David Graeber e David Wengrow, Franco Foschi con…
…Andrea Novelli e Andrea Giudice, Maurizio de Giovanni, Elizabeth Kolbert, Saitō Kōhei –
Valerio Calzolaio recensisce
L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità – David Graeber e David Wengrow
Rizzoli Milano 2024 (orig. 2021, 1° ed. Rizzoli 2022)
Pag. 732 euro 16
Pianeta. Da circa trentamila anni. Le prove accumulate dall’archeologia, dall’antropologia e dalle discipline affini danno un resoconto inedito di come le società umane si sono sviluppate già prima della fine del Pleistocene e si contrappongono alla narrazione convenzionale. La preistoria dei sapiens inizia molto prima dell’inizio del Neolitico, non è descrivibile attraverso separate fasi “migliorative” dello sviluppo e risulta incomprensibile se la domanda riguarda l’essere di natura buoni o cattivi, prima buoni o prima cattivi. Sia la visione rousseauiana che la visione hobbesiana non corrispondono alla dinamica dei fatti, hanno gravi implicazioni politiche e rendono il passato inutilmente noioso. Il mondo dei foraggiatori (cacciatori raccoglitori) si è contraddistinto per audaci esperimenti sociali, produttivi e artistici; il mondo dei coltivatori non ha indotto progressi automatici e lineari; il senso delle umane possibilità e libertà va riscoperto in ogni tempo (restituendo ai nostri avi la loro piena umanità), senza rimanere prigionieri di catene concettuali (come la proprietà, la disuguaglianza, la schiavitù, l’urbanizzazione o la stessa democrazia). Un evento prettamente storico ha, forse, due caratteristiche: non avrebbe potuto essere previsto in anticipo, ma avviene una volta sola. Così, vi sono tradizioni intellettuali che sono abbastanza verificabili attraverso reperti (fisici e culturali) e altre che sono andate perdute, prevalentemente o per sempre; molte “scoperte” si sono basate su secoli di conoscenze accumulate e di sperimentazione e altre sono state custodite e tramandate attraverso rituali, giochi e forme di attività ludica; le più grandi costruzioni mitiche della storia sono inconciliabili con le prove manifeste davanti ai nostri occhi. Inoltre, le strutture e i significati che promuovono sono banali, ritriti e politicamente disastrosi. Potrebbe essere ora di prenderne atto. Approfondiamo, discutiamo, ripensiamo.
L’antropologo statunitense David Graeber (New York, 12 febbraio 1961 – Venezia, 2 settembre 2020), noto attivista e intellettuale pubblico di fama internazionale, e l’archeologo britannico David Wengrow (1972), entrambi ebrei (scrivono di non essere “molto felici di essere in qualche modo incolpati di tutto ciò che è andato storto nella storia”), hanno dedicato oltre un decennio a discutere e scrivere insieme questo corposo testo dialogico e notevole successo editoriale, all’inizio come diversivo dai reciproci impegni accademici più “seri”, poi come fatica quotidiana di verifica e confronto sulle decine di migliaia di “fonti”. Graeber è morto per un malore improvviso dopo nemmeno un mese dalla chiusura dell’opera (definitivamente uscita l’anno successivo), Wengrow ha scritto due brevissime pagine introduttive, anche come dedica alla cara memoria del collega e, per suo desiderio, a quella dei suoi genitori. Il libro è una miniera di informazioni e spunti su centinaia di comunità umane antichissime e recenti (perlopiù legate a scelte collettive autocoscienti e talora capaci di gestire bene disabilità ed eccentricità), strutturata in dodici capitoli, le lunghe dettagliate note (spesso integrative) raccolte nelle quasi cento successive pagine: Addio all’infanzia dell’umanità (o perché questo non è un libro sulle origini della disuguaglianza), ovvero l’alba di noi sapiens precede coltivazioni