Delocalizzazioni all’italiana – 2

di Alexik (*)

[A questo link il capitolo precedente.]

FilantoErano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive.
Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione.
E invece, un bel giorno, era emigrata la produzione, prima in Albania e poi in Bangladesh.
Eppure il Cavaliere del Lavoro Antonio Filograna aveva sempre fatto del suo meglio per garantirgli condizioni di lavoro degne del terzo mondo.
Ma c’è sempre un sud più a sud.

Il Bangladesh a sud di Lecce/2

“Non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio”.1

La descrizione del giornalista Danilo Lupo, originario di Casarano, riguarda uno dei tanti laboratori di subfornitura della Filanto nella seconda metà degli anni ’80. Negli stessi anni, seguendo i ricordi di un’ex operaia del calzaturificio, nei reparti si lavorava in questo modo:

“Alla Filanto dovevi essere davanti alla macchina alle 7.00, e finivi alle 19,00, con due pause che duravano in tutto un’ora e un quarto.
Se sbagliavi anche solo un punto, il caporeparto ti disfaceva tutta la cucitura, anche quella fatta bene. Così perdevi più tempo a rifare il lavoro, e dovevi recuperare nella pausa pranzo, a spese tue. Anche se non sbagliavi, ma andavi troppo lenta e rimanevi indietro con la produzione assegnata, dovevi recuperare durante le pause.
A chi usava i collanti gli davano del latte. Lucia, una ragazza di Corsano, sveniva sempre
”.2

Non che la salvaguardia della salute in fabbrica fosse particolarmente migliorata nel nuovo millennio, a giudicare da queste testimonianze del 2000:

Calzaturificio Filanto“Non ci sono protezioni. Se uno si sente male non ha speranza. Uno che stava a un raschiatore con l’aspiratore rotto che gli provocava nausea per quello che doveva respirare, e protestò col capo, chiedendo che lo riparassero o lo cambiassero, ma il capo gli diceva ‘tu là devi morire’’”.3

“I dispositivi di protezione individuale venivano consegnati in occasione di ispezioni preannunciate o di visite da parte di politici e successivamente ritirati …  Alcune lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità sono state obbligate a rientrare al lavoro dopo aver ricevuto minacce di licenziamento in caso di rifiuto”.4

C’è da dire che tanta arroganza non avrebbe trovato terreno fertile se non grazie alla passività di gran parte degli operai, dovuta ad una diffusa sudditanza psicologica nei confronti del padre/padrone della Filanto. Passività che si trasformava in aperta complicità con la direzione, quando si trattava di emarginare quei pochi che cercavano di reagire.

“Il 5 aprile 1982 la Panfil [lo stabilimento Filanto di Patù] trasferiva in una linea di lavorazione di nuova istituzione, completamente isolata dal resto della fabbrica, tutti gli iscritti alla Filtea-Cgil. Nello stesso giorno il direttore del personale convocava tutte le maestranze e faceva sottoscrivere un manifesto di protesta contro l’iniziativa sindacale dal titolo: Lasciateci lavorare tranquilli”.5 E il 99% firmò.
Era il preludio ai licenziamenti per rappresaglia delle operaie sindacalizzate, che vennero estesi anche ai loro parenti in una sorta di vendetta trasversale.
Così venne distrutto, nel 1982, il sindacato che nasceva dal basso. Una ventina di anni dopo i sindacati confederali entrarono alla Filanto calati dall’alto … chiamati dal padrone.

Delocalizzazioni all’italiana/2

alexik