Diario

Un racconto di Riccardo Dal Ferro – illustrazione di Marco Pasin
(per concludere questa giornata di morti risorti, zombie consumisti e salme ben vestite, ecco il racconto di un diario zombie) 

Diario, di Marco PasinCaro diario,

ho appena trascorso la mia prima giornata da morta e devo confessarti che è stata una figata.

Stamattina, quando mi sono svegliata (ma no, forse non è proprio la parola esatta), mi sono accorta che il sole batteva cocente sulla mia pelle, ma senza scaldarla. Avevo i capelli tutti attaccati alla faccia, e non è stato facile scostarli senza usare il fiato che ovviamente mi mancava.

Ho undici anni, e li avrò per sempre.

Il mondo, visto dagli occhi dei morti, è completamente diverso. Gli alberi sembrano molto più vivi di quando si osservano mentre sei viva. Mi sono rialzata a fatica, e le quercia e le betulle mi parevano particolarmente vispe, e così l’erba sulla quale ero stesa.

Ero sdraiata per terra quando mi sono destata, e ho pochi ricordi di quel che è accaduto prima. Non ho memoria di ciò che mi ha portata alla trasformazione, anche se alcune sensazioni scorrono latenti sotto la mia pelle morta.

C’era tanta paura, ma ora non c’è più.

C’era tanto dolore, ma adesso è scomparso.

C’era un inseguimento, c’erano gli sguardi gettati alle spalle, per vedere se sei riuscita a metterti finalmente in salvo, c’erano le gambe che tremavano, i denti che sbattevano, le lacrime che scendevano.

C’erano corse, fatica, urla, batticuore.

Quest’ultimo in particolare forse mi manca un po’, ma devo dire che essere morti è una figata pazzesca.

Adesso devo lasciarti, forse mi unirò al branco di miei nuovi simili che mi è passato accanto appena mi sono destata, mi sembra gente a posto, simpatica e disponibile, anche se forse poco loquace. Il loro passatempo, quello cioè di vagare lentamente in mezzo al nulla, mi attira non poco.

Ci vediamo domani, mio caro diario zombie.

**

Caro diario zombie,

la giornata non avrebbe potuto essere più interessante.

Gli insetti mi amano, e questa cosa è strana, dal momento che, quando siamo vivi, ci odiano così tanto.

Le api non mi pungono, e anzi si adagiano delicate sulla pelle in putrescenza. Non sono spaventate dall’incedere lento e inesorabile della mia passeggiata. Mi osservano, come si osserva un innocuo arbusto che si arrampica in silenzio nel giardino di casa.

Le mosche festeggiano il mio arrivo, danzandomi intorno, nutrendosi delle mie cellule divenute ormai inutili, degli scarti, ciò che rimane di quella vita ormai diventata un ricordo sbiadito.

Vermi e lombrichi trovano asilo tra gli anfratti del mio corpo, formando comodi giacigli che li fanno sentire al sicuro, non più minacciati dalla mia ingombrante presenza umana.

È una sensazione strana, ma so che ora ho milioni di nuovi amici pronti a prendere parte a questa nuova esperienza della mia non-esistenza.

Stamattina ho incontrato colui che probabilmente mi ha trasformata. Fa parte della mandria che mi ha accolta, e non credo che da vivo fosse un soggetto particolarmente simpatico. Gli occhi sono incavati e solcati da profonde borse, la fronte molto bassa. È tarchiato e goffo nei movimenti, e deve aver perso un braccio in qualche avventura zombie. Quando gli sono passata a fianco, un grugnito mi ha fatto accorgere della sua presenza. Mi osservava placido, e nella sua bocca deforme stavano incastrate una ciocca dei miei capelli e la collanina d’oro che in vita qualcuno mi aveva regalato. In effetti, a uccidermi è stato un profondo morso alla base del collo, e quell’inutile oggetto dei vivi ancora incastrato nella sua bocca è la prova che a lui devo la mia non-vita.