e allevamenti estensivi; Libertà perversa (la critica indigena e il mito del progresso); Scongelare l’era glaciale (dentro e fuori dalla schiavitù e possibilità proteiformi della politica umana), ovvero avevamo già prodotto e scelto spesso bene con il clima più freddo; Uomini liberi, l’origine delle culture e l’avvento della proprietà privata (non necessariamente in quest’ordine); Molte stagioni fa (perché i foraggiatori canadesi avevano gli schiavi e i loro vicini californiani no, o il problema delle “modalità di produzione”); I giardini di Adone (la rivoluzione che non ebbe mai luogo: come i popoli del Neolitico evitarono l’agricoltura); L’ecologia della libertà (come l’agricoltura fece per la prima volta il giro del mondo saltellando, incespicando e bluffando); Città immaginarie (i primi cittadini dell’Eurasia – in Mesopotamia, nella valle dell’Indo, in Ucraina e in Cina – e come costruirono città senza re); Nascosta in bella vista (le origini indigene dell’edilizia sociale e della democrazia nelle Americhe); Perché lo Stato non ha origini (gli umili esordi della sovranità, della burocrazia e della politica); Chiudiamo il cerchio (sulle fondamenta storiche della critica indigena); L’alba di ogni cosa. Innumerevoli gli scritti che avrei dovuto ragionare meglio nei miei decenni di articoli, saggi e volumi (ma su qualcosa ci ho preso); numerosi anche gli studiosi emeriti di cui si demoliscono motivatamente concetti e riflessioni; ricca bibliografia e vari indici. Sulle scienze evoluzionistiche e sui generici “evoluzionisti” sono talvolta imprecisi anche i due autori. Assimilare, comunque, con attenzione, prima di esprimersi.
Matchpoint. I campioni del tennis come fonte di ispirazione quotidiana – Andrea Novelli e Andrea Giudice
Lit Edizioni Roma 2024
Pag. 382 euro 19,50
Campi in erba, di terra rossa o di cemento. Da oltre un secolo e mezzo. Lo sport è una metafora della vita e il tennis è uno degli sport individuali (prevalentemente) più seguiti amati praticati da persone di ogni età, non proprio aerobico ma quasi, una disciplina ad abilità aperta e molto impegnativa anche sul piano mentale. Il tennis ha radici antiche, che risalgono a varie culture ed epoche, come altre attività ludiche o ginniche con una palla da colpire in vario modo attraverso il proprio corpo, in tutto o in parte, o sue “appendici”. La forma moderna del gioco ebbe origine nel tardo XIX secolo in Inghilterra, quando divenne popolare tra la nobiltà, giocato inizialmente solo all’aperto su campi erbosi. Nel 1873 vennero stabilite le prime regole competitive ufficiali, nei decenni successivi si diffuse abbastanza rapidamente in quasi tutto il mondo, sottoponendo i “giocatori” a costanti allenamento e dedizione per acquisire tecniche e tattiche, sfidando continuamente avversari e trovando contesti al proprio livello qualitativo, con classifiche sempre più globali. E tutto un mondo di lavori e capitali che vi gira intorno, in costante crescita. Capita a chiunque gioca ogni mese e ogni anno di perdere, si contano più sconfitte che vittorie nella vita e nelle stagioni della maggioranza dei professionisti. Così, lasciando inevitabilmente spazio a caratteri fisici, talento, spontaneità e creatività individuali, nel corso del tempo i “campioni” del tennis sono spesso stati e restano validi testimoni di aspirazioni e ispirazione, delle motivazioni che spingono a superare con successo mutevoli difficoltà e avversità. Qui se ne raccontano trentuno, valutando anche i loro momenti di grande difficoltà e le crisi che li hanno portati al limite, ma sono diventati gli snodi cruciali della carriera, l’ultimo nome è il numero uno di fine 2024 e inizio 2025, un italiano, Jannik Sinner.
