David Foster Wallace e Hannah Arendt parlano di Franz Kafka

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L’umorismo in Kafka – David Foster Wallace

Una delle maggiori difficoltà che incontro a leggere Kafka ai miei studenti è che sembra quasi impossibile convincerli che Kafka è divertente – ma neppure fargli apprezzare il modo in cui il divertimento è intimamente legato al potere straordinario che esercitano le sue storie. Perché, ovviamente, i grandi racconti e le migliori barzellette hanno parecchio in comune. Entrambe queste forme linguistiche sono in dipendenza da ciò che i teorici della comunicazione hanno occasionalmente battezzato “exformazione”: cioè una determinata quantità di informazione vitale rimossa-da-ma-evocata-da una comunicazione, in modo tale che si crei una sorta di esplosione di connessioni associative all’interno del recipiente linguistico. E’ questo probabilmente il motivo per cui sia i racconti sia le storielle divertenti spesso ottengono l’effetto di sembrare improvvise veloci e percussive come il pompaggio di una valvola meccanica.
Non per nulla Kafka stesso parlò della letteratura come “una scure con cui squarciamo gli oceani congelati nel nostro intimo”. E non è nemmeno un caso che, da un punto di vista tecnico, il successo delle massime narrazioni brevi sia spesso stato individuato in ciò che si definisce “compressione” – poiché la pressione e gli effetti di questa stanno già nell’interiorità del lettore. Quel che Kafka sembra più bravo di compiere rispetto a chiunque altro è orchestrare l’incremento di pressione in un modo che appare intollerabile nel preciso momento in cui si realizza.
La psicologia della barzelletta offre una mano a risolvere il problema della lettura di Kafka. Sappiamo tutti che non c’è un modo più veloce per svuotare una barzelletta della sua peculiare magia che quello di tentarne una spiegazione. Conosciamo tutti il gusto dell’antipatia che simili spiegazioni sollevano in noi, una sensazione più di offesa che di noia, come se una bestemmia fosse stata pronunciata nei confronti della storiella. Il che assomiglia moltissimo alla sensazione che un docente prova quando propone un’analisi tecnica in un corso di letteratura – il plot da tracciare, i simboli da decodificare, eccetera. Naturalmente Kafka sarebbe in una posizione unica per apprezzare l’ironia che esprime l’operazione di sottomettere i suoi racconti al regime di una macchina critica di simile efficienza – l’equivalente letterario di strappare i petali di un fiore e analizzarli con uno spettrometro per arrivare a una spiegazione del perché una rosa emani un profumo tanto gradevole. Franz Kafka, dopotutto, è lo scrittore il cui racconto Poseidone immagina un dio marino talmente oppresso dal lavoro burocratico che non riesce mai a navigare o nuotare, e il cui Nella colonia penale arriva a concepire la descrizione come punizione e la tortura come edificazione e la critica ultimativa come punta dell’erpice, il cui colpo di grazia attraversa la fronte.
Ciò che intendo dire non è tanto che Kafka è troppo sottile per gli studenti americani. Di fatto, l’unica strategia di compromesso con cui sono riuscito a esplorare il “divertente” in Kafka coi miei studenti è stato suggerire che gran parte del suo humour non fosse per nulla sottile, o meglio: anti-sottile. Il concetto è che lo humour di Kafka dipende da una sorta di letteralizzazione radicale di verità che noi tendiamo a interpretare come se si trattasse di metafore. Ai miei studenti ribatto che alcune delle più profonde intuizioni collettive sembrano esprimibili soltanto in quanto figure del discorso, ed è il motivo per cui definiamo “espressioni” queste figure del discorso. Con tutto il rispetto per La Metamorfosi, invito gli studenti a considerare che cosa venga realmente espresso nel momento in cui ci riferiamo a qualcuno con espressioni come “fa accapponare la pelle” oppure “è rozzissimo”, o dicendo che qualcuno, lavorando, viene costretto a mangiare “la sua stessa merda”. Oppure a rileggere Nella colonia penale alla luce di espressioni come “mi ha squarciato un nuovo buco del culo” o lo gnomico “A una certa età, ognuno si ritrova la faccia che si merita”. Oppure approcciare Un artista alla fame in termini di tropi come “affamato d’attenzione” o “affamato d’amore” o la doppia significazione nel termine “autonegazione”.
Ciò di cui sono intrisi, insomma, i racconti di Kafka è una complessità onnivora e grottesca e totalmente moderna. Lo humour kafkiano – non solamente nevrotico, ma anche antinevrotico e quasi eroicamente sano – è, alla fin fine, uno humour religioso, ma religioso alla maniera di Kierkegaard e di Rilke e dei Salmi, una spiritualità affilata e assaltante contro cui perfino la grazia insanguinata di Flannery O’Connor sembra spuntata, un gioco di anime che si sa benissimo come finirà.

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Franz Kafka: il costruttore di modelli – Hannah Arendt

Quando Franz Kafka, un ebreo praghese di lingua tedesca, morì di tisi all’età di quarantun anni nell’estate del 1924, la sua opera era conosciuta da una piccola cerchia di scrittori e da una ancora più ristretta di lettori. Da allora la sua fama è andata lentamente diffondendosi. Negli anni Venti era già uno degli autori più importanti dell’avanguardia letteraria tedesca ed austriaca, e negli anni Trenta e Quaranta le sue opere raggiungevano ormai gli stessi strati di lettori e letterati francesi, inglesi ed americani. La sua fortuna non ha subito flessioni durante gli ultimi decenni e la tiratura delle sue opere non è mai stata proporzionale al crescente interesse che esse hanno incontrato presso i critici letterari né al vasto e profondo influsso esercitato sugli scrittori del tempo. Una caratteristica quasi esclusiva dell’influsso della prosa di Kafka è che le “scuole” più diverse abbiano cercato di rivendicare per sé il suo modello; sembra quasi che chiunque si considerasse “moderno” non potesse assolutamente trascurarla per l’evidente e tipico carattere di “novità” come fino allora non era apparso in nessun autore con la stessa intensità e semplicità senza riguardi.
