di noi li aveva, ha già perso, svaniti nel nulla, 800 euro in un anno. Chi ne aveva 20.000 ha visto svanire 1.600.

Si amico renziano, tu sei quello che mi ha fracassato le gonadi dicendo che l’uscita dall’Euro avrebbe distrutto i risparmi degli italiani, perché avremmo avuto un’inflazione del…. di quanto? Dicevi, amico renziano dal cuore dorato, che avremmo avuto un’inflazione dell’8%.

E noi che siamo gramigna ora vediamo che, a causa delle sanzioni e delle tue nobili intenzioni, uomo di somma intelligenza, anticomplottista, abbiamo un’inflazione dell’8%.

Ma ora non è più devastante. Tu sei come mandrake amico renziano-piddino. Trasformi la tragedia in opportunità in un attimo. E noi ti ammiriamo, ti guardiamo con invidia

Ma c’è di più: il tuo eroe, colui che nel tuo cuore ha sostituito Capitan America, la grande guida che eguaglia Gesù Cristo, lo Zelen’skij, costui chiede, per la ricostruzione futura dell’Ucraina, 600 miliardi di euro.

600 miliardi di euro.

E tu dirai di tirarli fuori. Tu, cuore nobile, anima immortale della sinistra che fu, è e sarà, sentiero luminoso, ci chiederai di tirarli fuori, a noi. Tu, che hai massacrato la Grecia per non tirare fuori tre spiccioli, ma quegli spendaccioni dei greci non meritavano altro e tu lo hai fatto per educarli. Tu che hai minacciato la fine del mondo per impedire l’aumento di qualche euro per le pensioni, tu che urli contro il reddito di cittadinanza, che questi stanno a scialacquare invece di lavorare.

Bisognerà tirarli fuori. Ma da dove, cuore d’oro e nobilissimo?

ma tagliando la spesa sociale, che diamine, tagliando la sanità, la spesa per l’istruzione, i servizi, riducendo il personale pubblico.

E poi aumentando un po’ le tasse, o no? magari sui dipendenti, perché sui profitti no che altrimenti si blocca la ripresa.

E poi prendendo a prestito. Così prendiamo a prestito soldi e subito li giriamo agli eroi ucraini, che ne faranno buon uso, non ho dubbi.

E’ la stessa classe dirigente ucraina che quei filoputiniani degli istituti di garanzia internazionali giudicarono, nel tempo che fu, la classe dirigente più corrotta dell’universo. Ma la guerra è un lavacro, li ha cambiati, li ha resi puri, più bianchi della neve.

E poi mandiamo armi, con i soldi della UE, armi che costano, maledizione, perché le armi sono bellissime, ma il guaio è che costano e per comprarle bisogna che gli stati membri della UE contribuiscano, che si tagli da altre parti, o che la UE si indebiti.

E io, uomo del risentimento e dell’invidia sociale, ricordo, oh carissima mente immacolata, che dicevi che il debito pubblico era un debito che gravava sulle spalle dei nostri figli, e mettevi generazione contro generazione (ma tu sei lindo, e lo hai dimenticato, lo so, non per malizia, ma perché tu aspiri solo a cose nobili).

Ecco, ora non è così: il debito che facciamo per mandare armi non grava sui nostri figli, e poi, qui c’è l’ideale, le idealità, i valori.

E niente, noi siamo melma, Scrooge, volgari come la gramigna, non possiamo comprendere le altezze in cui vivi tu.

Ma immagino sia una ZTL il cielo in cui vivi

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Note sulla guerra russo-ucraina – Andrea Zhok

1) All’indomani dell’invasione, l’Europa aveva due opzioni.

Poteva accompagnare le necessarie sanzioni con una richiesta a Zelensky e Putin di avviare immediate trattative sulla base delle due istanze fondamentali del contenzioso: la neutralità dell’Ucraina e il rispetto degli accordi di Minsk. Se Zelensky non si fosse sentito coperto e garantito nella prosecuzione della guerra probabilmente la pace si poteva ottenere in una settimana.

Oppure, e questa è stata la scelta fatta, l’Europa poteva mettersi a dire che Putin era il nuovo Hitler, un pazzo, un animale, poteva mettersi a rifornire di soldi, istruttori e armamenti pesanti l’Ucraina, poteva scatenare un’ondata di russofobia imbarazzante e poteva perseverare in questa linea fino a dire (Borrell) che la guerra doveva risolversi sul campo (diplomatici che si improvvisano guerrieri con il culo degli altri).

2) Fornendo una caterva di armi all’Ucraina e senza alcuna garanzia di dove esse andassero a finire, l’Europa ha creato alle porte di casa un bacino bellico pazzesco, cui partecipa non solo l’esercito regolare, non solo milizie mercenarie, ma anche gruppi e gruppuscoli paramilitari, incontrollabili, che agiscono in modo autonomo, spesso con intenti più terroristici che militari (come il bombardamento di ieri su una scuola a Donetsk), e che non obbediranno mai ad un’eventuale pace firmata da Zelensky. Si prospetta (e questo è stato dall’inizio un desideratum americano) un conflitto duraturo, magari dopo una dichiarazione di tregua un conflitto ad intensità ridotta, che impegnerà l’esercito russo a lungo e che condurrà alla distruzione totale dell’Ucraina – almeno di quella ad oriente del Dnepr.

3) Come sempre accade, più il conflitto dura, più lutti avvengono, più gli animi si caricano di un odio irrevocabile, e più spazio ci sarà per un abbandono delle ultime remore nel condurre la guerra (la Russia ha progressivamente aumentato il peso del tipo di armamento utilizzato, l’Ucraina ha iniziato a bersagliare il territorio russo nella provincia di Belgorod). Quale sarà il limite dell’escalation lo vedremo.

4) Nel frattempo abbiamo tutti bellamente rimosso che in Ucraina, oltre a gasdotti e centrali nucleari, ci sono alcuni dei maggiori depositi di plutonio e uranio arricchito al mondo. Insomma stiamo giocando alla guerra, in progressiva escalation, in una delle aree più pericolose del pianeta quanto a possibili ripercussioni generali. E’ utile ricordare che la distanza tra l’Italia e l’Ucraina è di 1.500 km in linea d’aria, quella tra l’Ucraina e gli USA è di 7.500 km (con in mezzo un oceano).

5) Sul piano economico l’Europa si è giocata in questo modo l’accesso a fonti energetiche abbondanti e a prezzi moderati. Essendo l’Europa l’area al mondo maggiormente dedicata alla trasformazione industriale e meno dotata di risorse naturali, questo equivale ad essersi confezionati un cappio e averci messo il collo dentro. L’Europa sta supportando e alimentando una guerra alle porte di casa propria, non solo, sta facendo di tutto per farla durare a lungo e per troncare definitivamente tutti i rapporti con il resto dell’Eurasia. In sostanza, ci stiamo tagliando i ponti con quella parte del mondo rispetto a cui siamo economicamente complementari (Russia per le risorse, Cina per la manifattura di base, tutti i BRICS come il più grande mercato al mondo). Al tempo stesso ci stiamo subordinando di nuovo e senza alternative ad un competitore primario con cui siamo in diretta concorrenza sul piano industriale, ma che, a differenza dell’Europa, è energeticamente autonomo.

6) Arrivati a questo punto, la Russia non ha più un interesse primario a pervenire ad una pace rapida. Sul piano economico sta sì pagando un costo, ma sul piano strategico sta diventando il punto di riferimento mondiale per una “rivincita” di quella maggioritaria parte del mondo che si sente da decenni bullizzata dallo strapotere americano. Questa vittoria strategica consente alla Russia di coltivare una sostanziale alleanza con la Cina, un’alleanza assolutamente invincibile e inscalfibile da qualunque punto di vista: territoriale, demografico, economico e militare.

7) L’Europa, invece, si è scavata la fossa. Se i governi europei non riescono in qualche modo (e a questo punto comunque con gravi costi) a riallacciare i rapporti con la rimanente parte dell’Eurasia, il suo destino è segnato.

I due secoli di ascesa sul piano mondiale avviati all’inizio del XIX secolo si avviano ad un’ingloriosa conclusione. Già a partire dall’autunno cominceremo ad avere la prime avvisaglie di quella che si prospetta come una nuova durevole contrazione economica, una contrazione che, coinvolgendo en bloc i paesi europei, avrà caratteristiche finora inaudite, molto più pesanti della crisi del 2008, perché qui non ci saranno “garanzie di affidabilità finanziaria” che tengano.

Guardando in faccia oggi i Draghi, i Macron, gli Scholz, e i loro puntelli parlamentari (in Italia quasi l’intero arco parlamentare), l’unica domanda che rimane è: qualcuno pagherà?

Chi pagherà per l’operazione più autodistruttiva sul continente europeo dalla seconda guerra mondiale? Pagheranno i giornalisti a gettone che hanno fomentato la narrativa propagandistica funzionale ad alimentare la guerra? Pagheranno i politici che hanno sostenuto attivamente la guerra o che si sono genuflessi ai diktat del presidente del Consiglio?

Oppure di fronte ai nuovi disoccupati e ai nuovi working poors riusciranno ancora una volta nel gioco di prestigio di spiegare che non c’era alternativa?

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GUERRA IN UCRAINA, REALTA’ E SOGNI – Fulvio Scaglione

L’intera classe politica occidentale, da Joe Biden a Mario Draghi, dalla ministra tedesca della Difesa Baerbock (che a tratti pare essere il vero cancelliere) al premier polacco Morawiecki, è impegnata a ripetere ogni giorno, più volte al giorno, che la Russia deve essere sconfitta in Ucraina. Per la verità nelle ultime settimane c’è stato uno slittamento linguistico significativo: da “la Russia deve essere sconfitta” si è passati a “la Russia non deve vincere”, che forse è l’indice di una più cauta pretesa. Chissà. Però, anche quando ci fossimo ripetuti per l’ennesima volta ciò che tutti sappiamo ( ovvero che il cattivo, qui, è la Russia, l’invasore è il Cremlino, gli occupanti le truppe russe), ancora non potremmo sottrarci al confronto con la realtà dei fatti. Che in sintesi oggi dicono questo: dopo più di tre mesi di guerra la Russia non dà segni di volersi fermare; le sanzioni più massicce della storia (che come dice Draghi, si faranno sentire in estate…) non hanno ancora convinto la classe politica russa a cambiare linea; il territorio ucraino “occupato”, che era il 7% (tra Crimea e Repubbliche del Donbass) prima del 24 febbraio, ora è il 20%, e forse sarà di più nelle prossime settimane; e l’esercito ucraino, pur riorganizzato, rinforzato (nel 2021 Zelensky ha dedicato il 4,1% del Più alle forze armate), addestrato dagli ufficiali occidentali e armato (quasi) in ogni modo da mezzo mondo, in questa fase pare alle strette.

Certo, dal punto di vista politico di Varsavia, Londra o Washington ingolosisce la prospettiva di tagliare le unghie alla Russia, tanto più che i sacrifici di guerra li fanno gli altri, cioè gli ucraini. E poi in questi mesi ci è piaciuto fare il tifo per il più debole contro l’orso russo. È stato comodo trasferire sui nostri giornali ogni sorta di notizie e di false notizie abilmente diffuse da un sistema mediatico come quello ucraino, controllato dagli oligarchi (ne ho scritto nel numero di Limes appena uscito), messo al servizio del potere politico e infatti classificato, già prima della guerra, al 108° posto su 180 nella graduatoria mondiale della libertà di stampa (Russia al 156° posto). Comprese le fake news elaborate da Lyudmila Denisova, commissaria per i Diritti Umani che lo stesso Parlamento ucraino ha dovuto licenziare per non vergognarsi troppo. È stato divertente descrivere i militari russi come dei fessacchiotti senz’arte né parte e raccontare la guerra come una serie infinita di vittorie ucraine. Tutto bene. Peccato che ora la realtà dica altre cose.