Dopo esserci grugniti addosso cenni d’assenso e di saluto, lui si è recato verso il fiume, dove dicevano trovarsi alcuni animali come cinghiali e volpi.

Io invece ho continuato a seguire il sentiero, perché il sole era troppo bello per non essere inseguito.

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Caro diario zombie,

oggi ho preso parte al primo vero agguato, e mi sento ormai una non-morta adulta.

Eravamo arrivati a un piccolo paesino di montagna, uno di quelli abbarbicati sul fianco di qualche valle dimenticata, forse gli ultimi avamposti della vita umana.

Il capo della nostra simpatica comitiva (saremo all’incirca una cinquantina) ci aveva condotti di là perché c’era odore di carne fresca, e da qualche giorno ormai non mangiavamo qualcosa di succulento. Cerbiatti e scoiattoli non sono sufficienti a saziare la nostra fame, e ogni tanto abbiamo bisogno di qualche piatto prelibato.

Per la prima volta ho visto la mia immagine riflessa.

Nel paesino deserto c’era un negozio di antiquariato, e quando sono entrata ho scorto una bimba dai capelli biondi che mi osservava dal fondo della stanza. Affamata com’ero, ho subito allungato le mie mani in maniera minacciosa, facendole brancolare verso la mia preda designata, emettendo quel suono di rigurgito e mugugni tipico di noi cacciatori (ma in realtà è tutta una messinscena, te l’assicuro).

Quando mi sono accorta che anche lei mi si stava avvicinando imitando quegli stessi gesti, ho capito che la preda in realtà ero io stessa, riflessa nello specchio.

Caro diario zombie, come sono bella!

La mia pelle è grigia come i riflessi di una città sull’oceano. Un occhio è rientrato nell’orbita, lasciando al suo posto un bubbone scarlatto che mi ricorda una rosa appena prima di sbocciare. I miei capelli ricadono sulle spalle, biondi e sporchi come il grano sotto la tempesta. Mi sono osservata a lungo, stendendo un sorriso a tredici denti, e poi provando a mettermi in posa, per quanto i miei tendini irrigiditi me lo permettano.

La morte mi ha fatto bella, caro diario.

Il momento idilliaco è stato interrotto da alcuni spari provenienti dal centro del paesino. Urla, schiamazzi, rumore di lame che tagliavano. Sentivo i miei compagni che masticavano e grugnivano, così mi sono lanciata fuori dal piccolo negozio. Nella strada centrale ho visto cinque o sei vivi che sparavano e tenevano lontani i miei amici con armi affilate. Io e altri sette non-morti ci siamo avvicinati lentamente alle loro spalle, loro erano intenti a tenere a bada l’orda che li fronteggiava.

Caro diario zombie, con quale facilità la mia mano ha strappato la giugulare di un vivo, mentre i morsi dei miei compari staccavano lembi di pelle, mangiavano la faccia degli invasori, rompevano le loro ossa con delicatezza.

Finalmente la carne umana era sotto i miei denti, e il suo gusto di ferro e sale è una delle cose più piacevoli che io abbia mai sperimentato.

Abbiamo mangiato e masticato avidamente, saziandoci dei vivi come ci si sazia della morte.

A banchetto terminato, abbiamo setacciato ogni angolo del paesino, accertandoci di non aver lasciato nessun vivo tra quelle case.

Caro diario zombie, che giornata stupenda!

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Caro diario,

oggi sono triste. È successa una cosa bruttissima.

C’erano teste ovunque: teste spaccate, decapitate, frantumate.

Ci eravamo allontanati io e un’altra decina di amici verso il fitto del bosco, in cerca di qualche animale da divorare. La giornata non prometteva nulla di buono, dal momento che i centri abitati erano distanti da lì, e di carne umana neanche se ne poteva parlare.

Invece, quando siamo tornati nel luogo dove la mandria si era accampata, lo scempio ha spaventato i nostri occhi. Pallottole avevano perforato crani, colpi di machete avevano staccato teste, e un mucchio di nostri amici era stato ammassato poco distante e dato alle fiamme.