L’ingegnere giallista tennista Andrea Novelli (Genova, 1970) e lo psicologo allenatore ex tennista Andrea Giudice (Alessandria, 1976) raccontano in modo fresco e acuto ventisei giocatori e cinque giocatrici campioni del loro (nostro) sport. Si tratta di personalità antiche e moderne, in piena attività all’incirca nell’ultimo quarantennio (alcuni ancor oggi), descritti efficacemente con spunti biografici e citazioni significative. L’ordine ha una sua logica (dopo nome e cognome un paio di parole riassuntive): Roger Federer; Rafael Nadal; Novak Djokovic; Serena Williams (mangia prega ama); Goran Ivanišević; Guillermo Vilas (tutto o niente); Thomas Muster; Monica Seles; John McEnroe; Jim Courier; Stefan Edberg; Steffi Graf; Mansour Bahrami; Jimmy Connors; Andre Agassi, poi marito di Graf; Pete Sampras; Billie Jean King; Nick Kyrgios (il talento non basta); Arthur Ashe; Michael Chang; Martina Navratilova (donna bionica); Boris Becker (boom boom); Rod Laver, le cui gesta risalgono agli anni Sessanta e Settanta; Björn Borg; Ivan Lendl; Yannick Noah; Andy Murray (contro il destino); Juan Martín Del Potro; Stan Wawrinka; Ivan Ljubičić; Jannik Sinner, unico italiano (umiltà e determinazione). Gli autori sottolineano che, nel tennis come nella vita, è il match point che segna la fine della partita (da cui il titolo) e che, nel tennis come nella vita, è il caso a determinare la vittoria o la sconfitta. Nelle conclusioni insistono sulla forza mentale (decisiva nella singola partita, nella stagione e nella carriera) e sull’amore per ciò che si fa (giocare a tennis per passione e scelta). Seguono una brevissima intervista a Paolo Bertolucci e una bibliografia selezionata, concentrata su testi di alcuni degli stessi giocatori considerati (manca per esempio il volume di Gianni Clerici).
Lo sport è un gioco? – Philippe Descola
Traduzione di Niccolò Casens
Prefazione all’edizione italiana di Stefano Allovio
Raffaello Cortina Milano 2024
Pag. 74 euro 11
Società umane, vicine e lontane, nello spazio e nel tempo. Negli ultimi decenni le scienze sociali hanno dato sempre maggiore importanza agli aspetti non linguistici della cognizione e dell’azione, in particolare per quanto riguarda l’apprendimento di attività pratiche, siano esse relative a competenze tecniche specifiche o allo svolgimento meccanico di attività quotidiane. Anche quando le competenze sono trasmesse pure attraverso il linguaggio, orale o scritto, vanno comunque acquisite (“incorporate”, “incarnate”) come un riflesso, e non come una forma riflessiva, come una catena di automatismi, non come una lista di operazioni da compiere. Così, tutti gli sport hanno il loro vocabolario specifico per descrivere azioni, movimenti del corpo, modi di usare uno strumento; ma le parole che usiamo cominciano ad avere senso solo quando abbiamo interiorizzato ciò a cui fanno riferimento, quando scopriamo che quel gesto che siamo finalmente arrivati a padroneggiare corrisponde al termine che usiamo per nominarlo. Servono schemi cognitivi e sensori-motori ad hoc e alta flessibilità adattativa, un insieme di compiti imparentati tra loro, la cui attivazione non intenzionale è innescata da un tipo di situazione particolare, che si concretizza ogni volta in modo un poco diverso dal precedente (e dal successivo), come la pratica di un’attività “sportiva” appunto. Ed è comparando tra loro campi di significato appartenenti a culture dalle tradizioni tecniche diverse che (grazie ad antropologi, storici, linguisti) potremmo sperare di sollevare un angolo del velo che dissimula la ragione dei gesti nell’oscurità delle abitudini e dell’apprendimento imitativo, restituendo più dignità, precisione e profondità al linguaggio del corpo. Lo sport ci guadagnerebbe.