E una delle cose che questa realtà dice è che sconfiggere la Russia o non farla vincere è possibile ma implica una conseguenza di cui troppo poco sia parla: assistere alla distruzione dell’Ucraina stessa. È un prezzo che siamo disposti a pagare? Anzi, per meglio dire, a far pagare agli ucraini? Sorprende la noncuranza con cui si parla di futuri piani per la ricostruzione dell’Ucraina, perché danno per scontato che sia inevitabile lasciarla radere al suolo da un’offensiva russa che, dai primi di aprile, cioè da quando il comando è stato affidato al generale Dvornikov, il “macellaio” che per la nostra informazione sarebbe già stato epurato, si è dedicata a demolire con cura l’intera infrastruttura del Paese, annientando fabbriche, ferrovie, stazioni, depositi, con gli effetti che ora vediamo sul campo. E tutto questo avviene nella parte decisiva per l’economia ucraina, quel “Donbass allargato” ricco di risorse naturali (per dire, è uno dei più grandi bacini al mondo di terre rare) che la Russia, con questa o quella formula, vuole annettere. Impediamo alla Russia di vincere in Ucraina e poi con un bel Piano Marshall tiriamo su tutto, è il ragionamento. Il bello, anzi il brutto, è che è più o meno lo stesso ragionamento che fanno i russi: tiriamo già Mariupol’ o Severodonetsk e poi distribuiamo aiuti umanitari e ricostruiamo, che problema c’è?

Sarebbe quindi ora di smetterla con le frasi fatte e con il finto coraggio di chi non partecipa al dramma. Per evitare di vedere l’Ucraina distrutta e con ogni probabilità smembrata, se non riportata alla situazione del Seicento, con la parte a Ovest del Dnepr controllata dalla Polonia e quella a Est dalla Russia, bisogna cercare un compromesso. Ovvero, un accordo in cui sia la Russia sia l’Ucraina perdono qualcosa rispetto alle intenzioni e alle speranze. Chi invece, da un lato e dall’altro, vuole proseguire la guerra abbia almeno la dignità di ammettere che pur di sconfiggere Putin è pronto a sacrificare l’Ucraina e gli ucraini. Il resto sono solo parole.

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Varate nuove sanzioni contro di noi – Vincenzo Costa

Draghi è quel signore che distrugge un Paese e poi dice che è colpa di altri.

In ogni scelta antepone interessi estranei e stranieri a quelli degli italiani. Nessun paese europeo è così privo di senso dell’interesse nazionale.

Anche quando i governi devono capitolare di fronte alla prepotenza USA, poi fanno in modo di dilazionare.

Così, i tedeschi promettono, ma poi abbozzano. Gli ungheresi mettono le cose in chiaro. I serbi acquistano petrolio russo a prezzi di favore. La Turchia, Paese NATO, chiarisce che non intraprenderà azioni economicamente ostili verso la Russia, perché la danneggerebbero. Persino il Belgio ha chiaro che così non va.

A tutti è evidente che queste sanzioni sono sanzioni contro di noi, vessazioni verso i cittadini europei, sottrazione di potere d’acquisto, distruzione del nostro futuro, perché stiamo preparando una recessione coi fiocchi, certificata da Bankitalia. Che significa disoccupazione.

E per “il migliore” le sanzioni devono proseguire a lungo, forse per sempre. Cioè dobbiamo distruggere del tutto l’economia del Paese e i risparmi degli italiani.

Si copre dietro cose ridicole. Dice che la colpa è di Putin. Ma lucidissimo soggetto, le sanzioni le ha decise Putin?

Hai suggerito un blocco che doveva portare al default l’economia russa. Che doveva portare i russi alla fame.

E invece lo spread cresce qui, l’inflazione cresce qui. La disoccupazione cresce qui.

Ma questo è così gonade da non capire la posta in gioco o è solo un traditore del suo Paese?

Parla di dittatori. Ma Putin, piaccia o non piaccia, ha l’80 % di consenso.

Draghi governa non solo senza essere stato eletto, ma con una stragrande maggioranza di italiani che sono contrari alle sue politiche.

Governa senza consenso.

È costui osa parlare di difesa della democrazia? Ma si sciacqui la bocca prima di parlare. Se c’è un dittatore, non eletto, non voluto, che se ne frega del consenso, è lui.

Ormai la scelta è semplice: o il Paese si libera di lui o è destinato a soccombere.

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Richard Black: “Gli USA stanno spingendo il mondo verso la guerra nucleare”

 

 

In un’intervista allo Schiller Institute il col. Richard Black, veterano dell’esercito americano con importanti incarichi, ora in pensione, dopo più di trent’anni di carriera e avendone dunque viste di tutti i colori, tuttavia esprime il suo dissenso e a tratti anche un vero sgomento per la pericolosità della deriva presa dalla politica estera americana, che persegue i suoi particolari interessi senza alcun tipo di scrupolo o di limite nei confronti delle popolazioni civili dei paesi sui quali interviene, né dei rischi a cui espone la sua stessa popolazione  Dalle sue parole, molte importanti testimonianze sulla gestione della guerra in Siria e degli ultimi eventi in Ucraina. 

A seguire la trascrizione dell’intervista.

Mike Billington dell’‘Executive Intelligence Review intervista il colonnello Richard Black (in pensione).

 

BILLINGTON: Salve, sono Mike Billington dell’Executive Intelligence Review e dello Schiller Institute. Sono qui oggi con il Col. Richard Black, il senatore Richard Black, che, dopo aver prestato servizio per 31 anni nei Marines e nell’esercito, ha poi prestato servizio alla Camera dei delegati della Virginia dal 1998 al 2006 e al Senato della Virginia dal 2012 al 2020. Ma lascio allo stesso colonnello Black il compito di descrivere la sua carriera militare.

Allora, colonnello Black, benvenuto. La guerra surrogata degli Stati Uniti, del Regno Unito e della NATO contro la Russia che si sta svolgendo in Ucraina, e la guerra economica condotta contro la Russia in maniera diretta, sono state accompagnateo da una guerra dell’informazione che ha lo scopo di demonizzare la Russia e in particolare il presidente Vladimir Putin. Un tema ripetuto è che l’esercito russo sta conducendo spietate campagne di omicidi contro civili e distruzione di aree residenziali, spesso riferendosi alle operazioni militari russe in Siria sostenendo che hanno fatto la stessa cosa in Siria, soprattutto contro Aleppo. Questi dovrebbero essere degli esempi dei loro crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Lei è stato un portavoce di spicco a livello internazionale per molti anni, denunciando le menzogne su ciò che è accaduto in Siria e sulla guerra in Siria. Quindi in primo luogo le chiedo: come e perché la Russia è stata coinvolta militarmente in Siria? E in che modo questo contrasta con la presunta giustificazione degli Stati Uniti e della NATO per il loro intervento militare in Siria?

BLACK: Bene, vorrei iniziare, se posso, dicendo ai nostri ascoltatori che sono un vero patriota: mi sono offerto volontario per unirmi ai Marines e mi sono offerto volontario per andare in Vietnam. Ho combattuto nella più sanguinosa campagna dei Marines dell’intera guerra. Ero un pilota di elicotteri con alle spalle 269 missioni di combattimento. In quattro di queste missioni il mio aereo è stato colpito dalla contraerea. Poi ho combattuto sula terreno con la Prima Divisione Marine, e durante una delle 70 missioni di combattimento che ho fatto, i miei radiotelegrafisti sono stati entrambi uccisi e io sono stato ferito mentre stavamo attaccando e cercando di salvare un avamposto dei Marines che era stato circondato.

Quindi sono molto filo-americano. In realtà facevo parte della NATO ed ero pronto a morire in Germania in difesa da un attacco dell’Unione Sovietica.

Ma la Russia non è affatto l’Unione Sovietica. La gente non lo capisce perché i media non lo hanno reso chiaro. La Russia non è uno stato comunista; l’Unione Sovietica era uno stato comunista.

Ora, una delle cose che ho visto sostenere, che mi ha particolarmente irritato a causa della mia esperienza in Siria: sono stato nella città di Aleppo. La città di Aleppo è la città più grande della Siria, o almeno lo era prima dell’inizio della guerra. E c’è stata una tremenda battaglia. Alcuni la chiamano la “Stalingrado della guerra siriana”, che non è un paragone sbagliato. È stata una battaglia terribilmente aspra che è andata avanti dal 2012 al 2016. Nel corso del combattimento urbano, tutte le forze che stavano combattendo sono state costrette a distruggere gli edifici. Gli edifici sono stati abbattuti su vasta scala. E questo succede ogni volta che c’è un combattimento urbano. Ho camminato per le strade di Aleppo mentre il combattimento era ancora in corso. Guardavo attraverso una fessura tra i sacchi di sabbia il territorio controllato dal nemico. Sono stato su carri armati che sono esplosi e questo genere di cose…

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PANDEMIA, GUERRA E PNRR / PROVE DI UN MONDO DIVERSO?

 

 

Convegno “Missione Oggi” 2022.  Sabato 11 giugno, ore 9:00-17:00, Complesso San Cristo, Chiesa-Sala Romanino, via Piamarta 9, Brescia.
All’evento si potrà partecipare in presenza o seguendo la diretta streaming sul canale YouTube e sito web di Missione Oggi

 

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Armamenti, truppe e basi americane in Italia: una mappa difficile da ricostruire – Michele Manfrin

 

In occasione del recente viaggio del presidente del Consiglio, Mario Draghi, negli Stati Uniti, tra le varie personalità incontrate sull’altra sponda dell’Atlantico c’è stata Nancy Pelosi, speaker della Camera del Congresso degli Stati Uniti. In quel frangente, Pelosi ha detto a Draghi: «Grazie all’Italia per l’ospitalità che dà alle truppe americane». In effetti il nostro Paese di «ospitalità» alle truppe americane ne concede parecchia: al punto da avergli concesso il comando esclusivo di alcune basi, nelle quali nemmeno le autorità italiane sanno cosa succede, e la possibilità di tenere nel nostro territorio armamenti nucleari. Una storia cominciata nel 1951 e non semplice da ripercorrere, contando che non è facile sapere nemmeno il numero delle truppe statunitensi sul territorio italiano.

 

120 siti militari, più quelli segreti

Come dicevamo, la presenza militare permanente degli Stati Uniti in Italia inizia nel 1951 con la firma di un accordo bilaterale di collaborazione militare che prevedeva l’aiuto statunitense per ricostruire il sistema di comunicazione italiano in cambio di un grande pezzo di terreno, tra Pisa e Livorno, su cui far sorgere una propria base che prese poi il nome di Camp Darby. Da quell’anno in poi verranno sottoscritti numerosi accordi tra Italia e Stati Uniti che diedero il via alla militarizzazione del territorio italiano, in virtù anche della posizione geostrategica del nostro Paese. I siti militari su suolo italiano sono circa 120, più ve ne sarebbero una ventina di segreti. Vista anche la partecipazione dell’Italia all’Alleanza Atlantica, la NATO, dal 1949 come paese fondatore, molti sono i siti con presenza promiscua di soldati italiani con quelli degli altri Paesi membri dell’Alleanza, specie, appunto, gli statunitensi. Ci sono anche basi sotto legislazione e amministrazione italiana le cui attrezzature e le cui operazioni sono però sotto il controllo statunitense. Infine ci sono le basi statunitensi che, in alcuni casi, ospitano anche soldati italiani. I siti militari statunitensi in italiana sono più di 50 e sono sparsi in pressoché ogni regione. Le basi statunitensi godono di extra-terriotrialità e sono quindi, a tutti gli effetti, pezzettini di Stati Uniti in territorio italiano ove l’amministrazione e la giurisdizione non ricadono sotto la sovranità dell’Italia. Secondo Declassified UK, solo l’aviazione statunitense (USAF) conta circa 5.000 militari USA in Italia, quinto paese al mondo per presenza militare aerea statunitense. Nel 2017, Visual Capitalist, stima il totale della presenza di personale militare statunitense dislocato in Italia a 12.102 unità, collocandoci al quarto posto al mondo dopo Giappone (39.345), Germania (34.805) e Corea del Sud (23.468).