È un fatto molto sorprendente perché Kafka, a differenza di altri autori moderni, si è tenuto lontano da ogni manierismo ed ogni esperimento. La sua lingua è chiara e piana come la lingua quotidiana, purgata solo da ogni trascuratezza e colore gergale. Il tedesco di Kafka sta all’infinita varietà degli stili come l’acqua a quella di tutte le bevande possibili. La sua prosa non si distingue per nessuna particolarità, e non rivela mai nulla di seducente o di affascinante: è piuttosto un semplicissimo strumento di comunicazione e, se lo si analizza, la sua unica caratteristica è proprio che Kafka non avrebbe potuto esprimersi in un modo più semplice, più chiaro e più conciso. La mancanza di ogni manierismo sconfina quasi nell’assenza di stile, ed il suo non-innamorarsi delle parole in quanto tali arriva ai limiti della freddezza. Kafka non predilige parole particolari, né particolari costruzioni sintattiche: ne risulta così un nuovo genere di perfezione che pare distaccarsi totalmente da tutti gli stili del passato.
Nella storia della letteratura non c’è forse nessun esempio che dimostri l’assurdità della teoria del “genio incompreso” meglio di quello della fama raggiunta da Kafka. Nella sua opera non c’è riga o storia che abbia potuto soddisfare nella loro ricerca di “divertimento ed insegnamento” (Broch) i lettori formatisi nel secolo scorso. L’unica cosa dell’opera di Kafka che possa allettare ed ammaliare il lettore è la verità: la seduzione del suo perfetto non-stile (ogni stile si allontana dalla verità quanto più è magicamente seducente) ha raggiunto un grado tanto elevato da permettere che le sue storie riescano ad affascinare il lettore anche quando egli non arrivi ad afferrarne bene l’effettivo contenuto.
La vera arte di Kafka consiste nel fatto che il lettore rimane a lungo ammaliato da una vaga ed indefinita magia che è associata al limpido ricordo di certe situazioni ed immagini. Il lettore trasferisce poi questa magia nella sua vita in un modo tanto deciso che un giorno, facendo una certa esperienza, improvvisamente gli si rivelerà con la forza dell’evidenza il vero significato della storia da lui letta.
Der Prozess, il libro su cui sono state scritte nei due decenni trascorsi dalla pubblicazione tante interpretazioni da riempire una piccola biblioteca, è la storia di K., un uomo accusato senza sapere che cosa ha commesso, che non riesce a scoprire secondo quali leggi sia condotto il processo e pronunciata la condanna, e che alla fine viene giustiziato senza che sia mai venuto a sapere che cosa sia effettivamente successo. Cercando di capire perché si trovi in quella situazione, scopre ad un certo punto che, dietro l’ordine di arrestarlo, c’è una grande organizzazione. Un’organizzazione che alle sue dipendenze non ha solo guardiani corrotti, sorveglianti ottusi e giudici istruttori che quando va bene sono semplici e modesti, ma anche una magistratura di alto e sommo grado con tutto un codazzo di intrattabili servitori, scrivani, gendarmi ed altri aiutanti, e forse anche il boia […] E il senso di quest’organizzazione? […] Consiste nell’arrestare persone innocenti e nell’istruire contro di loro processi assurdi che nella maggior parte dei casi si concludono, come il mio, in un nulla di fatto.
Quando K. s’accorge che tali processi, a dispetto della loro assurdità, non sempre si concludono necessariamente senza un risultato concreto, si prende un avvocato che con lunghi e sottili discorsi gli spiega come ci si possa adattare a quella situazione e quanto sia irragionevole mettersi a criticarla. Però K., che non vuole rassegnarsi e congeda l’avvocato, incontra il cappellano del carcere che gli tiene una predica sulla grandezza recondita di quel sistema e gli consiglia di non chiedersi se tutto ciò sia vero dal momento che “non si deve ritenere tutto vero, ma soltanto necessario”. In altre parole, se l’avvocato si sforzava soltanto di dimostrare che così è il mondo, il prete, al servizio di tale mondo, ha il compito di provare che questo è il suo ordine. E poiché K. ritiene che questa sia una “ben misera concezione” e replica: “La menzogna viene fatta ordine universale”, è chiaro che perderà il processo; e poiché, d’altra parte, questo non era neppure il “suo giudizio definitivo” e aveva tentato anzi di respingere quegli “insoliti ragionamenti” quasi fossero “cose irreali” che in fondo non lo riguardavano, non solo perde il processo, ma lo perde in un modo tanto infamante che alla fine, quando sarà giustiziato, non avrà da opporre che la vergogna.
La forza della macchina che afferra ed uccide K. non è altro che l’apparenza della necessità, la quale può realizzarsi soltanto tramite l’ammirazione degli uomini per la necessità. La macchina si mette in moto perché la necessità è considerata qualcosa di sommo e perché il suo automatismo, interrotto solo dall’arbitrio, viene preso come simbolo della necessità. La macchina resta in moto grazie alle menzogne dette in ossequio a questa necessità, tanto che in piena conseguenza un uomo che non si assoggetta a questo “ordine universale”, cioè a questa macchina, viene considerato un criminale che agisce contro una specie di ordine divino. Per assoggettarsi bisogna smettere di chiedersi che cosa siano la colpa e l’innocenza e dichiararsi pronti a svolgere il ruolo assegnato dall’arbitrio nel gioco della necessità.