Il grande influente antropologo francese Philippe Descola (Parigi, 1949) rispose qualche anno fa ad alcune domande sul tema Lo sport est-il un jeu?; le interviste a lui e ad altri noti intellettuali francesi (riconducibili a diversi campi del sapere), redatte in collaborazione con un istituto specializzato e competente, furono poi pubblicate tutte insieme con lo stesso titolo dalla casa editrice Robert Laffont (2022). Con prefazione e riferimenti bibliografici dell’antropologo italiano Stefano Allovio (1968) esce ora l’intervista a Descola, un testo brevissimo che, dopo i riferimenti a “le parole che usiamo”, contiene domande e risposte relative a: Il gioco, un rituale, universale (attività di emulazione e apprendimento, praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, un fine in sé molto più di quanto non lo sia il risultato); Rivalità e individualismo (fece un seminario in materia al Collège de France nel 2020, disponibile online); Philippe Descola e lo sport (cricket, andare a cavallo, sci alpino, boxe francese); Identità e appartenenze (gli aspetti di “identificazione” nazionale, regionale, locale); Lo sport contemporaneo (competitivo capitalizzato mediatizzato mondializzato, prevalentemente nato nelle grandi scuole inglesi, come un dispositivo di creazione delle élite e di preparazione alle carriere militari, con proprie sacre dimensioni estetiche); Disneylandizzazione (dell’intera Europa); L’uomo macchina; Un universale della relazione (conferire diritti a degli habitat, territori, località, insiemi; riorganizzare lo sport come bene comune). L’autore parte dalla sua personale esperienza etnografica presso gli achuar dell’alta Amazzonia (Ecuador), riflette sull’apprendimento della caccia e della guerra “a bassa intensità” (per divenire “esperti” ci vogliono decenni di pratica collettiva), si dissocia da ogni posizione di carattere morale, offre molteplici spunti critici.
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi – Maurizio de Giovanni
Einaudi Torino 2024
Pag. 253 euro 18,50
Fortino (Cilento) e Napoli. Luglio 1940. Ricordi di bimba. Intanto, il vedovo Luigi Alfredo Ricciardi si siede davanti alla tomba di Enrica; da tre mesi, grazie anche al mausoleo di famiglia dei baroni di Malomonte in quel tranquillo cimitero, ha convinto i suoceri Giulio e Maria a trasferirsi nell’antico castello del paese del basso Cilento, insieme alla nipote, sua figlia Marta (nata mentre la mamma moriva nel parto), e alla governante tuttofare Nelide, capace così di occuparsi dei possedimenti con maggior cura; lui vi era nato e cresciuto fino ai 15 anni, andato via ancora adolescente, per studiare, poi l’università e il lavoro di polizia, non era più tornato; la metropoli urlante e colorata gli mancava, come i pochi cari amici; tuttavia sa che il Fatto della propria vita era iniziato lì e non può rinviare più il ritorno alla radice del suo dolore. Marta riempie la vita di tutti, ha occhi neri e vivaci come la mamma, entusiasmo e sensibilità; frequenta l’anziana Filomena, zia di Nelide, apparentemente muta e sorda, sotto un grande ulivo della collinetta e forse presto la maestra Giovanna che potrebbe ovviare bene all’assenza della scuola; sta per compiere 6 anni, il 7 luglio. Nel frattempo, l’enorme gioviale irascibile 61enne brigadiere Maione continua a indagare nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e il medico pensionato Bruno Modo continua a frequentare un ristretto gruppo antifascista di Napoli, progettando un attentato contro un pezzo grosso nazista tedesco, di passaggio al porto. Dopo sei necessitati anni in Argentina, la splendida cantante di successo 41enne Laura Lobianco ha ormai deciso di rientrare in Italia, riprendere anche l’originario nome di Livia Lucani Vezzi, visitare l’originaria Jesi; il grasso musicista Diego la introduce a una canzone proprio sul ritorno, che non hanno nel repertorio, troppo maschile, Volver. Maione viene a conoscenza dell’attentato e intende salvare gli amici; Ricciardi si concentra su un vecchio caso di omicidio a Fortino, intuisce che lo riguarda personalmente.