Armi nucleari nonostante il Trattato di non proliferazione

La base aerea di Aviano è una base italiana che, dopo accordi bilaterali e in seno alla NATO, è utilizzata e di fatto controllata dall’aeronautica statunitense, con una presenza minoritaria di militari italiani. Oltre ad aver fornito supporto in quasi tutte le missioni NATO, la base ospita circa 50 bombe nucleari, in base al principio e agli accordi di “condivisione nucleare”, nonostante l’Italia abbia firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare che impegna i propri membri a “non trasferire, ricevere o produrre armi e altri ordigni nucleari, né a offrire o chiedere assistenza per la loro produzione”. Per inciso, anche la base aerea italiana di Ghedi di Torre ospita ordigni nucleari, tra le 20 e le 40 testate.

La mappa delle basi

La già citata Camp Derby è una delle più grandi basi degli Stati Uniti in Europa con circa 30 unità tra aviazione ed esercito. L’839esimo Battaglione Trasporti e il Battaglione Attrezzature da Combattimento costituiscono la maggior parte dell’infrastruttura di base, supportando e controllando molte delle operazioni quotidiane dell’installazione. L’839esimo, sotto il controllo del Military Traffic Management Command, ha il compito di gestire tutti i porti marittimi di supporto degli Stati Uniti nel teatro Mediterraneo. Il Combat Equipment Battalion ha la missione di supporto nel mantenere, immagazzinare e riparare tutti i veicoli militari. Camp Darby è il più grande deposito di munizioni statunitensi al di fuori degli Stati Uniti, ospitando circa 125 bunker che immagazzinano svariati tipi di munizioni per i comandi dell’esercito e dell’aeronautica degli Stati Uniti in Europa. Inoltre, Camp Darby è il quartier generale dell’Army Material Command Europe. La base ospita circa 2.000 persone tra personale non militare e le loro famiglie, mentre sono circa 350 i militari presenti, tra soldati e aviatori.

Tra i siti militari più importanti vi è poi la Caserma Carlo Ederle di Vicenza, Camp Ederle, che dal 1955 è sotto il controllo statunitense ed è adesso sede dello United States Army Africa (USARAF). Nel 2013, a poca distanza, è stata costruita una seconda caserma, Camp Del Din. Le due strutture militari, dal 2015, formano insieme la Vicenza Military Community. Quest’ultima costituisce, insieme alla Darby Military Community di Pisa e Livorno, lo United States Army Garrison (USAG). A Vicenza, la presenza militare statunitense si attesta intorno ai 4.000 soldati.

In Campania, a Napoli, abbiamo la Naval Support Activity Naples (NSA Naples), una base della marina militare degli Stati Uniti situata presso l’aeroporto di Napoli-Capodichino. Essa costituisce il quartier generale della U.S. Naval Forces Europe e della Sesta Flotta degli Stati Uniti. La base si occupa del supporto alle unità navali statunitensi e del Comando Alleato Supremo in Europa. Tra personale militare e civile, sono presenti circa 10.000 persone. NSA Naples fornisce supporto logistico in 14 porti d’Italia, sia per le forze statunitensi che per le forze alleate. NSA Naples ha un Navy College i cui programmi sono offerti attraverso il Central Texas College, l’Embry-Riddle Aeronautical University, l’Università del Maryland University College Europe, l’Università dell’Oklahoma e l’Università di Phoenix. Sempre a Napoli è presente Naval Computer and Telecommunications Station Naples (NCTS Naples) che si occupa di fornire dati e supporto nelle telecomunicazioni statunitensi, come anche ai Paesi dell’Alleanza Atlantica, ed ha legami con NSA Naples e con il sistema di comunicazioni satellitari a Lago Patria. Svariate decine di comandi in tutta Europa fanno riferimento alle informazioni che arrivano da NCTS Naples. Sono presenti circa 350 militari USA, di cui una ventina di ufficiali

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Il sultano Erdogan arbitro dei suoi Donbass – Alberto Negri

 

Ognuno ha il suo Donbass. Per Erdogan e la Turchia – pilastro della Nato dal 1952 – si chiamano Rojava siriano e Kurdistan iracheno, dove il Sultano ha stabilmente insediato le truppe e occupato il territorio di altri Stati senza che nessuno osi alzare neppure il sopracciglio.
È lui a decidere, con la nostra complicità, chi siamo noi, che cosa è davvero la Nato e soprattutto anche il destino dei curdi, siriani e iracheni, da scambiare sul tavolo del negoziato per l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica. Paesi che la Turchia accusa di essere complici di “terroristi”.

Gli Usa, a quanto pare, hanno deciso intanto quale Donbass preferire. Agli ucraini non verranno dati missili per colpire la Russia, mentre Erdogan è in trattative con Washington per una nuova partita di caccia F-16 e forse gli sbloccheranno gli F-35, se rinuncia ad altre forniture di batterie antimissile S-400 di Mosca. E così Erdogan, contando sull’acquiescenza di Washington, ci dà dentro con la “sua” guerra. Dopo aver tentato di rovesciarlo nel luglio 2016, puntando sulla rete di Fethullah Gulen gli Stati Uniti, ora ci trattano. Da metà aprile l’esercito turco sta conducendo un massiccia operazione nel nord dell’Iraq per colpire le postazioni il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan) ma anche contro gli ezidi e le milizie curde siriane Ypg, bombardando Kobane (con gli elicotteri italiani dell’Agusta-Westland- Leonardo), simbolo dell’eroica resistenza al Califfato, da noi celebrata nel 2014 come l’ultima frontiera d’Europa contro la barbarie. Chi è stato allora a Kobane, che Erdogan adesso vuole includere nella sua «fascia di sicurezza», prova oggi un forte sentimento di vergogna.

Sul massacratore Erdogan puntiamo anche le speranze di pace, visto che il presidente turco – ormai proiettato nella campagna per la rielezione nel 2023 – ha rilanciato la sua proposta di mediazione, offrendo Istanbul come sede per un incontro tra Russia, Ucraina e Nazioni Unite, e la Turchia come garante in un eventuale meccanismo di osservazione della tregua.

Il nostro alleato Erdogan non ha certo migliori credenziali democratiche di Putin: anzi i due pur essendo avversari geopolitici, dalla Siria, alla Libia all’Azerbaijan, hanno molti tratti in comune. Nonostante l’incompatibilità geopolitica tra Ankara e Mosca (che comunque fa assai comodo a Nato e Usa), Putin ed Erdogan intrattengono rapporti pragmatici, sia in Siria che in Libia. Nel 2016 per il fallito golpe Erdogan chiude la base Usa di Incirlik per una settimana e riceve il pieno appoggio di Mosca. Con il progressivo (ma relativo) ritiro degli Usa dal Medio Oriente, Erdogan sperimenta con Russia e Cina il multipolarismo. «Siamo in un mondo post occidentale», proclama da tempo la diplomazia turca. E infatti – come del resto Israele con cui la Turchia ha ripreso i rapporti – Ankara non impone nessuna sanzione a Mosca per l’invasione dell’Ucraina.

La Turchia è al 149° posto su 180 Paesi per libertà dei media, secondo il report redatto a maggio da Reporter senza frontiere. Sul punto si registra un’iniziativa parlamentare in stile russo per punire con la reclusione fino a tre anni per aver divulgato notizie false, ma senza specificare chi dovrà accertare la veridicità di un articolo, di un post sui social o di un servizio giornalistico. Lo scorso dicembre Erdogan aveva indicato i social media «come una delle principali minacce alla democrazia». La nuova legge che prende il nome di “censura digitale” prevede pene detentive da uno a tre anni per chiunque diffonda pubblicamente informazioni false sulla sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.

Dopo la condanna all’ergastolo senza appello per l’imprenditore e filantropo Osman Kavala, è stata condannata a 5 anni di carcere per avere insultato il presidente Canan Kaftancioglu, la leader dei progressisti, in grado di rappresentare l’alternativa rosa al potere. Coordinava a Istanbul il Partito popolare repubblicano (CHP) e nel 2019 è stata regista della vittoria del sindaco Imamoglu, primo volto non erdoganiano negli ultimi 25 anni. Naturalmente nessuna reazione dal fronte occidentale.

E ora veniamo a noi, ovvero alla missione di Draghi in Turchia a luglio. Il nostro Donbass qui si chiamano Libia e gas del Mediterraneo. Come è noto la Turchia in Tripolitania ci tiene al guinzaglio nel Paese che fino al 2011 era tra i nostri maggiori fornitori di gas e petrolio. Accade dalla fine del 2019 quando fu Erdogan a contrastare militarmente l’offensiva del generale Khalifa Haftar contro il governo Sarraj, riconosciuto dall’Onu e per altro insediato con l’appoggio dei governi di Roma. La Turchia sale sulle motovedette italiane e “controlla” il traffico dei migranti, appaltato a personaggi assai controversi. E mentre la Libia è ancora divisa tra Tripolitania e Cirenaica, Erdogan fa valere l’accordo firmato con la Libia sulla Zona economica esclusiva (Zee). In base a questa intesa la Turchia – fuori dagli accordi internazionali – impedisce con le sue navi militari le attività di prospezione offshore nelle isole greche e a Cipro dell’Eni e di altre compagnie. Quello che non vuole Erdogan è il nuovo gasdotto Eastmed (rifornito con gas ellenico, israeliano ed egiziano) e che lo taglierebbe fuori. Draghi andrà quindi al bazar con il Sultano: immaginate voi chi ne farà la spese.

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Ola Bini, un caso anomalo della giustizia

 

INTERVISTA. Il giornalista Diego Cazar Baquero ripercorre la storia dell’informatico svedese che vive in Ecuador: è stato arrestato ed è sotto processo soprattutto perché amico di Julian Assange

 