Nel caso del Prozess la sottomissione non viene raggiunto con mezzi violenti, ma semplicemente con il crescente senso di colpa che l’accusa vuota ed immotivata riesce a destare nell’imputato K. E un senso di colpa che ha le sue radici nella naturale convinzione che nessun uomo sia privo di colpe. Per K., un impiegato di banca sempre tanto occupato da non avere neppure il tempo di scervellarsi per tali banalità, questo senso di colpa è fatale: lo porta infatti a confondere il male organizzato, che diabolicamente lo circonda, con l’espressione di quella generica colpa umana che è innocua e in realtà innocente se la si confronta con la malafede che fonda “sulla menzogna l’ordine universale” facendo anche uso, ed abuso, della giustificata umiltà degli uomini.
Al funzionamento della diabolica macchina burocratica in cui l’innocente si trova preso si accompagna, quindi, una evoluzione interiore provocata dal senso di colpa. Dal suo progredire il protagonista viene “educato”, modificato e formato tanto da venir adattato al ruolo che si è escogitato per lui e che lo rende semplice compartecipe del gioco universale della necessità, dell’ingiustizia e della menzogna. Questo è il modo in cui il protagonista si adatta alla sua situazione, e questi due processi concomitanti, l’evoluzione interiore ed il funzionamento della macchina, s’incontrano infine nella scena conclusiva, quando K. si lascia portar via, e poi giustiziare, senza la minima protesta o resistenza. Viene ucciso perché è “necessario”, e si sottomette per questa necessità e per il turbamento dovuto al suo senso di colpa. E la sola speranza che balena alla fine del romanzo resta: “Era come se la vergogna dovesse sopravvivergli”. La vergogna, cioè, che tale sia l’ordine del mondo e che lui, Josef K., ne sia, anche se vittima, un docile membro.
Già subito dopo la pubblicazione si comprese che Der Prozess conteneva implicitamente una critica alla burocrazia governativa della vecchia Austria, le cui numerose nazionalità, in conflitto fra di loro, venivano rette da un’uniforme gerarchia di funzionari. Kafka, impiegato in una società di assicurazioni sociali ed amico di ebrei dell’Europa Orientale ai quali doveva procurare i permessi di soggiorno per l’Austria, conosceva esattamente la situazione politica del suo Paese. Sapeva bene che se uno s’impigliava nella rete dell’apparato burocratico non aveva più scampo. Il dominio della burocrazia aveva come conseguenza che l’interpretazione della legge degenerasse in uno strumento d’arbitrio, mentre un assurdo automatismo nei gradi inferiori dei funzionari suppliva alla cronica inettitudine degli interpreti della legge, un automatismo cui venivano praticamente demandate tutte le vere decisioni.
Negli anni Venti, però, quando il romanzo apparve per la prima volta, il vero volto della burocrazia non era ancora abbastanza conosciuto in Europa, anche perché essa era stata realmente fatale solo ad un numero trascurabile di persone, e si considerò quindi immotivato e sproporzionato al suo contenuto effettivo l’orrore per la burocrazia espresso nel romanzo. Ci si spaventò di più per il romanzo che per il tema stesso, e si cominciò così a cercare altre interpretazioni, apparentemente più profonde, che furono poi trovate, secondo la moda del tempo, in una cabalistica esposizione di realtà religiose o, se si vuole, di una teologia satanica.
L’opera stessa di Kafka rende naturalmente possibili simili errori, errori d’interpretazione che non sono meno determinanti di quelli ben più volgari commessi nelle interpretazioni psicoanalitiche della sua opera. Kafka descrive davvero una società che si ritiene vicaria di Dio in terra, e rappresenta uomini che considerano le leggi di questa società come dei comandamenti divini, immutabili di fronte alla volontà umana. E proprio tale divinizzazione del mondo e la presunzione di costituire una necessità divina rappresentano il male a cui gli eroi di Kafka non riescono a sottrarsi. Egli mira a distruggere questo mondo ricalcandone l’orribile struttura con dei tratti oltremodo chiari e contrapponendo così ai diritti umani la realtà. Ma il lettore degli anni Venti, affascinato dai paradossi e confuso dal gioco delle contraddizioni, non voleva sentir ragioni: le sue interpretazioni di Kafka rivelavano più il lettore che l’autore. Ammirando ingenuamente il mondo che Kafka aveva presentato come orribile ed intollerabile nelle sue descrizioni più che realistiche, scopriva quanto egli fosse adatto per “l’ordine universale” ed anche quanto stretto fosse il legame fra la cosiddetta élite e l’avanguardia di quell’ordine. Del tutto trascurata fu, invece, l’amara e sarcastica osservazione di Kafka su quella ipocrita necessità e sulle necessarie menzogne che concorrono a determinare il “carattere divino” dell’ordine mondiale, un’osservazione che è pure la vera chiave per decifrare chiaramente la struttura e l’azione del romanzo.
Il secondo grande romanzo di Kafka, Das Schloss, ci conduce nello stesso mondo delProzess, ma questa volta non sono più gli occhi di un uomo che si è sempre disinteressato del governo e degli altri problemi generali, e che è quindi in balìa dell’apparente necessità, a guardare questo mondo, bensì gli occhi di un altro K. che ora s’avvicina volontariamente ad esso come un estraneo col proposito di realizzare un progetto ben preciso: trapiantarsi in un paese, diventarne cittadino, costruirsi una casa, sposarsi, trovare un lavoro, divenire, insomma, un membro attivo della società umana.
