Dal fuoco all’Icbm: progredire per…
… rimanere perfettamente immobili?
Recensione di Riccardo Dal Ferro a «Il più grande uomo scimmia del Pleistocene» di Roy Lewis (*)
Quando trovi un romanzo che l’introduzione (scritta da Terry Pratchett) definisce «uno dei libri più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni» non puoi che tuffartici senza chiedere spiegazioni.
E quando ti tuffi nel Pleistocene, visto con gli occhi dell’uomo-scimmia Ernest, il mondo che ti si apre davanti si burla di te, facendoti zompare giocosamente tra la familiarità di un ambiente che sembra non troppo estraneo e le centinaia di secoli che ci separano da quell’era remota e aliena.
Distante eppure vicino, sembra dirci Roy Lewis che, attraverso quest’opera decisamente inetichettabile, ci racconta le vicende di una famiglia di uomini-scimmia, le difficoltà nell’affrontare lo stato di natura, l’arretratezza degli strumenti e gli ostacoli ambientali. Ma la tecnica narrativa scelta dall’autore, cioè un anacronismo magico, ci proietta in un linguaggio e in un modo di pensare molto affini ai nostri, quasi venissimo presi in giro al fine di farci sentire non così evoluti come vorremmo credere.
In questa compagine di amici pelosi dalla fronte sporgente incontriamo il padre di Ernest, capo della tribù, vero protagonista della vicenda. Caparbio e iperattivo, è sempre alla ricerca del modo giusto per migliorare le condizioni di vita della sua famiglia, attraverso idee e innovazioni. La sua figura (che dà anche il titolo al romanzo, «Il più grande uomo scimmia del Pleistocene», maldestra traslazione del titolo originale «The Evolution Man») ci accompagna per tutto il racconto, mentre di volta in volta un evento casuale oppure un’intuizione geniale permette al suo cervello di comprendere i meccanismi della natura con il fine di manipolarne le potenzialità: il fuoco, le armi, l’arte, le manifatture, tutto procede in una “tecnologizzazione” della vita tribale.
In mezzo all’entusiasmo per le nuove scoperte, che pian piano permettono alla tribù di versare in condizioni di maggior agio, incontriamo zio Vania, forse la figura più emblematica del romanzo. Zio Vania è un conservatore, un “naturista” che guarda con manifesta diffidenza ai progressi tecnologici della tribù: «Tu, mi dispiace dirlo, stai cercando di migliorare te stesso» dice zio Vania rivolto al papà capo-tribù: «e questo è innaturale, disobbediente, presuntuoso, e potrei aggiungere volgare, piccolo-borghese e materialistico!».
Il linguaggio di questi uomini scimmia è moderno – parlano di industria, progresso, elettricità, scienza – e l’anacronismo linguistico ci mette sempre nella scomoda posizione di sentirci fin troppo vicini a questi ominidi normalmente considerati solo un’antica traccia di ciò che siamo diventati. Di certo, oltre a essere un elemento originale e divertente, questo è anche il contenuto più “politico” del romanzo: l’eterna questione fra legittimità etica e progresso, il rapporto fra l’origine e il futuro, il mito di Prometeo riscritto con un tono di amara comicità, il confine (quanto variabile?) tra la manipolazione della natura e la conoscenza del mondo. Di tutto questo si discute in «The Evolution Man», classe 1960 e dunque cinquantaquattro anni portati davvero alla grande.
Ritroveremo noi stessi in zio Vania oppure nel grande capo-tribù, nei talenti di Oswald e Alexander oppure nello sguardo filosofico di Ernest, il protagonista e narratore? Saremo sufficientemente intelligenti da sentirci uomini-scimmia o abbastanza ottusi da non riscontrare nessuna somiglianza con questi nostri eccentrici antenati? Sotto la coltre di sarcasmo narrativo, gli interrogativi di Roy Lewis sono molto forti: cosa è legittimo, cosa no? Dove stanno i confini e quali vanno valicati? Il mondo è davvero cambiato così tanto, dalla selce che sprizza scintille per fare il fuoco alle testate atomiche in attesa del lancio, oppure siamo sempre i soliti ominidi che ignorano i moniti dello zio Vania di turno, sottraendo il fuoco agli dei e dimenticandoci di dubitare delle nostre certezze, proiettandoci verso il disastro?
Un romanzo che non lascia indifferenti.
E se lo fa, significa che “il più grande uomo scimmia del Pleistocene” era davvero molto più evoluto del più intelligente fra i nostri contemporanei.
(*) Tempo fa Riccardo dal Ferro scoprì che non avevo letto «Il più grande uomo scimmia del Pleistocene». Il suo primo istinto fu certo di schiaffeggiarmi ma poi, mostrando che l’evoluzione e la nonviolenza a volte rimano, mi invitò a leggerlo (a proposito è pubblicato da Adelphi). Io controbattei che lo avrei fatto ma intanto volevo una recensione in blog. Ed eccola. Controllando in rete che Lewis Roy non fosse una invenzione di Riccardo Dal Ferro («signora mia, questi “contronauti” son capaci di tutto») ho scoperto che l’edizione francese fu tradotta dal mio amato Vercors e si intitolava «Pourquoi j’ai mangé mon père». Mica male eh? (db)
Se proprio si vuole brutalmente categorizzare gli esseri umani, esistono gli esseri umani curiosi e quelli non curiosi – anche se stento a immaginarli, ma forse lo sono diventati, per varie e forse tragiche ragioni. In entrambi i casi vale una regola, in fondo l’unica, quella del buon Kurt. Tanto vale provare a essere gentili – e non che sia facile.
Dal necrologio di Kurt Vonnegut, NYT 12 Aprile 2007.
To Mr. Vonnegut, the only possible redemption for the madness and apparent meaninglessness of existence was human kindness. The title character in his 1965 novel, “God Bless You, Mr. Rosewater, or Pearls Before Swine,” summed up his philosophy:
“Hello, babies. Welcome to Earth. It’s hot in the summer and cold in the winter. It’s round and wet and crowded. At the outside, babies, you’ve got about a hundred years here. There’s only one rule that I know of, babies
— ‘God damn it, you’ve got to be kind.’ ”
P. s.: una cartolina dal lago Toba http://thebulletin.org/lesson-lake-toba7741