Il caso Julian Assange è tornato alla ribalta lo scorso 20 aprile quando le autorità giudiziarie britanniche hanno concesso il via libera all’estradizione del giornalista australiano verso gli Stati Uniti. Il suo è fra i più controversi casi della giustizia contemporanea e coinvolge diverse persone «intrappolate» in una persecuzione giudiziaria e mediatica senza precedenti: chi ha lavorato con WikiLeaks e/o è amico di Assange è infatti sottoposto a pressioni di ogni genere. Tra questi, c’è l’informatico svedese Ola Bini che vive in Ecuador dal 2013 e si definisce un difensore del software libero e della privacy.
Bini e Assange sono amici da lungo tempo e si sono incontrati almeno dieci volte all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, durante l’esilio del giornalista, dal 2012 al 2019. La storia giudiziaria di entrambi è profondamente intrecciata. Nello stesso giorno, ossia l’11 aprile del 2019, in cui il governo di Lenín Moreno ha negato l’asilo politico ad Assange (che poi sarà arrestato in Inghilterra), Ola Bini finisce detenuto a Quito.
Le autorità ecuadoregne hanno perquisito la sede del Centro di autonomia digitale (Cad) diretto da Ola Bini, a Quito. Il Cad è un’organizzazione senza fine di lucro fondata nel 2017 nella città di São Paulo in Brasile con l’obiettivo di sviluppare strumenti per la protezione della privacy per utenti del mondo della cibernetica. Nel 2019 venne aperta una sede nella capitale dell’Ecuador e Bini ne perse le redini. Ad aiutarci a sbrogliare la matassa, è il giornalista ecuadoregno, Diego Cazar Baquero, al timone della rivista digitale La Barra Espaciadora, che da anni si interessa al caso.Cosa sta succedendo nuovamente all’informatico Bini?
Seguo la sua storia giudiziaria sin dall’inizio e sto scrivendo un libro. La sua storia può riassumersi in un processo di politicizzazione della giustizia dal momento dell’espulsione di Julian Assange dall’ambasciata dell’Ecuador, a Londra. L’allora governo di Lenín Moreno approfittò della situazione, attraverso la ministra degli interni María Paula Romo, per allontanare Assange e poi far arrestare il cittadino e programmatore svedese Ola Bini, associandolo al primo per la loro amicizia. Alle 10 dell’11 aprile del 2019, la ministra Romo durante una conferenza stampa dichiarò: «Da vari anni vive in Ecuador uno dei membri chiave dell’organizzazione WikiLeaks, una persona molto vicina a Julian Assange. Abbiamo prove sufficienti che abbia collaborato in tentativi di destabilizzazione contro il governo. Inoltre, abbiamo dati ed ubicazione che verranno consegnati alla magistratura di due hacker russi che vivono in Ecuador».
Durante l’incontro, la ministra non nominò mai Bini, tuttavia gli agenti della polizia erano tutti indirizzati verso il programmatore svedese che intanto si stava dirigendo all’aeroporto di Quito (doveva andare in Giappone per un allenamento di arti marziali). La sua detenzione – che scattò quel giorno stesso – non fu sostanziata da nessun ordine giudiziario. Di qui in avanti, cominciarono una serie di irregolarità. Uno degli elementi principali controversi è stata una chiamata anonima al «1800 delitto» (servizio pubblico della polizia dell’Ecuador) in cui si dichiarava che l’hacker russo Ola Bini – menzionato nella conferenza stampa dalla ministra Paula Romo – stava scappando dal paese. Tutto questo era parte di una grande menzogna e assai incongruente. La ministra non aveva mai nominato Ola Bini, tanto meno detto che fosse in fuga. In più, la registrazione di quella telefonata è scomparsa: le autorità della polizia hanno dichiarato che i registratori si erano danneggiati proprio in quel momento della giornata. A questo si aggiunse il cambiamento dei capi d’imputazione a Bini. Dopo essere stato accusato per aver attaccato un sistema informatico, nel giro di quattro mesi si riformulò tutto: accesso non consentito al sistema di comunicazione Cnt (Corporazione nazionale di telecomunicazioni).
Con questa accusa cominciò la prima udienza del processo nel mese di gennaio di quest’anno, cioè un anno e otto mesi dopo l’arresto. Da allora, si è registrata un’interruzione (la seconda udienza era prevista a metà maggio). Ola Bini, a tal proposito, ha confidato alla Cnn spagnola che «tutto è stato fin qui molto frustrante. È già trascorso troppo tempo. Questo ritardo dimostra che il governo ha avuto paura di andare avanti in quanto non ha nessuna prova reale e di nessun tipo contro di me».

Quali sono le prove dell’accusa?
In quella prima udienza si presentarono le prove della magistratura – che non provavano nulla, realmente. Si mostrarono alcune foto dell’aeroporto come se fosse il luogo del fatto. Inoltre, si è cominciato un processo giudiziario contro una persona senza che ci fossero prove concrete e ciò rappresenta una violazione del giusto processo. Per andare ancora più a fondo, la prova che ha dato origine al caso giudiziario – la chiamata telefonica – non esiste. Dopo tre anni, il processo continua senza la presenza di «fatti». Ora la decisione resterà al Tribunale che emetterà una sentenza. In definitiva, si vuole accusare Ola Bini di un delitto informatico con una prova documentale non informatica, bensì una fotografia. L’avvocato della sua difesa ha affermato anche che non c’è nessuna verifica da parte del governo e delle autorità dell’Ecuador che stabilisca una relazione criminale tra Ola Bini e Julian Assange.

Qual è stata la reazione rispetto al caso?
Oltre cento organizzazioni a livello internazionale hanno manifestato la loro contrarietà contro le irregolarità del processo, tra queste la Cidh (Commissione interamericana dei diritti umani) guidata dall’avvocato colombiano Pedro Vaca, l’Ufficio del relatore speciale per la Libertà d’espressione dell’Onu e dell’Oea (Organizzazione degli stati americani), l’organizzazione spagnola Electronic Frontier Fondation, l’Organizzazione statunitense Accessnow e Amnesty International, tra le altre. Lo stesso governo svedese, sebbene sia stato tiepido fino ad adesso, ha inviato una serie di comunicati sottoponendoli all’attenzione del ministro degli esteri dell’Ecuador: la richiesta è che si rispetti il giusto processo del caso.

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Il mito dell’Ucraina sovrana e la questione dei confini – Donatella Di Cesare 

Sebbene lo scenario politico internazionale sia più che mai cupo e confuso, si vanno delineando due tendenze diverse nel modo di affrontare questo nuovo conflitto europeo.

Da una parte c’è chi lo racconta come la guerra di Putin contro il mondo, ricorrendo a consolidate antitesi: la follia contro la ragione, la barbarie contro la civiltà, la tirannide contro la democrazia. Il novello Gengis Khan, lo Hitler di turno, minaccia il progresso, semina distruzione, provoca l’apocalisse. In questa visione gli ucraini “si sacrificano per noi” costituendo un avamposto del mondo, una barriera indispensabile, prima che dilaghi ovunque la violenza cieca. Si tratta di un modo di interpretare gli eventi che, oltre a essere astorico, depoliticizza il conflitto, ignorando i motivi che lo hanno scatenato. Ciò non significa che questa tendenza, sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti, non persegua un obiettivo ultrapolitico, che è l’estensione della guerra, presentata nella sua naturale ineluttabilità. Dall’ordine mondiale di qualche mese fa si passa allora a una confusione cosmica, a un caos illeggibile, dove ogni male, dalla recessione alla carestia, appare fatale, senza rimedio.

Dall’altra parte c’è una tendenza opposta che ha per scopo la delimitazione spaziale e temporale del conflitto. Per quanto destinato a rimanere sulla carta, il piano di pace italiano, bocciato dalla Russia, ha tuttavia un valore simbolico. E contiene un messaggio: ci sono quattro punti su cui le forze della diplomazia politica dovrebbero intervenire per spezzare una catena di effetti disastrosi. Peccato che l’Italia, inviando sempre più armi a una delle due parti, infici il piano vietandosi la possibilità di essere protagonista dei negoziati. Al di là di questa schizofrenia, resta il messaggio e l’individuazione dei punti.

Il terzo punto, forse il più problematico, ma certo il più concreto, riguarda la questione dei territori e dei confini, in particolare la Crimea e il Donbass. Proprio perciò è interessante sotto l’aspetto filosofico-politico. Non è un caso che le due espressioni lanciate come monito contro un eventuale accordo siano “sovranità” e “integrità territoriale”. Le ha riprese anche Draghi affermando: “sarà l’Ucraina e non altri a decidere quale pace accettare”. Si cela qui un modello di sovranità da tempo messo in discussione. Come è venuta meno la libertà astratta di un soggetto che si presume autonomo, perché si è liberi solo tramite gli altri e con gli altri, così è inconcepibile nello scenario attuale la sovranità di una nazione svincolata dalle altre. La coabitazione con i popoli mitiga e limita ogni sovranità – viene da qui l’idea stessa dell’Europa (a meno di non volerla cancellare). Perciò non può essere solo l’Ucraina a decidere quale pace accettare, dato che ne va del futuro di tutti i popoli europei, per non parlare dei più deboli e dei più esposti negli altri continenti.

La questione dell’“integrità territoriale” è ancora più controversa. La nazione è un singolare modo di raggruppare l’umanità in base alla nascita. Una nazione non coincide con lo Stato. Ci sono nazioni senza Stato, come i curdi, e Stati che contengono più nazioni come la Spagna. Suddividere il territorio europeo in Stati nazionali, soprattutto a est, è stato un compito arduo e controproducente. Pretendere l’omogeneità etnica e il radicamento al suolo significa aprire la porta a spinte ultranazionalistiche. Il separatismo – si pensi a quello altoatesino, o a quello catalano – è una risposta a ciò. Il confine, sempre artificioso, anziché essere la linea condivisa di comunità politiche e linguistiche aperte, diventa un fronte bellico. È quel che accade oggi in Ucraina, dove in centinaia e migliaia, definiti “eroi”, immolano la propria vita per una vecchia e indifendibile idea di “patria”.

Nel vastissimo territorio ucraino, dove ci sono molte minoranze, si profila verso est una popolazione russofona, diversa sotto l’aspetto storico, politico, culturale. Dopo il capitolo emblematico della Crimea, annessa dalla Russia dopo il referendum del 2014, è stato certo un errore di Kiev non concedere uno statuto autonomo al Donbass. In entrambi i casi l’indipendenza tempestiva avrebbe ratificato quelle differenze che non potevano essere cancellate e avrebbe forse evitato il conflitto. Adesso le autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, riconosciute dalla Federazione Russa, vengono in fondo fagocitate dall’invasione. L’Europa, che era nata per superare le nazioni e garantire la coabitazione tra popoli, assiste invece impotente a una sorta di guerra civile fratricida. Proprio da qui si può però ripartire, da un canto mettendo radicalmente in discussione sovranità e integrità territoriale, dall’altro mirando ai grandi obiettivi politici della pace e della convivenza.

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Oltre il pacifismo – Enrico Euli

 

La proposta antimilitarista, così come quella della decrescita, si scontra oggi contro due muri persistenti e rigidi nelle loro premesse, arroganti e presuntuosi nelle loro posture. Il primo è quello rappresentato dai nostri avversari, da tempo incorreggibili e impermeabili ad argomentazioni razionali o proteste politicamente codificate. Il secondo – più doloroso e inopinato – è quello interno: l’indisponibilità al cambiamento dei nostri stessi alleati (a parole) e compagni di strada (nei cortei).

Proverò qui a descrivere meglio, più in dettaglio seppur brevemente e molto schematicamente, questi assunti:

  1. Il pacifismo non può opporsi alla guerra, ma ne rappresenta da sempre solo la sua foglia di fico. Se vogliamo opporci alla guerra dobbiamouscire dal pacifismo – aprire un conflitto con esso – e assumere posizioni antimilitariste e nonviolente: opporsi alla preparazione e alla legittimazione-giustificazione della guerra (produzione-vendita delle armi, patriottismo, diritto alla difesa armata…) e organizzare forme alternative di intervento e gestione nei conflitti (sociali, nazionali e internazionali); chi non si impegna per questo ma dice di non volere la guerra – e organizza marce e manifestazioni per la pace quando scoppia – o è un ingenuo (pacifista) oppure è un politico (o un pacifista o un sindacalista) di professione.
  2. Il pacifismo è mortoda tempo, insieme alla sinistra tradizionale: quel che resta è soltanto un ripetersi rituale di petizioni (di principio), proteste ritualizzate, manifestazioni autoconsolatorie, convegni autoreferenziali. Vedo lo stesso limite nel movimento per la decrescita: un movimento che non è riuscito a farsi azione diretta nonviolenta per il cambiamento sociale e politico dell’occidente post-industriale. La proposta culturale, pur degna e ben argomentata, non basta (se non a chi nutre per essa un interesse meramente intellettuale).
  3. Il pacifismo fallisce anche nel suo proporsi come solidarismo umanitario (finto-vero volontariato, Ong), a supporto delle vittime della guerra. Tanto è ladro chi ruba che chi para il sacco, ricordava Don Milani. Gandhi capì presto che lavorare come portantino della Croce Rossa nella guerra anglo-boera significava collaborare alla guerra. La dimensione del servizio e della cura è ormai preda del soft power, attuale forma del dominio maternalista e paternalista post-democratico, come ampiamente dimostrato dalla vicenda pandemica, con la sua “guerra sanitaria”, perfetto preambolo alla guerra in corso. La nonviolenza invita alla lotta e alla resistenza come forma dell’amore: se vogliamo davvero amare l’umanità dobbiamo abbandonare i buonismi, gli assistenzialismi pelosi, gli umanitarismi di parte.
  4. Le nostre societàsono già dentro la loro catastrofe: essa non è più evitabile o rinviabile. Va assunta come prospettiva politica collettiva dentro cui dovremo necessariamente vivere nei prossimi decenni. Questa assunzione non è ancora avvenuta da parte nostra, mentre è già gestita e agita da coloro che l’hanno prodotta e cercano di trarne ora ulteriore vantaggio, proprio attraverso la deriva emergenziale permanente e la sua militarizzazione-digitalizzazione nella microfisica di vita quotidiana. I nostri avversari stanno già realizzando la loro “pedagogia delle catastrofi” e stanno già ottenendo rapidi ed enormi risultati, illudendo (loro stessi e gran parte di noi) che sarà possibile evitare il disastro se sapremo affidarci a loro e alle loro soluzioni (tecnologiche, finanziarie, militari) da shock economy. Da parte nostra, non siamo stati invece capaci di fare questo passaggio, pur essendo consapevoli da tempo che anche la decrescita, se non fosse stata scelta e gestita con spirito ecologico e lungimiranza, sarebbe stata comunque subìta e violentemente orientata ad un aumento della distruzione e della diseguaglianza, come di fatto sta ormai avvenendo, nella altrui (e soprattutto nostra) assoluta impotenza.