La caratteristica dello Schloss è che il protagonista mira ai fini più naturali e generali che ci siano e che lotta per conquistarsi delle cose che sembrano essere garantite all’uomo fin dalla nascita. Mentre non richiede che il minimo necessario per la sua esistenza, già dall’inizio è chiaro che lo esige come diritto e che non è disposto ad accontentarsi di meno di questo suo diritto. E pronto ad inoltrare tutte le domande necessarie per avere un permesso di soggiorno, ma rifiuta che gli venga concesso come magnanima elargizione; è pronto a cambiare il suo lavoro, ma non può rinunciare ad un “lavoro regolare”. Tutto questo dipende però dalle decisioni del Castello, e per K. le difficoltà cominciano quando diviene chiaro che esso soddisfa i diritti dei cittadini solo concedendo grazie come doni o privilegi. Poiché K. esige solo i suoi diritti e non dei privilegi, vuole ottenere lo stesso diritto di cittadinanza degli altri abitanti del villaggio ed essere “il più lontano possibile dai signori del Castello”, respinge quindi entrambi, la magnanima elargizione e ogni rapporto privilegiato col Castello; spera così che “d’un colpo si aprano per lui tutte quelle vie che, se fosse dipeso soltanto da quei signori lassù e dalla loro grazia, sarebbero rimaste per sempre non solo chiuse, ma anche invisibili”.
A questo punto gli abitanti del villaggio prendono un posto di primo piano nell’azione del romanzo. Sono sconvolti dal fatto che K. aspiri semplicemente a diventare uno di loro, un semplice “operaio del villaggio”, e che rifiuti di entrare a far parte della classe che domina. Cercano a più riprese di spiegargli che non ha nessuna esperienza del mondo e della vita, che lui non sa ancora che la vita dipende essenzialmente dalla grazia o dalla disgrazia, da una benedizione o da una maledizione, e che non c’è nulla di più naturale e di meno casuale della fortuna o della sfortuna. K. non vuole rassegnarsi all’idea secondo cui, come dicono gli abitanti del villaggio, giustizia ed ingiustizia, ossia essere nel giusto o nel torto, sarebbero ancora una parte di quel destino che deve essere accettato e compiuto, ma non modificato.
Solo da questo momento assume il suo vero significato l’estraneità dell’agrimensore K. che è venuto da fuori: non essendo né un abitante del villaggio né un funzionario del Castello egli vive al di fuori dei rapporti di potere che vigono nel villaggio. Continuando a rivendicare i suoi diritti umani, K. dimostra di essere l’unico ancora in grado di concepire una semplice esistenza umana sulla terra. La specifica esperienza del mondo ha insegnato agli abitanti del villaggio a considerare l’amore, il lavoro e l’amicizia come dei doni che essi possono ricevere “dall’alto”, dalle stanze del Castello, ma di cui non possono più liberamente disporre. Così anche i rapporti più semplici sono avvolti in una misteriosa oscurità; l’ordine universale del Prozess compare qui sotto forma di benedizione o maledizione cui ci si sottomette con timoroso e reverente rispetto.
Il proposito di K. di veder riconosciute sul piano della giustizia le sue legittime aspirazioni ad una vita umana appare quindi una cosa naturale, ma in una simile società rappresenta un’eccezione inaudita, uno scandalo. K. si trova perciò costretto a lottare così strenuamente per un minimo di naturali esigenze umane quasi esse racchiudessero in sé il massimo irraggiungibile di ogni aspirazione umana; gli abitanti del villaggio si allontanano così da lui, presentendo nelle sue richieste una “hybris” che potrebbe compromettere tutta la loro vita. K. è estraneo a loro non perché come straniero è privato dei suoi diritti umani, ma perché è venuto nel villaggio e li esige.
Sebbene gli abitanti del villaggio temano che una sventura possa abbattersi da un momento all’altro su K., non gli succede proprio niente. K. non riesce a conquistarsi nulla e la sua storia si conclude – secondo la versione pensata, ma trasmessa solo oralmente, da Kafka – con una morte del tutto naturale dovuta all’esaurimento di ogni energia. K. raggiunge, senz’averlo voluto, un solo risultato: riesce ad aprire gli occhi ad alcuni degli abitanti del villaggio col solo atteggiamento di condanna per tutto quello che accade attorno a lui:

Hai una straordinaria visione delle cose […] A volte mi aiuti con una parola, certamente perché vieni da fuori. Invece noi, con le nostre terribili esperienze e continue ansie, ci spaventiamo senza difenderci ad ogni scricchiolio, e se uno ha paura subito ce l’ha anche l’altro pur senza sapere esattamente perché. In questo modo non si riesce più a dare una giusta valutazione delle cose. […] Che fortuna per noi che tu sia venuto!

  1. rifiuta questo ruolo; non è venuto a “portar fortuna”, né ha abbastanza tempo e forze per aiutare gli altri: chi pretendesse questo da lui “confonderebbe le sue strade”. Vuole solo mettere e tenere in ordine la propria vita e, poiché nel perseguire questo proposito non si sottomette, come il K. delProzess, all’apparente necessità, di lui resterà non la vergogna, ma il ricordo negli abitanti del villaggio. Il mondo di Kafka è senza dubbio un mondo terribile. Ed oggi sappiamo forse meglio di vent’anni fa che esso non è solo un incubo, ma che riflette in maniera molto precisa la struttura della realtà in cui siamo costretti a vivere. La grandezza della sua arte è che ancora oggi riesce a dare le stesse sconvolgenti impressioni di allora, e che l’orrore dellaStrafkolonie non ha perso nulla della sua immediatezza malgrado la realtà delle camere a gas.