Un insopportabile odore di carne bruciata si levava nell’aria, e forse era proprio quello il motivo per cui nel bosco non avevamo trovato neanche un animale.

Caro diario zombie, io odio i vivi.

Loro arrivano, deturpano, credono di essere migliori di noi, migliori dei morti, degli animali, dei vegetali. Arrivano e sfruttano, usano a proprio vantaggio, devastando tutto ciò che trovano sulla loro strada. Sono guerrafondai, radono al suolo alberi e foreste senza fermarsi ad ammirarne la bellezza, senza prendere una pausa per chiedere se tutto ciò che fanno sia giusto o meno.

Loro arrivano, vedono i morti e non li capiscono.

Così, senza averne vantaggio alcuno, li trucidano e li bruciano.

Almeno noi li uccidiamo per nutrircene.

Loro invece, ci annientano solo perché non ci comprendono.

Lo chiamano “istinto di sopravvivenza”, ma è soltanto un modo per fuggire dalla loro cecità.

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Caro diario zombie,

ma quanto è bello il mondo?

La mia carne in putrefazione che si lascia carezzare dal vento, la luce del sole che invade il campo visivo del mio solo occhio buono, il verdeggiare dei prati sotto i miei piedi scalzi e mutilati che zoppicano e incespicano.

C’è poesia, tutt’intorno, e la morte me la fa vivere appieno.

Siamo rimasti in pochi, il branco è ridotto a una ventina di membri dopo l’incursione umana. Ma questo ci ha uniti ancora di più.

C’è un ragazzo poco più grande di me, mi osserva spesso mentre divoro interiora o squarto capretti. Il suo viso è ustionato per metà, ma la metà buona sembra dolce e sincera. Un paio di notti fa sono inciampata su una radice, e lui mi ha mugugnato addosso qualcosa di confortante, voltandosi a guardarmi, quasi volesse incoraggiarmi a riprendere la camminata.

È una strana sensazione, ma ecco, a lui ci tengo, molto più che agli altri zombie.

Ho solo confusi ricordi di quello che provavo quando ero in vita, ma ciò che non dimentico è l’attaccamento alle cose, più che alle persone. Ogni persona veniva misurata in base a ciò che poteva darmi, e non a quello che era realmente. Persino gli affetti più cari altro non erano se non il mero calcolo di un vantaggio, niente di più.

Bisogna forse essere morti, per riuscire a provare qualche cosa di meglio?

Dovevamo arrivare a tutto questo, a rinunciare al battito del cuore, al sangue che scorre, per agguantare la possibilità di guardarci davvero dentro?

Certo, ora siamo molto più semplici di prima: mangiamo, camminiamo, muggiamo e facciamo poco altro. Dentro di noi si muovono reazioni chimiche molto semplici ed elementari, e persino le sensazioni più profonde, come la passione e la paura, sono diventate semplici parole.

Ma forse questa semplicità ci ha spogliati dei demoni che ci perseguitavano.

Ora devo lasciarti, caro diario, il branco mi chiama e devo andare a cacciare.

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Caro diario zombie,

la battuta di caccia è stata un disastro.

Ci siamo addentrati nel bosco in sei, il capo-branco aveva fiutato qualche presenza interessante. Con me c’era anche lo zombie dal volto per metà bruciato e per metà gentile, camminava a pochi passi da me, ma non si è mai voltato a guardarmi. Io lo osservavo, le sue mani penzolavano senza vita lungo i fianchi, le dita erano curiosamente più rosee rispetto alla norma, ma forse era solo una sensazione data dal fatto che avrei voluto stringerle tra le mie.

Emanava un buon odore di carne macilenta.

Presa da quei pensieri, mi sono accorta in ritardo del fatto che eravamo caduti in un’imboscata. Alcune voci di persone vive lanciavano quelle che parevano urla di guerra, e il nostro capo-branco è stato assalito da molti di quei maledetti. Lo hanno sminuzzato crudelmente, lasciando la testa per ultima: hanno mutilato prima le braccia, poi le gambe, mentre lui gorgogliava e mugugnava pietà. Infine lo hanno decapitato, gridando con sadica soddisfazione.

