Decrescita sostenibile

di Rom Vunner

Con le armi della critica abbiamo ormai smontato tutto l’ambaradan. Non ci sono più dubbi, così non va. Dalla guerra, alle grandi opere, agli inceneritori, alla scuola, alla casta (o cozza) di palazzo, fino al traffico, ormai è alquanto sicuro che è tutta una schifezza. Lo sanno anche i bambini. Appunto, i bambini, i ragazzini, gli adolescenti, che sogni nutrono? Conoscono il bunga bunga e sanno che i giornalisti raccontano palle. Magari hanno fatto a scuola tutti i bei corsi sulla sostenibilità, l’ecologia, contro la mafia, per la pace ma sognano come realizzarli? E noi abbiamo qualche sogno da lasciargli? Non il mulino bianco ma la possibilità che le cose cambino? Che non viviamo tra le braccia del fato ma siamo, senza troppa presunzione, fautori della nostra realtà?

Uno dei motti che va per la maggiore, almeno negli spot, è “salviamo il pianeta”, declinato in modi diversi ma questo il succo. Salviamo il pianeta? Ma piccoli noi, il pianeta se ne sbatte allegramente i poli di noi. Non gliene può fregare di meno, siamo come il brufolo che l’adolescente si trova sul volto la mattina appena sveglio. Prima dell’entrata a scuola quel brufolo, se dava fastidio, è stato schiacciato! Siamo seri! Non abbiamo tolto la Terra dal centro dell’universo per metterci l’uomo (ovviamente maschio). Siamo piccoli, fragili, anche un po’ balordi. Ci piacciono cose strane, ci piace giocare e dare fastidio. Se c’è qualcuno da salvare qui, non è il pianeta ma l’essere umano, semmai.

Appurato che siamo in crisi, che la ripresa è dentro di noi come un rigurgito soffocato che lascia un gusto acido, serve pensare a come fare. Da qui il titolo del pezzo, dopo tutta la tiritera moralistica.

Se la crescita continua e progressiva non esiste, se la decrescita attuale porta più depressione che felicità, perché non mettere in piedi un sistema di decrescita sostenibile? Pararsi il culo, in parole del volgo. Una decrescita sostenibile che possa dare l’opportunità di vivere un periodo di transizione per l’elaborazione di un reale cambiamento. Un cambiamento che la cibernetica chiama di secondo ordine, un cambiamento dove il sistema non potrà più tornare alle origini, raggiungendo un nuovo stato di coscienza.

Decrescita sostenibile può essere anche realizzare che realmente lo stile di vita che abbiamo conosciuto non potrà essere, che davvero ci sarà bisogno di capire dove investire, che davvero non ci sarà più lavoro per tutti, e questo qualunque sistema intendiamo adottare. Allora pensare a una sostenibilità di questo. Ad esempio investire là dove costa meno, come cultura e istruzione. Fissare l’istruzione gratuita per tutti, compreso mensa, libri, trasporti… Cosa potrebbe succedere di male? Che ci iscriveremmo tutti a scuola e correremmo a comprarci dei libri? Andremmo tutti al museo anziché al centro commerciale a guardare le vetrine?

Decrescita sostenibile potrebbe essere organizzarci in mutuo-aiuto, nella costituzione di reti, di relazioni, siano esse collettive o connettive ma siano. Anche in questo caso, quale potrebbe essere la controindicazione? Che invece di deprimerci in casa pensando a come cavarcela ci confronteremmo per cavarcela? Che invece di isolarci nel tirare a campare si potrebbe anche ridere e scherzare con altri?

Decrescita sostenibile comporta un conflitto. Un conflitto perché non mollano l’osso. Non è che non sanno quello che fanno o sono impreparati. Non gli mancano gli strumenti di analisi, sono anche bravi, bisogna riconoscerglielo. Insomma, non è che se gli diciamo – guardate che bisogna fare diverso – loro rispondono – accipicchia, non ce ne eravamo accorti, prego fate voi che siete più bravi -. Certo anche il conflitto non va portato avanti ad minchiam, esistono esempi concreti di autorganizzazione e conflitto, un’autorganizzazione che nasce dalle relazioni concrete di mutuo-aiuto, che unisce competenze e capacità dei singoli.

Certo per queste cose serve tempo ma perché non ne approfittiamo ora che si sta lavorando poco?

Rom Vunner

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