    Se le opere di Kafka fossero davvero delle semplici profezie di incombenti sciagure, non varrebbero davvero più di tutte le altre apocalittiche profezie che ci hanno tormentato sin dall’inizio del secolo, o, meglio, fin dagli ultimi trenta-quaranta anni del secolo scorso. Charles Péguy, che ha avuto il discutibile onore di essere annoverato fra tali profeti, ha detto una volta: “I1 determinismo, nella misura in cui esso può essere addirittura immaginato, forse non è altro che la legge dei resti”. Si tratta di una verità molto precisa. Se è vero che la vita viene inevitabilmente e naturalmente a concludersi con la morte, si può sempre predirne la fine. La via naturale è sempre quella del declino e della fine, ed una società che si rimetta ciecamente al carattere di necessità delle leggi che si è data non potrà che finire. I profeti, da parte loro, non possono essere altro che profeti di disgrazie dal momento che delle catastrofi si possono sempre prevedere. Il miracolo è rappresentato dalla salvezza e non dalla fine perché solo la salvezza, e non la fine, dipende dalla libertà dell’uomo e dalla sua capacità di modificare il mondo ed il suo corso naturale. La folle idea, tanto diffusa ai tempi di Kafka come ancora ai giorni nostri, che il compito dell’uomo sia quello di sottomettersi ad un processo predeterminato da forze qualsiasi, non può che accelerare il declino naturale perché nella follia della sua libera scelta l’uomo non fa altro che venire in aiuto alla Natura e alla sua tendenza verso il declino. Le parole del cappellano della prigione nel Prozess svelano la vera natura dell’occulta teologia e della più intima fede dei funzionari, cioè una fede assoluta nella necessità; questi finiscono per essere degli esecutori di tali necessità, quasi ci fosse bisogno di funzionari per mettere in funzionamento il processo del declino e della rovina. In quanto funzionario della necessità l’uomo diventa un funzionario totalmente superfluo al servizio della legge naturale della caducità, e, dal momento che egli è più che natura, si abbassa al livello di efficace strumento di distruzione. Come una casa costruita dagli uomini secondo dei criteri umani sarà certamente condannata allo sfacelo non appena essa rimarrà disabitata e sarà abbandonata dall’uomo al suo destino, altrettanto certo è che il mondo, costruito dagli uomini e funzionante secondo leggi umane, tornerà ad essere una parte della natura e, in quanto tale, abbandonato al suo catastrofico declino non appena gli uomini decideranno di ridiventare una parte della natura, ovvero uno strumento cieco ma estremamente preciso delle leggi naturali.
    In tale contesto è relativamente irrilevante che l’uomo, ossessionato dalla necessità, creda nel progresso o nel declino del mondo. Se il progresso fosse davvero “necessario”, se costituisse una legge davvero inevitabile e sovrumana che abbracciasse tutte le epoche della nostra storia e nella cui rete l’umanità fosse fatalmente impigliata, la forza ed il cammino del progresso non potrebbero essere meglio descritti di come ha fatto Walter Benjamin in queste righe delle sue Geschichtsphilosophische Thesen:

“L’angelo della storia […] ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”1

La migliore dimostrazione che Kafka non appartiene alla schiera dei nuovi indovini è forse il fatto che leggendo le sue storie più terrificanti e più atroci, che nel frattempo hanno trovato riscontro nella realtà se addirittura non ne sono state superate, continua sempre ad assalirci un senso d’irrealtà. Sono i suoi eroi spesso senza nome e contrassegnati da una semplice iniziale. Ma ammettendo pure che la loro seducente anonimità sia dovuta soltanto al caso dell’incompletezza dei suoi racconti, questi personaggi non sono affatto degli uomini, delle persone che noi potremmo ungiorno incontrare nella vita reale. Sebbene siano minuziosamente descritti non possiedono affatto quelle singole e singolari caratteristiche, quei piccoli e spesso superflui tratti del carattere che insieme concorrono a dare la vera immagine di un vero essere umano. Questi personaggi si muovono in una società in cui ognuno ha un ruolo specifico ed in cui ciascuno è, per così dire, definito dalla propria professione; essi si distinguono da quella società ed assumono un ruolo centrale nell’azione in quanto, a differenza di tutti gli altri, non hanno un impiego o un lavoro determinato e il loro ruolo rimane quindi indefinibile. Ne consegue così che neppure gli altri personaggi delle opere di Kafka sono uomini reali. I suoi racconti non hanno niente a che fare con la realtà dei romanzi realisti.
Il mondo di Kafka, rinunciando completamente al carattere realistico che imita l’aspetto esteriore del mondo, tipico dei romanzi realisti, rinuncia così, ed in modo forse ancora più radicale, anche al carattere realistico che imita la realtà del mondo interiore, tipico del romanzo psicologico. Gli uomini fra cui si muovono gli eroi di Kafka non hanno alcuna caratteristica psicologica perché non esistono che in funzione dei loro ruoli, cioè dei loro impieghi e delle loro professioni, né hanno altre qualità che possano essere definite psicologicamente perché ogni volta sono completamente presi fino all’anima dai loro momentanei progetti: vincere un processo, ottenere un permesso di soggiorno o di lavoro, o altro ancora.