Altri dei miei amici sono stati accerchiati, soverchiati dal loro numero e sopraffatti dalla ferocia con cui combattevano. Così ho cercato di afferrare la mano dello zombie gentile, ma quando le mie dita hanno toccato le sue non è successo nulla. Mi sono accorta che non avevano sensibilità, e lui non ha fatto cenno alcuno di essersi accorto del mio tocco. È rimasto lì, a brancolare con l’altra mano verso il centro della battaglia, le fauci spalancate in una smorfia malvagia, gli occhi iniettati di niente.

Caro diario zombie, sono dovuta scappare via di lì, ma non prima di aver sentito una sorda esplosione, e visto un dardo di metallo sfracellare la sua testa a pochi passi da me. Sono rimasta interdetta per alcuni istanti, mentre nel fitto del bosco tutti i miei compagni cadevano sotto le armi dei vivi. Il corpo del mio amico si è afflosciato con suoni di ossa rotte, la metà gentile del viso irriconoscibile nel mezzo di quel disastro.

Mi sono poi voltata e sono corsa via, mentre alle spalle sentivo che venivano massacrati, e ancora, e ancora.

Nessuno è riuscito a fuggire, a parte me, e mentre tornavo dagli altri miei compagni una domanda mi martellava incessante nella testa: come muore un morto, quando viene ucciso di nuovo?

Forse come rinasce un uomo vivo, nel momento in cui si sveglia.

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Caro diario zombie,

essere morta è la cosa migliore che mi sia mai capitata.

Non so dirti il vero motivo, so soltanto che tutto mi pare più chiaro e vivido, tutto acquista un significato più intenso, più autentico, come se l’attenzione rivolta a me stessa quand’ero viva ora fosse tutta concentrata sulle cose che ho intorno. Non mi interessa nulla di ciò che può portarmi un vantaggio, di ciò che mi fa più bella, di ciò che mi rende felice. Ciò che mi interessa davvero è farmi scorrere addosso le cose, lasciarmi cullare senza opporre resistenza, lasciar scandire i miei passi dall’erba e non dai miei piedi.

È stata solo una breve comparsata, la nostra, in questo mondo. I vivi sono troppo avidi, troppo dinamici, troppo egoisti per essere fermati. Hanno armi affilate e avanzate, hanno pensieri più svelti, idee più originali, sangue più caldo. I morti non possono che sperare di mettere loro la pulce nell’orecchio, facendoli riflettere sulla reale opportunità di guardare al mondo con occhi diversi.

Io, dal canto mio, sono felice di tutto ciò che mi è capitato, mentre dietro l’albero sotto cui mi sono accovacciata per scrivere quest’ultima pagina di diario infuria il massacro dei miei compagni. Li sento morire, per la seconda volta, e sento le risate dei vivi, le loro bestemmie, la loro crudele volontà di evolversi, crescere in numero e cattiveria.

Caro diario zombie, essere morta è stata la cosa più bella che mi sia capitata.

Ora, con la schiena poggiata a questo tronco, riesco a sentire la terra che respira, l’albero che pulsa, l’erba che freme. E prima mi era impossibile sentire tutto ciò, troppo presa dal mio respirare, dal mio pulsare, dal mio fremere.

Chissà dove finirò, una volta morta per la seconda volta.

Chissà come sarà, quando sarò fredda e inerte, ma solo un poco più di come sono adesso. Mi lasceranno qui, accanto a questa betulla, e lei si nutrirà di me.

Sarà bellissimo.

Sono l’ultima morta rimasta.

Ora si accorgeranno di me, e i vivi torneranno a popolare le città, fino alla prossima occasione in cui i morti si stancheranno della loro arroganza.

Passi si avvicinano.

Una voce giovane, una voce di ragazzo, il rumore di una lama che fende l’aria verso il mio collo.

Buonanotte, caro diario zom

Riccardo DAL FERRO

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