Dick, 30 anni dopo (e 3 universi a lato)

Un modo economico per viaggiare in altri universi? Gettarsi nei libri di Philip Dick: tanto più che Fanucci nel 30° anniversario della morte (2 marzo 1982) ripubblica i suoi 30 migliori romanzi di fantascienza in edizione tascabile oltre a tradurre un inedito (non di fantascienza però).

E’ un destino per i grandi della letteratura popolare trovare prima o poi critici e accademici che spiegano con frasi astruse quello che loro riuscivano a dire in un’idea buttala lì con grande semplicità, in uno scambio di battute, talora in un rigo appena. Perciò meglio lasciare la parola a Dick.

«Chi può dire se gli schizofrenici non sono nel giusto?» ci si domanda in «Noi marziani».

«Di quale Terra si tratta? E quante Terre esistono?» chiede un personaggio (in «Vedere un altro orizzonte») e quando gli viene obiettato «Credevo ne esistesse una sola» la saggia risposta è: «E una volta credevano fosse piatta».

Tecnici di fabbrica controllati dai piccioni o robot creditori (che inseguono ovunque gli indebitati) li incontriamo in «Utopia, andata e ritorno».

«Su Beta 12 c’è una divinità simile» si legge in «Giù nella cattedrale»: «Ha imparato a morire ogni volta che un’altra creatura muore. Non può morire al posto della creatura ma può morire con la creatura. E alla nascita di ogni creatura rinasce. In questo modo è passata attraverso innumerevoli morti e rinascite, se la paragoniamo a Cristo che morì una sola volta».

L’entità che dà il titolo a «Ubik» è un nuovo caffè o una divinità, è olio, aspirina o una occulta dittatura? E’ un rasoio, un sonnifero, un deodorante, una invasione aliena oppure è tutto ciò insieme?

La straordinaria inventiva di Dick si è esercitata in un crocevia fra immaginario e reale. L’idea che il nazismo per certi versi abbia trionfato. L’autismo di massa. I frullati di religioni nuove e vecchie, meraviglie e inganni. Una crescente tirannia degli oggetti. Le sempre più incerte definizioni di esseri umani e di creature artificiali ma soprattutto la loro crescente commistione. Droghe così potenti da costruire o distruggere universi. Le inquietudini derivanti da telepatia e/o precognizione. Una economia basata su inganno e morte. La costruzione di false convinzioni e persino memorie. Le trasformazioni del corpo e il sogno-incubo di un’empatia collettiva. Nel racconto «Sindrome regressiva» c’è un inseguimento mozza-fiato perché, lamenta un personaggio, «pensavo che guidando abbastanza veloce avrei raggiunto qualche posto dove le cose sono solide». Si può vedere attraverso (o dietro) la realtà? Sempre a caccia di «La penultima verità», come intitola uno dei suoi romanzi: perché la verità ultima non abita da nessuna parte.

Tanti scrittori e scrittrici azzeccano pochi testi in una vita; c’è chi passa alla storia per un solo titolo. Dick ne ha forse sbagliati un paio. Persino i manoscritti non pubblicati, sceneggiature e appunti per progetti non concretizzati, i testi delle conferenze hanno un buon sapore. Narrativa seria in forma avvincente. Fra i molti film ispirati alle sue storie i migliori restano «Blade Runner» e «A Scanner Darkly» (bocciato senza appello «Minority Report») ma portare su schermo le mille sottigliezze e complicazioni di Philip Dick sembra – forse è – impossibile.

Difetti? La maggior parte delle donne che Dick propone sono caricature, a volte la misoginia piomba inattesa. Pesantezze? Tante: a esempio nel romanzo «Follia per 7 clan» Gandhi viene nominato come ispiratore di mentecatti. Incoerenze? Sono il centro della sua opera: proporre definizioni di umanità tanto diverse è gioco, provocazione, forse necessità. Inoltre chi ama la scrittura cesellata avrà da borbottare per alcune pagine tirate via, quasi sgrammaticate (Dick scriveva in fretta, spesso con i creditori alla gola) ma le trame e i personaggi lasciano sempre a bocca aperta. Letture che slacciano il cervello e scombussolano altre parti della nostra anatomia laddove piaceri e inquietudini si incontrano e spesso litigano. Viaggiare in altri universi è faticoso ma rinunciarvi sarebbe una sciocchezza, fatevi guidare da Dick.