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L’ULTIMA GUERRA – Costituente della terra

C’è uno sgomento che coglie oggi i corifei e gli apologeti della guerra in corso, che sta nel vederla ristagnare, nel non vederne realizzate le attese, nel vedere quanto si stia allontanando dalla narrazione univoca che ne è stata imposta  fin dal principio.
Forse non solo i telecommentatori e gli esperti sono interdetti per questo avvitarsi della guerra, ma anche Biden e Stoltenberg che tanto l’hanno amata: l’Ucraina non vince, la Russia non perde, le sanzioni non funzionano, lo share si riduce, le proiezioni di “Limes” non si avverano, Il finale di partita, che sarebbe con la Cina, non sembra vicino.
Forse allora bisogna cambiare lettura. Da una tragedia storica non si esce se prima non la si comprende. È ancora il caso di interpretare il mondo, per cambiarlo.
Questa non è, come si vorrebbe,  una guerra di amici buoni e nemici cattivi. A maggior ragione di ciò che è stato detto per le guerre del secolo scorso, questa è una guerra civile europea. Tutte le guerre in verità sono guerre civili, se si parte dall’idea di un mondo unito e di una sola umanità, l’idea che  Carl Schmitt aveva in orrore, perché rompeva il suo bel quadretto del “politico” fondato sul concetto di nemico; ma questa è una guerra civile in modo speciale, perché l’Ucraina è madre della Russia, il cristianesimo è venuto da Kiev, e ucraini e russi si riconoscono come fratelli. E proprio perché è una guerra civile, essi si combattono più duramente e mostrano più odio; e gli ucraini più dei russi perché, sempre per stare alle cattive culture, un popolo non avrebbe esistenza politica se non prendesse coscienza del nemico e non avvertisse l’altro come diverso; e il nemico , parola di Hegel, è questa diversità, è “un estraneo da negare nella sua totalità esistenziale”. L’Ucraina, proprio perché è stata fino a ieri priva di una propria esistenza politica, sembra aver oggi più bisogno di rivendicarla, più della Russia che invece non l’ha mai perduta; perciò  ha più bisogno di vivere la guerra come  lotta per la differenza e la sovranità, di  enfatizzarla, diffonderla e contagiarla agli altri, fino al rischio della guerra mondiale, mentre alla Russia basta l’ipocrisia dell’ “operazione militare speciale”.
C’è però una seconda ragione per la quale questa è una guerra civile: perché è una guerra dell’Occidente, ma interna allo stesso Occidente; non è una guerra tra due mondi estranei e nemici, non ha nulla in comune con lo scontro di civiltà dei tempi della guerra fredda, quando l’Unione Sovietica faceva corpo con l’Impero del male. Non è più così; al prezzo della sua dissoluzione, l’URSS stessa, divenuta la Repubblica russa, era entrata ed era stata accettata nell’Impero del bene: globalizzazione, democrazia, libera impresa. Eltsin, con una lettera del 20 dicembre 1991 aveva perfino chiesto di entrare nella NATO, e Putin stesso, come ha rivelato a Stone nelle sue interviste per le televisioni americane, ne aveva discusso la possibilità con Clinton, , suscitando  “il nervosismo” della delegazione degli Stati Uniti, rimasta convinta che ci fosse “bisogno di un nemico” perché la stessa NATO potesse sussistere. Ed è proprio la NATO che, sotto le bandiere di Biden, si intromette ora  nella guerra civile europea per farne la guerra civile atlantica,  guerra tra fratelli d’armi, nella gara in corso per il dominio; e anche questa guerra è fratricida dato che. mettendo insieme Schmitt ed Hegel, quanto più i nemici sono fratelli e uguali, tanto più sono nemici.
Sicché il problema non è, come sostiene Putin, quello di denazificare l’Ucraina, ma di privare di fondamento tutti i nazismi, palesi ed occulti, sfatando la percezione dell’estraneo come nemico, riconoscendo la differenza come valore e non come minaccia, sottraendosi così alle cattive ermeneutiche di Schmitt e di Hegel, quel principe dei filosofi che a Jena vedeva Napoleone a cavallo come “lo Spirito del mondo” e nei popoli che avevano scoperto l’America sterminando gli Indios vedeva “i popoli dello Spirito”. Occorre piuttosto decainizzare l’Occidente, e dentro di esso l’Ucraina, la Russia e l’Europa. Il modello non sarebbe infatti più la gelosia fratricida di Caino, ma il riconoscimento della fraternità: forse è da ricordare le parole, allora incomprese, che furono pronunziate da Giovanni XXIII, il papa della “Pacem in terris”, nel discorso inaugurale del suo pontificato, quando si presentò al mondo dicendo: “Sono io Giuseppe vostro fratello”, evocando la storia del figlio di Giacobbe che così si era presentato ai suoi fratelli che l’avevano gettato nella cisterna e venduto per l’Egitto: il riconoscimento reciproco, invece della vendetta.
Sarebbe questa in tal modo l’ultima guerra civile, l’ultima riesumazione della guerra, all’inizio riconosciuta in Polemos come padre, e alla fine ripudiata come sposa. Si tratterebbe per l’Occidente di non salire più su una montagna di cadaveri, per guardare lontano senza vedere, ma di riconoscere di stare con l’Oriente su monti vicini,  per costruire insieme una Terra di tutti, un’umanità fraterna dotata di esistenza politica, governata dal diritto e garantita da Statuti di giustizia e di pace.
Nel sito “La Biblioteca di Alessandria” pubblichiamo un saggio di Mario Agostinelli sulla guerra e la Terra nella prospettiva della sua salvaguardia.

Il nucleare di guerra in Italia una presenza negata e illegale – Daniela Padoan

Un enorme arsenale nascosto nelle basi italiane mette a rischio la sicurezza di tutti

Per tre generazioni ci siamo attrezzati a considerare normale l’era contrassegnata dalla dottrina strategica militare nota come Mutual Assured Destruction( Mad, “pazzo”, nell’inconsapevole sapienza degli acronimi), cullandoci nella certezza di una Pax europaea garantita dalla costruzione della Ue, premiata nel 2012 con il Nobel per la pace per aver «contribuito a trasformare la maggior parte dell’Europa da un continente di guerra in un continente di pace». Dopo il disastroso incidente avvenuto nella centrale di Chernobyl nel 1986, abbiamo votato a larghissima maggioranza contro la presenza del nucleare civile in Italia, distogliendo lo sguardo dall’evidenza che fin dal 1957 il nostro Paese era utilizzato dagli Stati Uniti per lo schieramento di missili rivolti contro l’Urss e i Paesi dell’Est europeo riuniti nel Patto di Varsavia. Durante la guerra fredda, all’Italia era stato affidato il compito di rispondere a un eventuale attacco contro i Paesi Nato sganciando testate nucleari americane su Praga e Budapest, come affermato dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga in un’intervista del 2005. La potenza di anche una sola testata sarebbe stata sufficiente a radere al suolo le due città.

Il Muro di Berlino è caduto da più di tre decenni, eppure nella base statunitense di Aviano, in Friuli Venezia Giulia, oggi si trovano almeno venti ordigni nucleari trasportabili con caccia F-16; altre venti bombe atomiche destinate ai caccia Tornado del Sesto stormo dell’Aviazione italiana si trovano nell’aeroporto di Ghedi, vicino a Brescia. In attuazione degli accordi bilaterali con gli Usa e conformemente alla politica Nato, la “condivisione nucleare” prevede che i Paesi ospitanti custodiscano le bombe statunitensi e che, in caso di guerra, i cacciabombar- dieri possano sganciare gli ordigni atomici sugli obiettivi stabiliti. Per essere pronti a svolgere un simile compito, i piloti delle forze armate nazionali si esercitano regolarmente anche in tempo di pace, mentre lo Stato italiano, secondo l’osservatorio sulle spese militari italiane Milex, affronta un costo direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari che può raggiungere i cento milioni di euro annui.

Le basi di Ghedi e Aviano sono sottoposte alla disciplina del segreto di Stato e il governo italiano non ha mai ammesso, ma nemmeno smentito, la presenza di testate nucleari sul nostro territorio. Un labirinto di irrealtà tiene in ostaggio i cittadini del Nord Est, privati persino della gravitas connessa a una situazione la cui enormità è ben spiegata in un’analisi del ministero della Difesa, riservata ai membri del Nuclear Operations Working Groupe resa nota da Greenpeace nel 2020. Secondo gli autori del documento, in caso di attacco terroristico, gli or- digni nucleari custoditi nei caveau di Ghedi e Aviano potrebbero deflagrare; gli hangar farebbero da camera di scoppio e diffonderebbero una nube tossica su tutto il Nord Est, causando un numero di vittime che potrebbe oscillare tra due e dieci milioni.

Per strappare il velo su una realtà tanto più agghiacciante nell’attuale rincorrersi di minacce atomiche tra superpotenze, ventidue associazioni pacifiste hanno commissionato un Parere giuridico sulla presenza delle armi nucleari in Italia alla sezione italiana di Ialana, l’Associazione internazionale degli avvocati contro le armi nucleari, con status consultivo presso le Nazioni Unite. Lo studio che ne è risultato – una chiara denuncia dell’illegalità della presenza degli ordigni nucleari sul suolo italiano, in violazione del Trattato di pace del 1947 e del Trattato di Non Proliferazione del 1968, ratificato dal nostro Paese nel 1975, oltre che di varie norme nazionali e internazionali – non nasconde la paradossale difficoltà di ottenere una condanna in via giudiziaria e un conseguente ordine di rimozione delle armi atomiche statunitensi, ma assume una potenzialità che va oltre l’a- zione giuridica: farci guardare ai vestiti dell’imperatore, per dire che è nudo. I vestiti sono l’insipienza e le convenienze di un potere che sacrifica la sicurezza dei cittadini a un altro concetto di sicurezza; la nudità è la semplice, non nascondibile, presenza in Italia – a 85 chilometri da Milano nel caso di Ghedi, a 95 chilometri da Venezia nel caso di Aviano – di un enorme arsenale atomico, dove le bombe nucleari B61-3 e B61-4 inizieranno a essere sostituite nei prossimi mesi dalle più sofisticate B61-12, dotate di quattro opzioni di potenza, fino a un massimo di 50 chilotoni ciascuna, vale a dire una forza di distruzione superiore a tre bombe di Hiroshima.