Questa astrattezza, priva di qualità specifiche, delle figure di Kafka può facilmente convincere a considerarle erroneamente esponenti di idee o rappresentanti di opinioni, e tutti i tentativi della critica contemporanea di scoprire una teologia nell’opera di Kafka sono effettivamente condizionati da questo equivoco. Se invece si considera il mondo dei suoi romanzi senza preconcetti e prevenzioni, si scopre che i suoi personaggi non hanno né il tempo né la possibilità di sviluppare una propria caratteristica individuale. Quando, ad esempio, in Amerika sorge l’interrogativo se il portiere-capo non abbia forse scambiato per una svista il protagonista con un’altra persona, il portiere esclude che ciò sia possibile perché non potrebbe rimanere portiere-capo se gli capitasse di scambiare una persona per un’altra: il suo lavoro è proprio quello di non confondere le persone. L’alternativa è chiara: o è un uomo come gli altri, e quindi la sua percezione e la sua capacità di riconoscere le persone non sono infallibili, oppure è un portiere-capo e come tale può attribuirsi un tipo di perfezione sovrumana, almeno in questa sua funzione. Non è che gli impiegati diventino infallibili perché sono costretti dalla società a lavorare con la precisione dell’infallibilità. I funzionari, gli impiegati, gli operai di Kafka sono ben lontani dall’essere infallibili, però essi tutti agiscono presumendo di avere un’abilità ed una competenza sovrannaturali.
La differenza fra i romanzi di Kafka e la consueta tecnica del romanzo consiste nella rinuncia a descrivere il conflitto fondamentale di un funzionario fra la sua esistenza privata e la sua attività, e di non raccontare più come l’ufficio abbia divorato la vita privata di chi con esso ha da fare, o come l’esistenza privata, la famiglia ad esempio, l’abbia costretto a diventare disumano identificandosi costantemente con la sua funzione proprio come fa un attore per la sola durata di una rappresentazione. Kafka, invece, ci mette subito di fronte al risultato di una tale evoluzione poiché per lui è solo il risultato ad avere importanza. L’esibizione di una competenza senza limiti e l’apparenza di un’abilità fuori del normale rappresentano il motore nascosto che aziona il meccanismo dell’annullamento di cui sono prigionieri i protagonisti di Kafka e che è responsabile del piano e sicuro andamento di quanto di per sé è assurdo.
Il tema principale dei romanzi di Kafka è il conflitto tra un mondo, presentato come un simile meccanismo che funziona senza alcun intoppo, ed un eroe che cerca di distruggerlo. Questi eroi, a loro volta, non sono degli uomini normali come quelli che incontriamo ogni giorno, ma delle variazioni d’uno stesso tipo umano la cui unica caratteristica è quella di concentrarsi fermamente su quanto vi è di più naturale ed umano. La funzione del protagonista è sempre la stessa: scopre che il mondo e la società normali sono in realtà anormali, che i giudizi unanimemente accettati delle persone più rispettabili sono sostanzialmente follie, e che le azioni condotte secondo le regole del gioco finiscono per rovinare tutti. Gli eroi di Kafka non sono spinti da convinzioni rivoluzionarie, ma esclusivamente dalla buona volontà che, quasi inconsapevolmente ed involontariamente, mette a nudo le strutture segrete di questo mondo.
L’effetto originale ed irreale dell’arte narrativa kafkiana trova la sua origine soprattutto nell’interesse per queste nascoste strutture e nel disinteresse per le facciate, per le apparenze e le semplici manifestazioni esteriori del mondo. Perciò è assolutamente sbagliato definire Kafka surrealista. Infatti, mentre il surrealista tenta di presentare come possibili tanti aspetti e punti di vista contraddittori della realtà, Kafka li inventa liberamente, non fidandosi mai della realtà perché a lui non è la realtà che importa, ma la verità. In contrasto con la tecnica del fotomontaggio tanto cara a tutti i surrealisti, la tecnica di Kafka potrebbe essere immediatamente paragonata a quella tipica della costruzione di modelli. Così come un uomo che voglia costruire una casa, o valutarne la stabilità, si fa subito disegnare uno schizzo di questa casa, allo stesso modo Kafka si procura uno schizzo del mondo esistente. Confrontandolo col progetto di una casa vera esso è naturalmente molto “irreale”; ma senza lo schizzo la casa non si sarebbe potuta costruire, né si sarebbero potuti conoscere i pilastri e le fondamenta che sono le sole cose a garantirne l’esistenza nel mondo reale. Partendo da questo schizzo, basato sulla realtà e la cui scoperta è, ovviamente, più frutto di un processo del pensiero che di una percezione sensoriale, Kafka costruisce i suoi modelli. Per comprenderli il lettore ha bisogno della stessa forza d’immaginazione impiegata nel momento della loro prima concezione e può raggiungere questa comprensione grazie alla forza d’immaginazione perché non si tratta di libera fantasia, ma di prodotti del pensiero che sono stati utilizzati da Kafka come elementi delle sue costruzioni. Per la prima volta nella storia della letteratura un artista richiede al lettore l’impiego della stessa attività mentale che l’ha sorretto nel produrre la sua opera. Non è altro che quella forza d’immaginazione che secondo Kant è “così potente nella creazione di un’altra natura con la materia della natura reale”. Allo stesso modo anche gli schizzi e i disegni possono essere compresi soltanto da coloro che sono capaci e disposti ad immaginare presenti e reali le intenzioni dell’architetto ed il futuro aspetto della costruzione.