Il grande scrittore italiano Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) va ormai considerato un Maestro, non solo del suo genere (ai confini di tanti altri). La sua prima e più amata serie giunge il quindicesimo romanzo, un capolavoro a puntate, sempre grande qualità, picchi talora. Per lui si va nelle autentiche dolenti esistenze emozionali. Dopo gli esordi con le quattro stagioni del 1931, il seguito delle feste del 1932, le svolte matrimoniale del maggio 1933 e genitoriale dell’estate 1934, aveva dovuto abbandonare alla sua sorte l’amatissimo “diverso” commissario (dodicesima avventura), poi ritrovato ad aprile 1939 (tredicesima avventura) e a Natale dello stesso anno (quattordicesima), sempre a Napoli. Qui abbiamo due profili spaziali (Fortino, ove Ricciardi si è dovuto trasferire causa regime dittatoriale e leggi razziste, e Napoli) e due profili temporali (l’estate turbolenta di parenti e affetti, a lui contemporanea, e il caso del suo passato locale, un fatto di sangue del febbraio 1906). La trama si compone anche di ingegnose vicende più o meno criminali su cui indagare e da risolvere, con acume e fantasia. Tutto intorno prendono spazio e tempo (come nelle serie tv) le vicende parallele noir e sentimentali dei tanti coprotagonisti, questa volta imperniate sul ritorno geografico, affettivo e sociale, nell’eterna indagine su noi stessi e qui sui misfatti causati in larga parte dall’orrido regime fascista. Non mancano Bambinella, il viso equino pesantemente truccato sotto il cappellino vezzoso e la veletta, la persona più attendibile in città per quanto concerne le informazioni riservate; la contessa Bianca Borgati di Zisa che rimpiange Marta, si preoccupa per Modo e compirà anche lei gli anni il 7 luglio; il bell’ambulante fruttivendolo Tanino ‘o Sarracino, in trasferta perché innamorato della mitica brutta Nelide (che risponde a monosillabi e oscuri proverbi nel suo dialetto); vari interessanti personaggi cilentani, antichi e moderni. La narrazione è, come sempre, in terza varia (con incursioni in prima e in corsivo su Filomena, in terza su alcuni incontri d’epoca utili a comprendere il contesto storico sociale). Il titolo si riferisce a Volver, un’altra canzone del 1934, ancora testo di Alfredo Le Pera, musica di Carlos Gardel. In copertina la bimba e l’anziana a “colloquio” sotto l’ulivo. Vino, rosolio e surrogato (niente caffè). Altro che letteratura minore di genere!
Alfabeto per un pianeta da salvare – Elizabeth Kolbert
Illustrato da Wesley Allsbrook
Traduzione di Scilla Forti
Neri Pozza Vicenza 2024 (orig. H is for Hope. Climate Change from A to Z, 2023)
Pag. 159 euro 18 (formato più grande)
Pianeta, in biodiverso cambiamento da miliardi di anni; e ora. I cambiamenti climatici sono refrattari a ogni narrazione, ma fare il punto su ciò che sta accadendo è quanto mai necessario: milioni di vite sono in pericolo; e più di un milione di specie; ci sono decisioni da prendere, anche se non è chiaro chi, di preciso, le prenderà. Si può partire dalla A, il fisico e chimico svedese Svante Arrhenius (1859 – 1927) nel 1894-95 sviluppò un modello matematico sull’origine delle ere glaciali: con sofisticati innumerevoli calcoli a carta e penna, mostrò valida una sua nuova ipotesi di qualche connessione con le quantità di anidride carbonica presenti in atmosfera. Almeno in parte aveva ragione, come è risultato confermato negli ultimi decenni: le ere glaciali sono il frutto di una complessa interazione di forze, che comprendono sia le oscillazioni dell’orbita terrestre (vecchia ipotesi) sia le variazioni di CO₂ nell’atmosfera. Qualche anno dopo, nel 1903 Arrhenius avrebbe comunque preso il Premio Nobel per la Chimica (grazie a tutt’altri studi). Da quando c’è vita c’è Biodiversità sul pianeta. La B è riferita al Bla, bla, bla denunciato giustamente dall’attivista Greta Thunberg dopo trent’anni di conferenze intergovernative dedicate a cercare di prendere atto davvero degli effetti dei cambiamenti climatici antropici globali e delle conseguenti teoriche azioni per limitare l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, senza successo. La C è di Capitalismo e indica alcune ragioni dei ritardi rispetto agli evidenti pericoli, non si riesce nemmeno ad approvare la carbon tax, segue Disperazione.