I cittadini, se informati, si esprimono con nettezza: il 74% degli italiani, secondo un sondaggio condotto da You-Gov, e addirittura l’80%, secondo un sondaggio commissionato a Ipsos da Greenpeace, sono a favore della rimozione delle armi atomiche dislocate nel nostro Paese. Dal Parere giuridico redatto dagli avvocati Joachim Lau e Claudio Giangiacomo possono nascere iniziative legali a livello nazionale e internazionale, ma anche un’opera di informazione capace di rendere tutti noi non bersagli inermi e svagati – o, al contrario, troppo oppressi per reagire – ma cittadini consapevoli, decisi a tornare allo spirito della fondazione delle Nazioni Unite, quando, con il documento finale della Sessione speciale sul Disarmo dell’Assemblea generale del 1978 (risoluzione S-10/2), venne chiesto agli Stati di abbandonare l’utilizzo della forza nelle relazioni internazionali e rafforzare la sicurezza tramite il disarmo. Nonviolenza, disarmo ed educazione alla pace continuano a essere gli strumenti che i cittadini del mondo possono, con determinazione, opporre agli interessi che fanno della violenza e della morte un lucroso mercato globale. Il potere nucleare è l’antitesi della democrazia, è un potere esclusivo, politico e militare, chiuso, segreto, che, senza alcun controllo, esercita un arbitrio di vita o di morte sulle comunità umane e sull’ecosistema che le ospita. Nessun diritto all’autodifesa degli Stati ‘sovrani’ precede il diritto alla sopravvivenza dell’umanità.

«Nella convinzione che un mondo senza armi nucleari è possibile e necessario – disse papa Francesco in visita a Nagasaki nel 2019 – chiedo ai leader politici di non dimenticare che queste non ci difendono dalle minacce alla sicurezza nazionale e internazionale del nostro tempo. Occorre considerare l’impatto catastrofico del loro uso dal punto di vista umanitario e ambientale, rinunciando a rafforzare un clima di paura, diffidenza e ostilità, fomentato dalle dottrine nucleari. Lo stato attuale del nostro pianeta richiede, a sua volta, una seria riflessione su come tutte queste risorse potrebbero essere utilizzate, con riferimento alla complessa e difficile attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile». Le armi nucleari, tra tutte le invenzioni umane, sono quelle che più chiaramente mostrano come il delirio di onnipotenza proprio della cultura antropocentrica si sia costituito in politiche di morte, contro le quali è necessario agire una nuova cultura del diritto alla pace, per la sopravvivenza delle comunità umane, dell’ecosistema e di tutti i viventi.

IL VOLUME
La denuncia dei giuristi è disponibile in libreria

Dal 26 maggio è in libreria il volume Parere giuridico sulla presenza di armi nucleari in Italia (185 pp., Multimage) redatto dagli avvocati Joachim Lau e Claudio Giangiacomo, di Ialana Italia. Fondata nel 1988 a Stoccolma, Ialana (International Association of Lawyers Against Nuclear Arms) è un’associazione internazionale di legali che operano per l’eliminazione delle armi nucleari e il rafforzamento del diritto internazionale umanitario, con status consultivo presso le Nazioni Unite. Il volume, con un’introduzione di Elio Pagani e Ugo Giannangeli (associazione Abbasso la guerra) e una prefazione di Daniela Padoan (Associazione Laudato si’, ne pubblichiamo in questa un estratto) e Patrizia Sterpetti ( Women’s International League for Peace and Freedom – Wilpf) sarà presentato in anteprima il 4 giugno 2022 nell’ambito di EireneFest, il Festival del libro per la pace e la nonviolenza, che si terrà a Roma tra il 2 e il 5 giugno.

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Come ti scateno una guerra con 10 euro

Intervista di Benedetta Piola Caselli

articolo ripreso da https://www.pressenza.com/it

 

 

Un video con immagini apparentemente raccapriccianti di massacri è diventato virale su internet. Ma le immagini sono volutamente false. Sono andata a parlare con gli autori.

Non sono pacifisti.

“Non siamo pacifisti” è la prima cosa che mi dicono quando li intervisto.

Anzi argomentano: “Rifiutare a priori la guerra è, a nostro parere, un atteggiamento rigidamente dogmatico non giustificato dalla multiforme varietà delle situazioni reali. Se ti aggrediscono, hai il diritto dovere di usare la violenza e la guerra per difenderti. Questo vale anche per l’Ucraina.”

Ma allora? Perché lo avete fatto?

“E’ una questione di scelte democratiche. Su cosa valutano gli italiani la partecipazione a questo conflitto? Su argomenti razionali o solo sul pathos? Perché la guerra è molto costosa, faticosa e carica di dolore, morte e distruzione. Quindi deve valerne davvero la pena e deve essere valutata sulla base di informazioni e necessità reali che riguardano l’effettiva sopravvivenza del tuo Paese; in più, bisogna calcolare chi hai di fronte e quali sono le conseguenze possibili, per te e per tutti i belligeranti”.

Insomma, perché la guerra in Ucraina non è interesse italiano e gli italiani non sanno scegliere?

“Molto peggio di così. il sospetto è che qui qualcuno della classe dirigente non sia realmente al servizio del nostro Paese, e ci voglia piuttosto spingere nelle fauci del lupo. La confisca dell’informazione mainstream è davvero preoccupante, in questo senso.”

Ormai il video è diventato virale. Un minuto di scene raccapriccianti, di enorme realismo, con cadaveri legati ed abbandonati, ragazze stuprate, edifici distrutti, l’intero set dell’orrore che vediamo proposto dai media ormai da novanta giorni. Dopo, un minuto per spiegare che è tutto falso, che il set è stato realizzato ad arte da cinque ragazzi senza esperienza di cinema o di televisione.

C’è da dire che siete stati bravissimi…

“ Vero? E siamo solo un gruppo di cittadini disgustati dalla degenerazione dell’informazione. In questo conflitto è accaduto talmente spesso che ci propinassero balle, che ci siamo chiesti: ma quanto è facile manipolare le coscienze? Quanto è facile spingere l’italiano medio a commuoversi, per poi orientarlo politicamente verso decisioni totalmente irrazionali?”

E quanto è facile?

“Facilissimo. Per costruire il set e scattare le foto ci abbiamo messo due ore. La location è una villa lasciata in abbandono da decenni, e il sangue l’abbiamo fatto con del colore per intonaci e della Maizena. Per i trucchi, abbiamo utilizzato quelli delle ragazze: il costo totale è stato più o meno di dieci euro”.

Da qui il piano…

“All’inizio il piano era diverso: avevamo pensato di mandare le foto ai giornali, attraverso un falso account. Non avevamo dubbi che sarebbero state prese per vere e fatte girare come buone; e poi avremmo smentito pubblicamente per mostrare il funzionamento dei media. Però poi abbiamo pensato che forse la smentita non sarebbe stata fatta circolare, poteva rimanere circoscritta a pochi, e quindi avremmo sortito l’effetto non voluto di aiutare a diffondere menzogne. Allora abbiamo optato per questa versione “soft”, “pedagogica” che smentisce subito le sue premesse”.

Allertare sugli inganni della propaganda e stimolare il senso critico, quindi…

“Assolutamente! e soprattutto sul mondo delle immagini, specie quelle più apparentemente palesi e inequivocabili. Le immagini puntano alle emozioni, il testo alla ragione. Sul testo si ragiona, sulle immagini no. E’ molto pericoloso, come si è visto; e, soprattutto, volevamo dire forte e chiaro che è molto facile realizzare “bombe sporche di propaganda”, anche senza Spielberg. Se ci siamo riusciti noi, possono riuscirci tutti!”.

Che tipo di riscontri avete avuto?

“La gran parte degli spettatori ha creduto che i cadaveri fossero veri: una signora ci ha anche scritto che si stava per sentire male. Ma questo ci mostra quanto siamo tutti vulnerabili alle sollecitazioni emotive: con la fiction, le immagini decontestualizzate e la manipolazione dell’ ”empatia” ci possono portare dove vogliono.”

Quindi i riscontri sono stati totalmente positivi?

“No. La stragrande maggioranza delle persone ha colto perfettamente il senso dell’iniziativa, ma pochi in verità hanno opposto qualcosa come: “beh, ma lo sappiamo che esiste il cinema e si possono simulare le stragi”, il che significa che non avevano capito il senso dell’iniziativa. Primo, non è cinema; secondo, ci hai creduto, e quindi fatti qualche domanda…”

Volete dire che qualcuno non ha capito un video così semplice?

“Non solo! Molti hanno condiviso prima ancora di essere arrivati alla spiegazione, e incitando alla guerra contro la Russia. Se ci fate caso, le immagini non sono contestualizzate, e avrebbero potuto essere riferite a qualunque posto: potevano riguardare i curdi, o i siriani per esempio. Ma no: qualcuno, fra il popolo web, aveva già deciso che era una strage di ucraini da parte russa”.

Oltre all’uso strumentale di un video totalmente a-contestualizzato, direi che c’è anche un altro problema, stando a quello che raccontate, relativo al modo in cui si fruisce un contenuto, facendolo girare prima ancora di averlo visto e capito… Ma voi, credete che a Bucha o Mariupol siano state messe in scena?

“E’ molto difficile sapere cosa accade a molti chilometri di distanza, specialmente con un’informazione monolitica e del tutto acritica, quindi sospendiamo il giudizio; però va ricordato – questo si può fare – che i media hanno mentito continuamente e che certe storie che ci hanno propinato erano una vera offesa all’intelligenza” .

Effettivamente ci troviamo in un momento storico in cui il bombardamento della propaganda sta azzerando, per convenienza o per paura, ogni spirito critico…

“C’è di più. L’obiettivo non è il nemico – il nemico non verrà mai convinto – ma l’immensa zona grigia che ha il disperato bisogno di sentirsi dalla parte della ragione e a cui si fornisce un modo facile facile per sentirsi a posto con la coscienza. Come si dice, la propaganda è quella cosa che non riesce a ingannare i suoi nemici, ma riesce a confondere i loro amici…”

 

da qui

 

 

 

 

Capo dell’Interpol: Le armi inviate in Ucraina finiranno in mano ai criminali

Jurgen Stock, segretario generale dell’Organizzazione internazionale di polizia criminale (Interpol), ha espresso preoccupazione per un possibile aumento del traffico illegale di armi una volta terminato il conflitto in Ucraina. Le tonnellate di equipaggiamento militare inviate in questo Paese dall’inizio dell’operazione militare russa potrebbero finire sul mercato nero e nelle mani di criminali, ha avvertito Stock.

“L’ampia disponibilità di armi durante l’attuale conflitto porterà alla proliferazione di armi illecite nella fase post-conflitto. I criminali si stanno già concentrando, in questo momento, su questo”, ha affermato Stock parlando dalla sede dell’organizzazione a Lione parlando all’Associazione Stampa Anglo-Americana, e riportato dal quotidiano francese Le Figaro .

La probabile destinazione di queste armi sarebbe l’Europa, ha sottolineato Stock, sostenendo che il mercato nero nel continente offre prezzi significativamente alti, “soprattutto nei paesi scandinavi”. Tuttavia, assicura che le reti criminali interessate a questo tipo di merce “operano in tutto il mondo, quindi queste armi saranno commercializzate in tutti i continenti”.

“Anche le armi usate dall’esercito, le armi pesanti, saranno disponibili sul mercato criminale”, ha avvertito.

Dato questo possibile scenario, il Segretario Generale ha invitato i membri dell’Interpol a collaborare attivamente nel tracciamento delle armi consegnate all’Ucraina per evitare che cadano nelle mani sbagliate. “Stiamo già incoraggiando i paesi membri a utilizzare questi database [scambio di informazioni sulle armi] perché nessuna regione o paese può gestirli da soli”, ha avvertito.

da qui

 

Radici del nazifascismo in Ucraina. Una genesi che viene da lontano.    