Kafka pretende in ogni momento dai suoi lettori questo sforzo di reale immaginazione. Per questo il lettore passivo, educato e formato dal romanzo tradizionale, e la cui unica attività consiste nell’identificarsi in uno dei personaggi, resta deluso da Kafka. Lo stesso vale per il lettore curioso che, deluso della vita, si guarda intorno alla ricerca di un “Ersatz” del mondo in cui possano accadere cose che non avvengono nel suo mondo reale, oppure che cerca istruzione per una semplice sete di sapere. I racconti di Kafka lo deluderanno ancor più della sua propria vita perché non contengono nessun elemento di sogno ad occhi aperti e non offrono consigli, né istruzione o conforto. Solo quel lettore che per una ragione o un’incertezza qualsiasi vada alla ricerca della verità potrà capire qualcosa di Kafka e dei suoi modelli, e gli sarà grato quando, ogni tanto, riuscirà improvvisamente ad intravvedere la vera struttura di fenomeni estremamente banali leggendo una pagina, o una semplice frase, dei suoi racconti.
Caratteristico di questa astrazione, di quest’arte che lascia intatto solo quello che è essenziale, è il breve racconto che segue, il quale tratta di una circostanza particolarmente semplice e per niente inconsueta:

Confusione di ogni giorno2
Un fatto di tutti i giorni: il suo frutto una confusione di tutti i giorni. A. deve concludere un affare importante con B. che abita a H. Si reca per un primo colloquio a H., impiega per l’andata dieci minuti, altrettanti per il ritorno e a casa si vanta di questa straordinaria rapidità. Il giorno seguente torna a H. per la conclusione definitiva dell’affare. Siccome è da prevedere che ciò richieda alcune ore, A. parte la mattina molto per tempo. Ma nonostante che tutte le circostanze, almeno secondo lui, siano esattamente le stesse del giorno prima, per arrivare a H. impiega questa volta dieci ore. Giuntovi la sera, stanco, si sente dire che B., seccato dell’assenza di A., è partito mezz’ora prima per il villaggio di A.,anzi avrebbero dovuto incontrarsi per la strada. Gli consigliano di attendere, ma A., in pensiero per il suo affare, si mette subito in cammino e corre a casa.
Questa volta, senza nemmeno badarci, percorre la distanza addirittura in un istante. A casa viene a sapere che B. è arrivato già la mattina, subito dopo la partenza di A.; anzi, avendo incontrato A. sulla soglia, gli aveva rammentato l’affare, ma A. gli aveva risposto che non aveva tempo e doveva andar via in fretta e furia.
B. però, nonostante l’incomprensibile contegno di A., era rimasto ad aspettarlo. Più volte, gli dicono, aveva chiesto se A. era ritornato, e si trova ancora di sopra, nella camera di A.
Felice di poter ora parlare con B. e di potergli spiegare ogni cosa, A. sale le scale di corsa. E quasi arrivato, inciampa, si busca uno strappo muscolare, quasi svenuto dal dolore, incapace persino di gridare, solo mugolando nel buio, sente che B. (non capisce bene se molto lontano o vicinissimo) scende furibondo la scala con grande fracasso e scompare definitivamente.
In questo racconto la tecnica con cui Kafka costruisce il suo impianto narrativo è quasi fin troppo evidente. Ci sono, innanzitutto, tutti i fattori essenziali che generalmente concorrono a far fallire un appuntamento: lo zelo eccessivo (A. parte troppo presto ed ha tanta fretta da non riconoscere B. scendendo le scale), l’impazienza (il tragitto sembra tanto lungo che A. si preoccupa più di esso che dello scopo del suo viaggio, cioè l’incontro con B.), l’ansia ed il nervosismo che lo spingono in fretta e furia sulla via del ritorno quando avrebbe potuto tranquillamente attendere il rientro di B. a H. Tutti questi fattori provocano infine quella ben nota “perfidia dell’oggetto” che accompagna sempre ogni totale fallimento, ed indicano e suggellano il definitivo crollo di chi si arrabbia per come va il mondo. Partendo da questi fattori molto generici, e non dall’esperienza di un avvenimento specifico, Kafka costruisce la circostanza centrale del suo racconto. Dal momento che nulla di reale si frappone ad attenuare la costruzione kafkiana, i singoli elementi possono caricarsi della gigantesca forza comica insita in essi tanto che a prima vista pare di leggere una di quelle storie fantastiche alla Münchhausen che amano raccontarsi i marinai.
L’impressione che la storia sia esagerata scompare non appena decidiamo di leggerla non come resoconto di una circostanza reale o di un fatto qualsiasi dovuto a confusione, bensì come un modello della confusione stessa la cui logica grandiosa cercano disperatamente d’imitare le nostre limitate esperienze di fatti incomprensibili. Questo audace rovesciamento di modello e di imitazione, nel quale, a dispetto d’una tradizione millenaria, la finzione appare improvvisamente come modello e la realtà come imitazione da verificare, è una delle fonti essenziali dello “humor” kafkiano, e rende anche questa storia tanto divertente da riuscire a consolarci di tutti gli appuntamenti ai quali siamo o saremo mancati. Infatti il riso di Kafka è un’espressione diretta di quella spensierata libertà umana per cui l’uomo vale ben più del suo fallimento già per il fatto che egli può immaginare una confusione maggiore di ogni confusione reale.