L’ottima giornalista e scrittrice statunitense Elizabeth Kolbert (The Bronx, New York, 1961) pubblicò nel 2014, oltre dieci anni fa, un documentato saggio di grande successo mondiale, The Sixth Extinction. In questa recente occasione sceglie un percorso narrativo diverso: ventisei brevi capitoli consequenziali come le lettere dell’abbecedario in inglese, la scelta di un ragionamento coerente con una sequenza alfabetica legata alle lettere inziali degli specifici titoli. Non si tratta di saggi o schede, originariamente molto era stato scritto per articoli apparsi sul New Yorker: visite, incontri, storie di personalità o fenomeni (antichi e moderni) ed esperienze significative; qui, oltretutto, arricchite da varie toccanti illustrazioni a tutta pagina per ciascuno, opera della talentuosa creativa disegnatrice (autistica) Wesley Allsbrook. I primi quattro illustrano la questione decisiva e la preoccupazione crescente. Poi, dalla E in avanti l’autrice segnala varie notizie di azioni utili e di atteggiamenti positivi, là per gli Usa e il mondo: Elettrificare tutto; Finanze; Green; Hi-tech; Inflation Reduction Act; Jobs, jobs, jobs; Kilowatt; Leapfrogging; Matematica; Narrazioni. Solo che bisogna pure poi tenere punto in debito conto le motivate Obiezioni: vi è una grande distanza fra i singoli casi e il quadro complessivo, fra le illusioni e la realtà dei dati. Oggi i combustibili fossili forniscono ancora l’ottanta per cento circa dell’energia primaria mondiale, in trent’anni l’impiego complessivo di energia nel mondo è aumentato di quasi due terzi, la crescita continua comporta lo sfruttamento di risorse finite e supera i “confini” planetari. Nonostante ci siano cambiamenti straordinari, i progressi nel limitare le emissioni sono quasi nulli. Le lettere dei successivi capitoli illustrano il contraddittorio dato di fatto: Polonio dixit; Querelle; Repubblicani; Speranza; Temperature; Uragani & Co.; Vasta scala; Work in progress; Xenofobia (qui il tema delle migrazioni forzate); Yo-yo. Fino alla lettera Z, Zero, il racconto delle visite in auto da Las Vegas alla diga di Hoover dall’estate 2022, 17 generatori al confine fra Nevada e Arizona. Il bacino del fiume Colorado è stato definito “il punto zero del cambiamento climatico negli Stati Uniti”, dal 1998 bloccato in una fase di siccità, le quattro torri di presa della centrale fari nell’aria sul Lago Mead (anziché sommerse). In fondo una ventina di suggerimenti bibliografici.
Il capitale nell’Antropocene – Saitō Kōhei
Traduzione di Alessandro Clementi degli Albizzi
Einaudi Torino 2024 (orig. 2020)
Pag. 297 euro 19
Mondo. Da un paio di secoli. Noi esseri umani abbiamo mutato in modo irreparabile la Terra. L’influsso delle nostre attività economiche è talmente diffuso sull’intera superficie del pianeta che da un punto di vista geologico siamo entrati in una nuova èra, “Antropocene” (termine coniato dallo scienziato chimico Paul Crutzen). In particolare, è l’anidride carbonica nell’atmosfera che ha avuto un’impennata a seguito delle attività dell’uomo, determinando un grande effetto serra e i cambiamenti climatici dell’Antropocene. La ragione prima della crisi climatica, la chiave di tutto è solo ed esclusivamente nel capitalismo, messosi in moto con la rivoluzione industriale, e c’è un pensatore tedesco che l’ha dissezionato a fondo, Karl Marx, la cui opera più nota è appunto Il Capitale. Il grande filosofo, economista, storico, sociologo, politologo, scienziato, scrittore, poeta, giornalista e politico tedesco (e chi più ne ha, ne metta) Karl Heinrich Marx (Treviri, 1818 – Londra, 1883) è stato a lungo considerato succube della idea ottocentesca fautrice del dominio assoluto dell’uomo sulla natura. Il presunto prometeismo antropocentrico e antiecologico di Marx è divenuto uno stereotipo diffuso, dato per scontato pure in chi si collocava a sinistra ed era ecologista nei decenni dagli anni Ottanta in avanti, un po’ ovunque nel mondo. Forse Marx è stato frainteso, però. Si può osservare una critica ecologica al capitalismo negli scritti marxiani almeno dal 1844 al 1868, che viene rafforzata e precisata in modo completo e sistematico attraverso scritti, lettere e appunti nel quindicennio successivo. Marx ci fornisce una delle più utili impalcature metodologiche per indagare le crisi ecologiche come contraddizione centrale dell’attuale sistema storico di produzione e riproduzione sociale.
