Cumbre de las Américas, fallimento annunciato

di David Lifodi

L’ultima Cumbre de las Américas, tenutasi nella città colombiana di Cartagena dal 14 al 16 Aprile scorso, è stata un vero fallimento, el fracaso de los fracasos, secondo alcuni analisti politici latinoamericani. Altri hanno parlato di cumbre empresarial, alludendo alle pesanti ingerenze di multinazionali e lobbies affaristiche. Folta anche la schiera di coloro che hanno visto nella Cumbre il tentativo del presidente colombiano Juan Manuel Santos, padrone di casa, di presentarsi ai suoi omologhi del continente come persona attenta al tema della democrazia e dei diritti umani.

Il vertice dei presidenti americani è stato realmente un insuccesso. La Cumbre si è caratterizzata soltanto per discorsi retorici o dichiarazioni di facciata poco credibili: nessun tema spinoso è stato affrontato seriamente, alcuni sono addirittura spariti. Gli aspetti su cui è stato deciso di sorvolare non sono pochi, dall’esclusione ormai anacronistica di Cuba dal consesso alla sovranità argentina sulle Malvinas, passando per un confronto serio sulla lotta al narcotraffico. Il ruolo giocato dall’Osa (l’Organizzazione degli Stati Americani) e dal suo segretario Insulza è risultato essere impalpabile, ma lo stesso Obama, il principale guardiano dell’ordine imperiale giunto a Cartagena per riunirsi con quelli che considera i suoi sudditi, non ha fatto una gran figura. Il presidente degli Stati Uniti ha candidamente ammesso il motivo della sua presenza al vertice, sostenendo di voler “utilizzare la globalizzazione come strumento per rafforzare le industrie e le infrastrutture, fare buon uso delle risorse naturali, aumentare la partecipazione del settore privato in progetti di sviluppo sociale destinati all’America Latina, investire nell’istruzione”. Tradotto: Obama intende, una volta di più, scommettere sulle grandi opere, sullo sfruttamento delle risorse naturali, sul ruolo delle transazionali nel campo delle dighe e delle miniere. Il pensiero di Obama è stato appoggiato in pieno dalla presidenta brasiliana Dilma Rousseff, che da un lato ha accusato Stati Uniti ed Europa di voler esportare la crisi in America Latina, ma dall’altro aspira a svolgere il ruolo di potenza sub-imperiale nel continente e all’interno del Brics, l’asse dei paesi emergenti in via di sviluppo che comprende anche Russia, India, Cina e Sudafrica. In tre giorni di incontri al vertice (conclusosi senza uno straccio di documento finale) nemmeno un accenno alla crescita di povertà e disuguaglianza in America Latina, alla rapina delle risorse naturali, ad uno sfruttamento ambientale senza precedenti che causa il fenomeno degli sfollati ambientali, solo qualche accenno alla violenza dilagante, nessuna soluzione seria proposta per risolvere il problema del narcotraffico, che ha messo in ginocchio il Messico e tutto il Centro-America. Del resto, la Cumbre de las Américas è in crisi almeno dal 2005, quando nella città argentina di Mar del Plata i paesi riuniti sotto l’allora neonata Alba (l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América) dette un contributo fondamentale per affossare l’Alca, l’Area di Libero Commercio delle Americhe che gli Stati Uniti intendevano imporre ad ogni costo. Da allora per la Cumbre si sono susseguiti insuccessi in serie, soprattutto per l’emergere di alleanze e blocchi regionali alternativi a quello ufficiale: l’ultima nata, nel 2010, è la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (Celac). La stessa Alba (a cui tuttora aderiscono tra gli altri Cuba, Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador), però non è riuscita ad incidere più di tanto sul vertice colombiano, soprattutto perché i suoi rappresentanti non hanno seguìto una strategia comune presentandosi in ordine sparso. Alcuni hanno deciso di boicottare direttamente la Cumbre per esprimere solidarietà a Cuba e protestare contro la sua nuova esclusione imposta dagli Stati Uniti. Rafael Correa e Daniel Ortega hanno spiegato che Ecuador e Nicaragua non parteciperanno più al vertice finché Cuba non sarà riammessa al consesso, Hugo Chavéz ha preferito recarsi all’Avana per proseguire nella cura del suo tumore, mentre Evo Morales è stato l’unico presidente dell’Alba che ha deciso di rimanere a Cartagena per buona parte dei lavori, pur abbandonando in anticipo la Cumbre. Ha destato scalpore, e non poteva essere diversamente, anche l’addio di Cristina Fernández, che ha scelto di tornare in Argentina prima del tempo disgustata dal rifiuto del presidente Santos di appoggiare la sovranità territoriale di Buenos Aires sulle Malvinas. Così, mentre alla Cumbre de las Américas non si discuteva niente di significativo, la città di Cartagena era blindata per motivi di sicurezza e la Cumbre de los Pueblos (alternativa al controvertice) veniva ignorata dai principali mezzi di comunicazione, il presidente colombiano Santos cercava di attirare l’attenzione su di lui allo scopo di cancellare il passato da ministro della difesa nel governo Uribe, sotto il quale si era macchiato del crimine dei falsos positivos, i giovani delle campagne uccisi dall’esercito con l’accusa di appoggiare le Farc (le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e poi spacciati come guerriglieri uccisi in combattimento.

La settima Cumbre si svolgerà a Panama nel 2015, ma rischia di trasformarsi in un altro fallimento annunciato: se Cuba non sarà ammessa al vertice tutti i paesi dell’Alba hanno già preannunciato che diserteranno l’incontro, al pari di Brasile e Argentina.

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