Da quanto s’è detto dovrebbe esser chiaro che il narratore Kafka non è affatto un romanziere nel senso del romanzo classico dell’Ottocento. Alla base del romanzo classico c’era un sentimento della vita che accettava fondamentalmente il mondo e la società sottomettendosi alle vicende della vita così come esse venivano ed accogliendo il destino come una forza superiore al bene e al male. L’evoluzione del romanzo classico corrispose al lento declino del ” citoyen” che aveva cercato per la prima volta con la Rivoluzione Francese e con la filosofia di Kant di governare il mondo con le leggi inventate dall’uomo. Il periodo del suo massimo fulgore fu accompagnato dalla totale realizzazione dell’individuo borghese volto a considerare il mondo e la vita come teatri di avvenimenti e desideroso di vivere sensazioni ed esperienze più di quanto gli potesse offrire l’ambito generalmente angusto ed immobile della sua vita. Tutti questi romanzieri, sia che dipingessero realisticamente il mondo, sia che sognassero altri mondi fantastici, erano in eterna concorrenza con la realtà. Il romanzo classico ha ora appena concluso la sua parabola in America nella forma elaboratissima del romanzo-reportage, il che è accaduto per una naturale conseguenza se si considera che ormai la fantasia non può più entrare in concorrenza con la realtà degli avvenimenti e dei destini della società contemporanea.
A controbilanciare la tranquilla sicurezza del mondo borghese, in cui l’individuo esigeva dalla vita la sua parte legittima di esperienze e sensazioni pur senza riceverne mai abbastanza, c’erano i grandi uomini, i geni, le eccezioni che rappresentavano agli occhi degli individui borghesi quasi un’incarnazione maestosa ed impenetrabile di qualcosa di soprannaturale che ora si poteva chiamare “destino”, come nel caso di Napoleone, ora “storia”, come nel caso di Hegel, oppure “volontà di Dio”, a sentire Kierkegaard, secondo il quale Dio avrebbe voluto stabilire un esempio proprio con la sua persona, o ancora “una necessità”, come Nietzsche definì se stesso. La sensazione più alta per chi era smanioso di esperienze rimaneva quella del destino stesso, ed il tipo più elevato di individuo era perciò quello che aveva un destino, una missione, una vocazione da servire o di cui era il compimento. Grande non era più, quindi, un’opera o un’azione, ma l’uomo stesso proprio perché incarnazione di qualcosa di soprannaturale. La genialità non era più un dono divino elargito a degli individui che pure rimanevano sempre uomini; l’intera persona diventava un’unica incarnazione del genio e non poteva perciò rimanere più a lungo un comune mortale. Che questa concezione del genio, inteso come una specie di mostro sovrumano, fosse propria dell’Ottocento e non di un’epoca anteriore lo rivela chiaramente anche la definizione del genio data da Kant. Per lui il genio è il dono con cui “la natura impone le regole all’arte”; oggi si può non essere d’accordo con questa concezione naturalistica ed anche pensare che nel genio sia l’umanità stessa ad “imporre le regole all’arte”, ma al momento è importante vedere che in questa definizione del XVIII secolo non c’è ancora alcuna traccia di quella vuota grandezza che cominciò ad imperversare col Romanticismo subito dopo Kant.
Che Kafka appaia così moderno, ed al tempo stesso così lontano dai suoi contemporanei e così estraneo agli ambienti letterari di Vienna e Praga di quel periodo, si spiega col fatto che evidentemente non volle essere né un genio né la personificazione di qualche grandezza oggettiva, e che d’altra parte rifiutò appassionatamente di assoggettarsi ad un destino qualsiasi. Non era certo innamorato del mondo più di quanto lo siamo noi, ed anche della natura pensava che la sua superiorità sugli uomini non durasse che fino al momento del “vi lascio in pace”. A lui interessava un mondo costruito dagli uomini nel quale le azioni umane non dipendessero che dall’uomo stesso e dalla sua spontaneità ed in cui la società umana fosse retta da leggi sancite dagli uomini e non da forze misteriose, sia che venissero interpretate come soprannaturali o come basse. Un tale mondo non era più frutto di un sogno, ma doveva essere direttamente costruito dall’uomo, e Kafka in persona voleva essere un cittadino di questo mondo, un “membro della comunità”, e non più un’eccezione.
Naturalmente ciò non significa che lui fosse modesto, come invece è stato detto qualche volta: Kafka ha pur sempre annotato con sincero stupore nei suoi diari che ogni sua frase era già perfetta così come l’aveva trascritta di sfuggita – e ciò corrisponde al vero. Kafka non era modesto, ma umile.
Per poter diventare, almeno sulla carta, cittadino di un mondo simile, dal quale fossero bandite tutte le visioni sanguinarie e tutti gli incantesimi omicidi (come quello che in via sperimentale cercò di descrivere nello “happy end” di Amerika), egli doveva assolutamente anticipare la distruzione del mondo esistente. I suoi romanzi rappresentano appunto una distruzione anticipata del mondo: dalle sue rovine fa sorgere l’immagine sublime d’un individuo ideale che con la sua buona volontà può davvero spostare montagne, costruire nuovi mondi e pure passare indenne attraverso la distruzione e le macerie di tutte le precedenti costruzioni difettose e vacillanti perché a lui infatti, solo che egli sia di buona volontà, gli dèi hanno dato un cuore indistruttibile. E poiché gli eroi di Kafka non sono persone con cui venga naturale identificarsi, bensì soltanto dei modelli che sono abbandonati nell’anonimato a dispetto dei loro nomi, ci sembra quasi che ognuno di noi sia chiamato ed esortato con quei nomi. Infatti quest’uomo di buona volontà può essere chiunque ed ognuno, forse persino io e tu.
Note:
1 W. Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, pp. 76-77.
2 In F. Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1979, vol. II, pp. 149-150.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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