Il giovane filosofo Saitō Kōhei (Tokyo, 31 gennaio 1987), dopo la laurea nella capitale giapponese, ha molto diligentemente ricercato in Connecticut e a Berlino. Nel 2016 ha pubblicato, basandosi anche su manoscritti ed estratti in parte inediti, la sua tesi di dottorato Nature versus Capital, di cui nel 2017 è uscita la versione inglese (rivenuta e corretta) e nel 2023 l’edizione italiana. Nel 2019 ha curato il volume 18 della quarta divisione della Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA); ha vinto vari premi in Occidente, nel 2020 quello della Japan Society for the Promotion of Science; ha poi continuato a lavorare sui testi originali e cronologici di Marx, insegnando all’università sia in California che in patria. Ora, attraverso l’economia politica, definisce aggiornati campi di azione culturale e sociale ribadendo le avvenute letture di scienze naturali da parte di Marx (pur senza essere divenuto davvero “evoluzionista”, andrebbe segnalato) e l’intuizione di una regolazione consapevole e sostenibile del metabolismo fra uomo e natura. Dopo la prefazione molto perplessa sulle dannose buone intenzioni degli SDGs dell’Onu, i documentati capitoli sono poi otto (e i paragrafi centinaia, spesso brevissimi, con qualche figura illustrativa): Cambiamento climatico e modello di vita imperiale (che “trasla” le contraddizioni); I limiti del modello Keynesiano applicato al clima (considerati i Planetary Buondaries); La scommessa della decrescita (equa) nel sistema capitalista (almeno nei tanti paesi ricchi in cui ci sono pochi ricchi); Marx nell’Antropocene (con l’addio definitivo del primato della produzione e all’eurocentrismo); Accelerazionismo: una fuga dalla realtà (meglio tecnologie aperte); La scarsità del capitalismo, l’abbondanza del comunismo (ovvero di beni comuni condivisi); Il comunismo della decrescita salverà il mondo (ovvero rivoluzionare il lavoro in cinque punti); La leva della giustizia climatica. Saitō (cognome) è dettagliato e fa affermazioni sempre nette; prende spunto da studiosi per disegnare un marxismo e una prospettiva diversi dal tradizionale; conferma che l’ecologia di Marx non è né deterministica né apocalittica e che nel XXI secolo vi possono essere punti d’intersezione tra un progetto “rosso” e quello “verde”, su cui molto insiste. Nel tentativo di andare oltre le riflessioni espresse con Il Capitale (l’unico volume editato dallo stesso Marx nel 1867; lui voleva dedicarlo a Darwin, andrebbe aggiunto), l’autore sembra a tratti sottovalutare la questione delle condizioni materiali riassunta nella famosa espressione (in parte polemica con Hegel): “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere” bensì, al contrario, è il (nostro) “loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Il comunismo storicamente determinato non è solo quello sovietico ma anche quello cinese (in “vigore”). Forse in Occidente non è sufficiente la mobilitazione seria, ben motivata e non violenta del 3,5 per cento delle persone a promuovere grandi cambiamenti per il 99 per cento e per le società (come sostiene nelle conclusioni, riprendendo il pur interessante studio di una politologa). Le note bibliografiche sono in fondo a ogni capitolo, mancano gli indici, sia dei nomi che degli argomenti.