FINO al 1945   ( II °parte)   –   (qui la prima parte) a cura di Enrico Vigna, maggio 2022

Olocausto nel giugno-luglio 1941. I pogrom a Leopoli/Lvov

 

Molti storici indicano che il pogrom contro la popolazione ebraica iniziò dopo l’ingresso delle truppe di occupazione tedesche a Leopoli, i rastrellamenti iniziarono la mattina del 30 giugno 1941, da parte delle forze della milizia OUN, che avevano i bracciali giallo e blu sul braccio sinistro, contemporaneamente all’ingresso della Wehrmacht a Leopoli. La propaganda antisemita tra la popolazione locale dell’Ucraina occidentale era stata condotta instancabilmente dall’OUN, la cui posizione nazista e xenofoba era propagandata apertamente dalla sua leadership e dai suoi membri. All’inizio di luglio del 1941, l’OUN emise un proclama con le parole: “Gente! Ascoltate! Mosca, la Polonia, i magiari, gli ebrei, i comunisti, i “Lyakhs” ( polacchi) sono i vostri nemici. Distruggeteli! Distruggeteli senza pietà”. Le trasmissioni radiofoniche dell’OUN invitavano la popolazione a uccidere gli ebrei. Il programma di “soluzione finale” in stile tedesco della ” questione ebraica” era popolare nell’Ucraina occidentale quanto lo era l’OUN. Il pogrom diretto dai banderisti….fu fermato il 2 luglio 1941 dalle forze della Wehrmacht!!

Uno dei comandanti dell’OUN era il futuro comandante in capo dell’UPA, Roman Shukhevych.

Al processo di Norimberga vi furono una serie di testimonianze dei comandanti delle unità della Wehrmacht che entrarono a Leopoli, dove furono trovati nelle prigioni molti cadaveri torturati e mutilati. Il 2 luglio 1941, il 49° Corpo da montagna tedesco prese provvedimenti contro il maltrattamento degli ebrei e dei vari prigionieri da parte dei nazionalisti ucraini locali. Il pogrom provocò la morte di circa 4.000 ebrei entro il 3 luglio, di cui mille furono uccisi durante l’assalto alla prigione di Brigidki e in altre prigioni di Leopoli, oltre a 3000 ucraini sovietici..

 

 

 

Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini. Dipartimento principale di propaganda

28 luglio 1941 Protoc.N. 82/p.   Leopoli 28 luglio 1941.   Servizio di sicurezza OUN a Leopoli

Ci viene comunicato dall’arcivescovo padre Tabinsky: la nostra milizia sta ora conducendo numerosi arresti di ebrei con le autorità tedesche. Prima della liquidazione, gli ebrei cercano salvezza con tutti i mezzi, principalmente con il denaro. Secondo padre Tabinsky, tra i nostri poliziotti ci sono quelli che, per oro o denaro, rilasciano ebrei che dovrebbero essere arrestati. Non abbiamo dati specifici, ma vi trasmettiamo per informazioni e ulteriore utilizzo. Gloria all’Ucraina!

 

Negli anni successivi fino all’arrivo dell’Armata Rossa nel ’44, i banderisti continuarono a partecipare agli stermini della popolazione ebraica e sovietica nelle regioni occidentali e orientali dell’Ucraina. Molti loro membri erano anche impiegati come guardie dei campi di concentramento per prigionieri di guerra e dei ghetti ebrei.

Come ha dichiarato l’ex deputato ucraino e direttore del Comitato ebraico ucraino, Eduard Dolinsky:Bandera, l’OUN e l’UPA hanno partecipato attivamente all’Olocausto. È stata una partecipazione consapevole derivante dalla loro ideologia e dalle loro opinioni politiche”. Questa è una citazione da un’intervista allo storico tedesco-polacco Grzegorz Rossolinsky-Libe,che vive a  Berlino, dove insegna al Friedrich Meinecke Institute della Libera Università di Berlino. È specializzato in storia dell’Olocausto e dell’Europa centro-orientale, fascismo, nazionalismo, storia dell’antisemitismostoria dell’Unione Sovietica e politica della memoria. Egli è autore dell’unica biografia scientifica di Stepan Bandera. Il libro è stato pubblicato in inglese, tedesco e polacco. In Ucraina, non solo non è mai stato tradotto, ma è stato sottoposto a censura e minacce all’autore, accusandolo di essere al sevizio di Mosca. Stepan Bandera: La vita e l’aldilà di un nazionalista ucraino. Fascismo, genocidio e culto

In una intervista fatta da Dolinsky allo storico, così espone alcune parti contenute del libro:

 – In Ucraina sei un nemico.

–  Ho semplicemente documentato la figura di Stepan Bandera e tutti gli eventi in cui è stato coinvolto direttamente o indirettamente: nazionalismo, fascismo, Olocausto, genocidio…Nel massacro di Volyn. Un genocidio. A livello scientifico, è stata sicuramente una forma di genocidio…L’OUN prevedeva di rimuovere le minoranze etniche dall’Ucraina anche prima della guerra. Nella seconda metà degli anni ’30 furono scritti testi e fatti piani per effettuare la pulizia etnica o come ripulire l’Ucraina durante una rivolta. Durante la guerra fu deciso di sterminare i polacchi a Volyn nel 1943 e nella Galizia orientale nel 1944, poiché in questi territori non c’era praticamente alcun fronte militare, l’amministrazione era debole. Gli ucraini sapevano che se avessero iniziato a uccidere i polacchi, nessuno li avrebbe fermati… Nella primavera del 1943, circa 5.000 poliziotti ausiliari galiziani abbandonarono il servizio e si unirono all’UPA. Queste erano individui che avevano avuto esperienze pratiche di esecuzioni, perché avevano precedentemente partecipato allo sterminio degli ebrei. Sapevano come uccidere migliaia di persone in poco tempo e come mobilitare i contadini locali in aiuto. È interessante che ora gli ucraini lo stiano cancellando, credendo che ciò non sia accaduto. Tuttavia, molti documenti sono sopravvissuti e ci sono storici che studiano e scrivono di questi eventi. In un certo senso, stanno combattendo la memoria politica come strumento.

Chi era Bandera?

— Nazionalista ucraino e fascista. Questi due concetti non si escludevano a vicenda. I membri dell’OUN volevano appartenere a un insieme di movimenti fascisti europei. Si definivano nazionalisti ucraini, ma si identificavano con movimenti come gli Ustascia croata, la Guardia di ferro rumena, i fascisti italiani, che li ispirarono profondamente, e i nazisti tedeschi, che li ammiravano principalmente per il loro antisemitismo sincero e razzista. Negli anni ’50, i documenti relativi all’OUN e all’UPA furono ripuliti dai contenuti fascisti come il saluto. 

–  Chi l’ha rimossi?

–  Rappresentanti della diaspora ucraina che prestarono servizio nell’OUN e lo praticarono da soli, e nel 1944 fuggirono con i tedeschi. Fino alla fine degli anni ’40 vissero nei campi per sfollati nella Germania Ovest, per poi recarsi in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna, mentre altri rimasero in Germania. Hanno riscritto la loro storia e riprodotto i documenti, ritagliando, tra l’altro, il saluto fascista. In ogni caso, la falsificazione della storia iniziò già nel 1943, quando in Volinia l’OUN  uccise i polacchi e gli ebrei fuggiti dal ghetto. Già in quel momento iniziarono a raccogliere e distruggere documenti che dimostravano che stavano aiutando i tedeschi. Bandera e altri membri dell’organizzazione già negli anni ’30 avevano affermato che il programma politico dell’OUN era la pulizia dell’Ucraina da polacchi, ebrei, comunisti e quegli ucraini che avevano posizioni diverse dai nazionalisti. Nel 1940 e nel 1941 Bandera preparò una rivoluzione nazionale, parte della quale si rivelò come una pulizia fisica di questo territorio. E anche la pulizia del territorio nell’estate del 1941 si concretizzò in pogrom efferati. Politicamente, tutta questa rimozione è proprio oggi molto importante per Kiev, all’interno della sua guerra contro la Russia.

– Su che scala avvenne lo sterminio degli ebrei in Ucraina da parte dell’OUN,

In Ucraina, gli stessi tedeschi non potevano distruggere tutti gli ebrei. Avevano bisogno di collaboratori locali, persone che sapessero in che tipo di case vivono gli ebrei in una determinata zona, dove possono nascondersi, come trovarli. Solo nell’Ucraina occidentale furono uccisi circa 800.000  ebrei.

Il 29 settembre 1941, iniziò il massacro di Baby Yar a Kiev, dove tra i 100.000 e 150.000 civili furono sterminati nella omonima fossa. Una tragedia che durò 104 settimane: dal 29 settembre fino alla liberazione della capitale dell’Ucraina dell’Armata Rossa nel novembre 1943. Furono massacrati ebrei, comunisti, zingari, prigionieri di guerra sovietici di diverse nazionalità e religioni.

 

Klara Vinokur Semyonovna una sopravvissuta miracolosamente scampata al massacro ha dichiarato: “…è importante non solo perpetuare la memoria di coloro che sono morti a Babi Yar, ma anche evidenziare le radici di quella tragedia. La cosa principale è impedire l’ipocrisia e la frode storica. I nazionalisti ucraini furono i più zelanti in quelle esecuzioni insieme ai nazisti: tra i 1.500 punitori a Babi Yar, 1.200 provenivano dall’OUN. Oggi in Ucraina i loro eredi ideologici glorificano Bandera e tutti gli altri nazionalisti e oltraggiano i Veterani della Grande Guerra Patriottica…”.

 

 

In Bielorussia nel marzo 1943 ci fu il massacro di Khatyn, dove il 118° battaglione punitivo, formato dai nazionalisti ucraini bruciò 149 civili in un fienile, metà dei quali erano bambini. Dalle testimonianze al processo del’ex poliziotto Vasily Meleshko la verità è emersa brutalmente: gli stessi punitori del 118° battaglione, diventati famosi per il massacro a Babi Yar, dove furono particolarmente atroci, dopo il sanguinoso lavoro di “alta qualità” a Kiev, divennero una garanzia di tetra scrupolosità per l’invio del 118esimo battaglione punitivo della polizia nazionalista ucraina a Kathin.

 

I battaglioni ucraini parteciparono al controllo di 50 ghetti ebraici e 150 grandi lager creati dai nazisti in Ucraina, si occuparono anche della deportazione degli ebrei dal ghetto di Varsavia nel luglio 1942. La polizia dell’OUN ha partecipato anche alle stragi della popolazione a Chudnov (500 persone, 16 ottobre 1941), a Radomyshl e Belaya Tserkov. A Dubno , il 5 ottobre 1942, la polizia ausiliaria ucraina sparò a 5.000 ebrei e sovietici.

 Massacro di polacchi compiuto dall’OUN (b) il 26 marzo 1943 nel villaggio di Lipniki, (Volyn), poi distrutto

Per avere un’idea del radicamento storico nella popolazione della Galizia dei nazionalisti fascisti, un dato è significativo: quando il fronte sovietico-tedesco si avvicinò alla regione occidentale, in documenti ritrovati, la commissione interna dell’OUN, prevedeva di mobilitare un numero enorme di ucraini per combattere per la creazione dello stato ucraino: 300mila dall’Ucraina sovietica e 500mila dalla Galizia, cioè quasi 1 milione di persone.

