«Dalla parte delle bambine», 43 anni dopo

recensione appassionata di Vittorio Lega a un libro del 1973 ma che, in molte pagine, sembra scritto ieri pomeriggio

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Nel 1983 un’insegnante visionaria fece acquistare ai suoi alunni di prima liceo uno dei più lucidi classici del femminismo: «Dalla parte delle bambine» di Elena Giannini Belotti. Cosa si aspettava? Discuterne? Aprire le menti? Non ricordo. Il gesto era coraggioso ma la mia immaturità granitica – e credo quella di tutti i compagni maschi – non ne venne scalfita minimamente.

Eppure oggi, complici alcuni incontri sulla violenza di genere, quel volumetto – intonso, poco appariscente e superstite a un paio di traslochi – è uscito dalla mia libreria per invadermi alcune giornate, ed è stato amore a prima vista.

Un’analisi stringente e ancora assai attuale di come il pregiudizio e la discriminazione di genere – funzionali a perpetuare un impianto sociale tradizionale e patriarcale – vengano suscitate da una pressione sociale che agisce già prima del concepimento dell’individuo e via via si alimenta di ignoranza scientifica, buonsenso di comodo e connivenza femminile accompagnando le tappe della crescita. Bambini e bambine nascono in due mondi già in origine diversi e incomunicabili, instradati – tarpando le comuni e trasversali inclinazioni naturali – verso modelli di genere stereotipati e uniformi. Non c’è posto per chi non si allinea alle aspettative.

Con un paradosso in evidenza: l’uomo è escluso dall’universo dell’infanzia, ove appare sporadicamente come “aiutante magico” portatore di risorse; eppure, nonostante la sua assenza, il sistema educativo ne conferma e ne rafforza la posizione dominante: l’autrice smaschera le dinamiche anche inconsapevoli che predispongono i piccoli, donne e uomini di domani, ad accettarla e darla per scontata, dall’una e dall’altra parte.

Una vera impostura, rigida e violenta, i cui attori e comparse escono male dall’impietosa rassegna della Belotti: mamme, padri, fratelli, nonni, maestre d’asilo, pedagogisti e operatori vari del settore.

Può far male dirlo ma è anche da questo crogiuolo che escono i femminicidi, senza minimamente con questo giustificare la loro criminale iniziativa individuale. Ma c’è anche una critica propositiva a questo modello; e vedo un filo diretto fra il femminismo della Belotti e le iniziative odierne delle donne, di cui la più vicina sarà «Non una di meno» il 26-27 a Roma, con la partecipazione anche di uomini (come la rete Maschile plurale) in appoggio e solidarietà.

Emerge chiaramente oggi un aspetto su cui la Belotti è profetica: il problema di genere non può essere affrontato escludendo gli uomini. Non solo questi dovrebbero avere un ruolo attivo come maestri di scuola d’infanzia, materna, elementare, arricchendo il riferimento educativo (ce ne sono oggi di bravissimi e il fatto che siano pochi dipende da fattori meramente contingenti e non va ascritto al fallimento del modello). Più in generale bisogna lavorare sugli uomini come potenziali perpetratori della violenza, domestica o esterna, velata o esplicita.

Ecco perché questo libro parla oggi in particolare ai maschi: a chi fra loro si sente responsabile anche del male commesso da altri, a chi si sente pronto a fare un passo indietro, lasciare spazio, cedere lo scettro. A chi, di fronte alla violenza, non vuole essere indifferente, consolarsi al riparo di una presunta “umanità” che separa i buoni dai cattivi, ma trova il coraggio di fare i conti con il lato oscuro di sé.

Perciò: dico grazie a quella professoressa che si chiamava Sassi.

 

Redazione
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