Il tempo non ha pietà – Franco Foschi
Todaro Lugano 2024
Pag. 197 euro 16
Bologna, primavera 1980. Modesto Momo Serra è un possente nero, di incarnato scuro, nemmeno trentenne, mamma eritrea tigrina morta dandolo alla luce, cresciuto nell’araba città di Massawa (Massaua) sul Mar Rosso col genitore militare italiano, ritrasferitisi presto insieme nella “loro” Bolognina (padre nato a settembre 1910, da cinque anni a Villa dei Fiori vicino Casalecchio per precoce malattia degenerativa del cervello, demenza senile). Nella città emiliana ha finito di studiare, per diventare un teppistello, dapprima poliziotto pubblico un paio d’anni fra le carogne della Ditta (Divisione Investigazioni Trasversali Territoriali d’Azione), poi arruolatosi mercenario all’estero, ora investigatore privato ufficiale (locali nella centrale piazza Roosevelt, con segretaria). Non ha alcun problema a picchiare e uccidere, bello ed elegante, egoista e insofferente, sciupafemmine individualista, cronicamente arrabbiato e reattivo, senza mai abbastanza tempo per la valutazione del rischio, trovando tuttavia sempre il tempo per andare a trovare il padre, anche più di una volta a settimana. Terra, il maresciallo di polizia suo rispettoso ex capo, gli offre un caffè e gli chiede di indagare urgentemente per almeno dodici ore nel quartiere dove vive e conosce tutti: deve essere successo qualcosa, tanti sono spaventati in questura, l’intera città potrebbe essere messa a ferro e fuoco, ma nessuno sa perché e come. Fatto sta che davanti e dentro l’ufficio lo aspettano due neri, li neutralizza crudelmente e scopre che lo sta cercando L’Albero, Sem Fall, un pezzo di senegalese di due metri immischiato in ogni sporco affare (strozzinaggio, droga, gioco d’azzardo, prostituzione). Ci parla e quello gli chiede di ritrovare la scomparsa figlia 19enne Fatou Diallo, forse rapita dalla mafia. Momo chiede aiuto a un giovane violento rivoluzionario nero, ribollono conflitti e tensioni da ogni parte, già sopravvivere sarà un problema aperto.
Il competente pediatra ed esperto scrittore bolognese Franco Foschi ambienta il suo nuovo noir (hard-boiled) nei mitici concitati quartieri multicolori bolognesi (Cirenaica e Bolognina) fra il movimento studentesco del ’77 e la strage fascista del 2 agosto 1980. Dopo le sceneggiature e oltre alle trasmissioni radiofoniche, ha pubblicato ormai una ventina di romanzi e saggi, un paio con la stessa casa editrice svizzero milanese (nel 2008 e nel 2018, qui nella bellissima collana gialla, impostata e a lungo diretta dalla grande Tecla Dozio). La narrazione è in terza varia al passato, molto su Momo, sulle cicatrici esterne e interne del protagonista; sugli incontri con l’altro sesso, arrapate conoscenti (di sesso) e splendide amiche (di affetto); e sugli intermezzi delle periodiche accorate visite (nell’apposita struttura residenziale) al padre, che continua a scrivere e abbandonare in giro bigliettini con storie di vita e frasi istruttive, senza logica compiuta (belle, le leggiamo in corsivo). L’avventura è turbolenta: osserviamo il maresciallo (spesso col buon questore), il pessimo incallito criminale reticente ma davvero interessato alla figlia, il predicatore invasato che motiva gli accoliti alla rivolta sociale, i mafiosi dedicati alla conquista armata di nuovi mercati. Quasi tutti sprizzano brutale violenza, lui dà e prende sacchi di botte. Il ritmo incalzante lascia poco spazio alla riflessione introspettiva o alla dimensione sociologica in quegli anni, i colpi di scena sono continui, il grattacielo di vite perse andrà fatto bruciare fino in cima (o in fondo). E vari contesti si riconoscono dagli odori. La rabbia non si cova e potrà ancora accadere di tutto (come noto). La musica dei bar dell’epoca. Whisky, vodka e birra in gran quantità (certo non vini doc).
una domanda a Valerio Calzolaio
perché non ti sie chiesto come mai Graeber e Wengrow non hanno pensato di riflettere sul celebre commento che Walter Benjamin suggerisce rispetto all’Angelus Novus:
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Così Walter Benjamin interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee. L’attesa perpetuamente insoddisfatta della salvezza … un’attesa in cui l’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque. Redimere questi orrori, cioè dare senso e rendere giustizia alle vittime, non è un compito che viene assunto e garantito dalla divinità o dalla storia dell’umanità. Le macerie della storia restano mute, non trovano giustificazione … la storia dell’umanità è rimasta storia di sangue e morte. Così l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento (il tempo) lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette a sé, per garantire ad esse un significato di qualche tipo”.
Per Walter Benjamin l’unica redenzione possibile è nella memoria: solo serbando il ricordo delle vittime, testimoniando della loro dipartita, dell’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo del “tempo mitico” dei vincitori, ovvero della storia ufficiale e del suo incontrovertibile “dato di fatto”.