Dopo l’occupazione tedesca i militanti dell’OUN attaccavano le unità in ritirata dell’Armata Rossa, minacciavano la popolazione per non far aiutare l’Armata Rossa, attaccavano le carceri con prigionieri nazionalisti. L’OUN riuscì anche a sollevare una rivolta sul territorio di 26 distretti delle attuali regioni di Leopoli, Ivano-Frankivsk, Ternopil, Volyn e Rivne, stabilendo il proprio controllo su 11 centri regionali. In totale, durante la rivolta, l’Armata Rossa e le milizie sovietiche persero circa 2.100 uccisi e 900 feriti negli scontri di quelle giornate.

Nei giorni successivi all’entrata nazista in Ucraina, i rappresentanti dell’OUN-B formarono un organo esecutivo, il Consiglio di Stato ucraino (UGP), ottenendo anche il sostegno del clero greco-cattolico, compreso il metropolita Andrey della Galizia. Il 3 luglio Yaroslav Stetsko, numero due dell’OUN-B inviò lettere di saluto ai leader dei paesi dell’Asse: Adolf Hitler, Benito Mussolini, Miklos Horthy, Ion Antonescu, Carl Gustav Mannerheim,Francisco Franco, Ante Pavelic e Josef Tiso, sottolineando che il nuovo Stato era membro della “Nuova Europa“, di cui ora cercava il sostegno. In una lettera a Pavelić, affermava che “ ucraini e croati, popoli rivoluzionari, induriti nella battaglia, garantiranno la creazione di una situazione sana in Europa e di un nuovo ordine”. Nei giorni seguenti si svolgerà a Leopoli un pogrom le cui vittime saranno diverse migliaia di ebrei e sovietici.

Come riferito nell’estate del 1941 dal direttore regionale dell’OUN nelle terre ucraine nord-occidentali Ivan Klimov (“Leggenda”), solo in sette regioni occidentali della RSS ucraina, secondo dati incompleti, c’erano 3.300 cellule OUN con un numero totale di fino a 20mila membri.

 

“Alzati per combattere il bolscevismo nei ranghi della divisione galiziana”. Un poster che invitava ad entrare nella divisione SS “Galizia

Nella Divisione Volontari delle SS “Galizia” (che fu una delle più efferate e feroci divisioni naziste), in un mese e mezzo nel 1943 si iscrissero oltre 80mila volontari ucraini galiziani (circa 63mila del distretto di Leopoli/Lvov e circa 19mila del distretto di Cracovia).

All’inizio di marzo 1943, i giornali del distretto galiziano pubblicarono il “Manifesto alla gioventù pronta al combattimento della Galizia” del governatore tedesco del distretto galiziano, Otto Wechter, che sottolineotò il devoto servizio “a beneficio del Reich” degli ucraini galiziani e le loro ripetute richieste al Führer di partecipare alla lotta armata, il Führer, tenendo conto di tutti i meriti degli ucraini galiziani, permise la formazione della divisione fucilieri SS “Galizia”.

 

 “Rapporto dell’Ufficio stampa tedesco sulla formazione della Divisione SS “Galizia” (18.07.1943). Materiale primario segreto dell’Ufficio stampa tedesco (MFN)

N° 199 Servizio proprio 18 luglio 1943 Lettera – 54 –

Leopoli. 18 luglio (rappresentante MFN). – Circa 25 mila ucraini provenienti da Leopoli, dai suoi dintorni vicini e lontani erano presenti oggi alla partenza per il campo di addestramento di 200 ufficiali e 1700 membri del personale che costituivano la prima unità militare dei volontari della divisione fucilieri “Galizia”. In meno di tre mesi, almeno 84.000 ucraini hanno risposto volontariamente alla richiesta di creare una divisione fucilieri della Galizia, di cui 54.000 sono stati accettati, e 25.000 sono ora riconosciuti come capaci di servizio militare e saranno gradualmente inviati per l’addestramento.”

La formazione della Divisione avvenne con il sostegno attivo della Chiesa greco-cattolica ucraina , che inviò cappellani tra le sue fila.

 

Celebrazione della creazione della divisione SS “Galizia” a Leopoli

La portata del collaborazionismo ucraino, secondo i dati del comando tedesco e le stime degli storici russi, si può desumere dal numero di legionari ucraini che facevano parte delle formazioni armate alleate alla Germania nazista, nelle truppe delle SS polizia, era di 250 mila.

Altre migliaia di volontari ucraini erano nelle unità della Wehrmacht. Più di 700 collaborazionisti prestarono servizio come soldati nella 5a divisione SS Panzer “Viking“, 1000 erano nella divisione SS Panzer Frundberg“, altri erano soldati della 22a divisione di Keitel, della brigata Nora e in altri reparti.

 

Il 19 aprile 1945, la divisione fu formalmente ritirata dalle Waffen-SS e rinominata Divisione Ucraina, come parte dell’Esercito nazionale ucraino formalmente esistente, subordinato al Comitato nazionale ucraino, un organo politico creato con il sostegno delle autorità naziste.

Il 17-23 febbraio 1943 nella regione di Leopoli/Lviv, fu decisa la costituzione dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), per intensificare le attività e avviare la lotta armata dispiegata. Circa 6mila membri della polizia ausiliaria “ucraina” si unirono ai ranghi dell’UPA, i cui membri nel 1941-1942 furono attivamente coinvolti nello sterminio di ebrei e prigionieri di guerra sovietici. Gli ex poliziotti ausiliari che si unirono all’UPA per ordine della fazione banderista dell’OUN, rappresentavano circa metà dell’intera composizione dell’UPA. I nazionalisti di Bandera non davano battaglie frontali ma agivano principalmente con atti terroristici e imboscate, i partigiani sovietici che venivano catturati erano sottoposti a crudeli torture dall’OUN e poi uccisi; molti massacri furono commessi con particolare crudeltà, decapitazioni pubbliche, impiccagioni, rappresaglie feroci, ecc..

Le direttive dello Stato maggiore sovietico dal 1943, ai partigiani sovietici nelle regioni occidentali ucraine di Volyn e Rivne, secondo un dispaccio di Nikita Khrushchev dell’aprile 1943, indicavano che il compito prioritario dei partigiani era di combattere i tedeschi. Quando i nazionalisti ucraini attaccavano le unità partigiane sovietiche, allora i partigiani rispondevano. “Non lasciarsi coinvolgere nella battaglia con i nazionalisti, ma quando interferiranno con il vostro compito, dovranno essere presi a calci sui denti. Coloro che vengono catturati con le armi, se civili, vengano disarmati e rimandati a casa, mentre i comandanti siano fucilati“.

Un altro principale oppositore dell’UPA fu la “Armata Nazionale” (AK), un’organizzazione clandestina polacca che si poneva l’obiettivo di riportare la Polonia ai suoi confini prebellici, considerando l’Ucraina occidentale loro territorio. Unità dell’AK si scontrarono ripetutamente con l’UPA, spesso conducendo azioni militari contro i nazionalisti insieme a partigiani sovietici. Dalla primavera del 1943, l’UPA condusse una campagna in Volinja per lo sterminio di massa della popolazione polacca, uccidendo almeno 30-40mila polacchi, ma le perdite totali, secondo stime storiche, morti, feriti, deportati in Germania per lavoro e ricercati, raggiunse le 150.000 vittime nella sola regione.

In contrasto e concorrenza con l’UPA, vi erano altre due formazioni armate: la fazione dissidente dell’OUN-M, legata a Andrey Melnyk e l’altra i nazionalisti di Taras Borovets, che aveva il soprannome di Taras Bulba e bulbashi erano chiamati i suoi membri. Uno per uno, i distaccamenti di Melnik e Borovets furono attaccati e distrutti in gran parte dai distaccamenti dell’UPA, oltre che dai partigiani sovietici ucraini. Dal febbraio 1944, i reparti dell’UPA, insieme alle unità della 14a Divisione Granatieri delle Truppe SS “Galizia“, combatterono contro i partigiani sovietici e polacchi nel territorio del distretto della Galizia del Governo Generale.

Alla fine di settembre 1944, i reggimenti pronti al combattimento della Divisione furono inviati a sopprimere la rivolta slovacca, e a metà ottobre 1944, la divisione fu in Slovacchia in piena forza. All’inizio del 1945, la divisione fu trasferita nei Balcani, dove partecipò alle operazioni contro i partigiani jugoslavi.

Secondo la testimonianza di Vasily Dyachuk, un seguace di Bandera, il leader dell’OUN fuggì dal quartier generale della Gestapo a Berlino nel febbraio 1945 e si trasferì nella Germania meridionale utilizzando documenti falsi. Lì riuscì a nascondersi fino alla fine della guerra nella zona del Tirolo austriaco, successivamente si trasferì a Vienna, e poco prima della capitolazione della Germania nazista, si spostò nella Baviera occupata dagli americani.

Dopo la sconfitta del nazismo i soldati ucraini della Divisione furono separati da quelli tedeschi e degli altri paesi, collocati in un campo nelle vicinanze di Rimini (Italia). Grazie all’intervento del Vaticano , che considerava i soldati della Divisione come “buoni cattolici e devoti anticomunisti“, il loro status fu cambiato dagli inglesi da “prigionieri di guerra” a “personale nemico arreso” e non furono estradati in Unione Sovietica, a differenza della maggior parte dei collaborazionisti di altre nazionalità.

Invece la Polonia, dopo aver adottato una risoluzione parlamentare, ha ritenuto colpevoli di genocidio di polacchi, Stepan Bandera e Roman Shukhevych.

Da qui comincia la seconda parte della ricostruzione storica del fascismo ucraino e della rinascita del neonazismo ai tempi nostri.

Fonti:

DefendingHistory

Archivi storici Repubblica Polonia

Archivi Tribunale Norimberga

Istituto Storico Grande Guerra Patriottica Russia

Archivi storici Federazione Russa

Comitato Ebraico ucraino

Archivi  VUCHK-GPU-NKVD-KGB Mosca

Ukrainian Historical Journal”, Kiev: Istituto di storia dell’Accademia delle scienze dell’Ucraina

BBC Russian Service

Jewishen

LiveJournal

Nikolai Ivanovich Ulyanov, Yale-USA University

Enciclopedia Treccani

Enciclopedia Britannica

Libera Università Berlino

Friedrich Meinecke Institute

Rusvesna

 

 

Enrico Vigna ,  maggio 2022

 

 

 

 

Le 10 volte che i manager dell’impero ci hanno mostrato che vogliono controllare i nostri pensieri – Caitlin Johnstone

L’unico aspetto più trascurato e sottovalutato della nostra società è il fatto che persone immensamente potenti lavorano continuamente per manipolare i pensieri che elaboriamo sul mondo. Che tu la chiami propaganda, psyops, gestione della percezione o pubbliche relazioni, è una cosa reale che accade costantemente e succede a tutti noi.

E le sue conseguenze modellano il nostro intero mondo.

Questo dovrebbe essere al centro della nostra attenzione quando esaminiamo notizie, tendenze e idee, ma non viene quasi mai menzionato. Questo perché la manipolazione psicologica su vasta scala sta avendo successo. La propaganda funziona solo se non sai che sta succedendo.

Per essere chiari, non sto parlando di una sorta di stravagante teoria del complotto infondata qui. Sto parlando di un fatto di cospirazione.

Che subiamo la propaganda da persone che hanno autorità su di noi non è seriamente contestato da nessun attore in buona fede ben informato ed è stato ampiamente  descritto e documentato per molti anni.

Inoltre, i gestori dell’impero centralizzato statunitense che domina l’Occidente e gran parte del resto del mondo ci hanno mostrato chiaramente che ci propagandano e vogliono propagandarci di più.

Qui ci sono solo alcune di quelle volte…

continua qui

 

scrive Noam Chomsky (in inglese)

https://truthout.org/articles/chomsky-we-must-insist-that-nuclear-warfare-is-an-unthinkable-policy 

 

LE IMMAGINI SONO SCELTE DALLA REDAZIONE DELLA “BOTTEGA”: tre sono del “nostro” Benigno Moi, le altre riprese dalla rete

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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