UNA NOTA (al grido di «CHE PALLE»?)

Questo articolo è uscito (parola più, parola meno) sul quotidiano «L’unione sarda» il 3 marzo. Chi passa spesso su codesto blog – dove (taggare per credere) ho più volte invitato a leggere Dick – non troverà novità. E’ un articolo semplice dove lascio il più possibile la parola alle storie anziché alle loro interpretazioni. O almeno questa era la mia intenzione, spero di esserci riuscito. Negli ultimi giorni molte persone anche in Italia, hanno scritto per ricordare Dick: a volte parole profonde e sagge, spesso analisi che trovo condivisibili eppure qualcosa mi turba. Come avrebbe detto Riccardo Mancini: «che palle» complicare il semplice; «che palle» rendere incomprensibile l’evidenza; «che palle» soffocare la vicenda, i personaggi, l’invenzione sotto quintali di interpretazioni e pignolerie; proprio come nelle peggiori antologie scolastiche dove “l’analisi del testo” offusca – «che palle» – il piacere della lettura. Quando, molti decenni fa, Riccardo mi regalò l’antologia «Il meglio di Philip Dick» (sììììììììììììììì, quella della Siad con l’errore in copertina ma con le stupende «riflessioni dell’ autore» in fondo) sottolineò – con sghignazzi – questo passaggio dickiano: «Lessi in un illustre testo di critica sulla Sf che nel mio romanzo “La svastica sul sole” lo spillo che il personaggio di Juliana usava per fissare la sua camicetta simbolizzava tutto ciò che teneva insieme i temi, le idee e gli intrecci secondari del romanzo stesso… cosa che io stesso avevo ignorato prima di leggere quel brano. Ma che sarebbe successo se Juliana, sia pur involontariamente, avesse tolto lo spillo? Il romanzo si sarebbe sfasciato? O quanto meno si sarebbe spaccato in due?». Lo confermo: «che palle» certi critici sapienti. Molte/i intellettuali hanno dato contributi superiori a Dick sui temi che lui amava ma non è questo che, almeno per me, conta: lui ha saputo farlo (quasi sempre) in modo piacevole senza essere banale, in storie comprensibili a tutte/i e io anche per questo lo amo. Poche e pochi sono capaci di questa magia. Allora perchè parlandone bisogna essere ermetici?  Leggete lui dunque non i suoi noiosi cantori. E toglietevi pure lo spillo dalla camicetta ma soprattutto lo spillone dalla testa, quello conficcato lì nel punto dove a volte mi sembra di leggere la sigla “laoteb”… che probabilmente sta per “lasciarsi andare ogni tanto è bello”. Ma qualcuna/o potrebbe obiettarmi che quelle analisi belle – un po’ complicate, secondo il mio punto di vista – sono il  modo in cui altre persone amano Philip Dick e che se lui era così bravo a coinvolgere creando universi tanto diversi beh appunto io ho trovato splendido X mentre un immaginario Gianfederico Arcatini preferisce Y o perfino ZK.  Accolgo l’obiezione: cercherò di togliermi dalla testolina lo spillo (trave o pagliuzza?) che potrebbe avere la sigla “odebaas” cioè “ogni Dick è bello all’androide suo” . E questa è naturalmente la mia terzultima verità. (db)

Redazione
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2 commenti

  • Clelia Farris

    Suvvia, professor Barbieri, lei è troppo severo con Minority Report.
    Io salverei almeno la sequenza di fuga del protagonista abbracciato ad Agatha (è lui che sorregge lei, o viceversa?). Non aggiungo altro, sennò casco nelle interpretazioni e mi becco un doveroso “che palle”.

    Clelia

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