Dick, venditore d’ami in terra ostile

“Non esiste protezione che le armi possano dare. Non più. Non dal – lo sai bene – dal 1945. Quando spazzarono via quella città di musi gialli”. Siamo solamente a pagina 54 di “Mr Lars sognatore di armi”, uno dei libri di Philip Dick considerati (a torto) minori ma già molta della mercanzia è stata esposta. Fra caricature e paradossi, svolte drammatiche e profezie è già chiaro che Lars, il protagonista vive in un un mondo di inganni. Le sue armi non servono a nulla come quelle della sua socia-nemica: ma i due blocchi (Urss-Cina e l’occidentale) riescono a far credere qualunque cosa ai “purioti” cioè ai cittadini normali “puri e idioti” nella perfida definizione dickiana.

Pubblicato nel 1967 come “Operation Plowshare”, poi come “The Zap Gun” (con esplicito riferimento alle fanta-armi dei fumetti) questo romanzo è ristampato da Fanucci (264 pag a 16 euri) in una nuova traduzione, molto innovativa, di Carlo Pagetti che ne scrive anche una luccicante introduzione. Nel 2003 immaginario di Philip Dick i televisori si accendono da soli quando i governi vogliono, gli archivi (detti “a sonaglio”) si auto-distruggono, bambolotti sapienti – o forse terapisti, baby sitter, guru da salotto – citano Shakespeare e Wagner, agenzie investigative internazionali servono (e imbrogliano) due padroni ma soprattutto i sognatori grazie ai loro poteri paranormali riescono a prendere (nel futuro? In un’altra dimensione? O è una super-beffa?) i progetti per nuove armi. Uno scenario statico rotto da due eventi: prima l’incontro dell’americano Lars con la sua collega-nemica del blocco rosso; poi la misteriosa comparsa di satelliti alieni che innesca una cascata di sorprese che ci porterà (nella seconda parte, molto più mossa della prima) in Ghana, nei viaggi del tempo, a scoprire l’infinita potenza dei giocattoli.

Mentre sberleffa la guerra fredda e gli appassionati di fantascienza, Dick non dimentica i suoi temi preferiti a partire da una tecnologia onnipresente e incomprensibile – al solito un tecno-vudù – ma ridicola nel soddisfare solo gli istinti umani più bassi come nel fumetto che si anima ma soprattutto per far saltare il seno prosperoso delle eroine sotto gli occhi di lettori che nelle fantasie provano ad accendere gli istinti ammosciati secondo quanto suggerisce il cognome del protagonista, Powdwedry (“polvere secca” con un ovvio sottofondo sessuale).

Il finale è un gioco mortale che, secondo Pagetti, minaccia in un domani vicino “i vertici del potere istituzionale” ma più probabilmente Dick vuol farci capire che siamo già stati catturati dalla nuova “trappola”. Se questo romanzo avesse un seguito – ovviamente non lo ha – potrebbe essere “La penultima verità” dove però la ribellione finale accende la speranza che qui è andata perduta.

Può essere interessante mettere a confronto il Dick pienamente fantascientifico (pqcvle: per quel che valgono le etichette) con quello degli esordi che si muoveva su un versante realista (pqcvle) e non ebbe alcun successo letterario ma oggi viene riscoperto. Lo dico subito: meritatamente ristampato perchè questo Dick mainstream (sempre pqcvle) è inquietante, ben scritto, innovativo. Se poi volete leggerlo cercando spunti fantascientifici libere e liberi di farlo ma forse vi togliete il piacere di gustare la storia. Soprattutto non fatevi ingannare: che gli oggetti abbiano una natura ambigua cirnlf ovvero concerne il reale non la fantascienza; farsi venire dubbi tipo “l’uomo che ti consegna il carbone è Albert Einstein” felicemente realizzato…  di nuovo cirnlf; essere ossessionati da una Mercedes introvabile certamente cirnlf; e molto-moooooolto certamente soffrire di depressioni e/o gitarsi a vuoto ma anche sposarsi in uno stato di totale confusione cirnlf, oh sì.

Anche questo “In terra ostile” (284 pagine per 17 euri) scritto intorno al 1958 e finora inedito in Italia – negli Usa uscì postumo, nel 1985 – viene edito da Fanucci, nella briosa traduzione di Daniele Brolli che firma anche una postfazione frizzy mentre la introduzione è del solito, bravo Pagetti. Il titolo originale rimanda al “territorio di Milton Lumki” (vero co-protagonista) ma “In terra ostile” è perfetto.

Bruce Stevens è un viaggiatore di commercio in marcia verso un lieto fine posticcio e ironico. Inizia la sua avventura cercando malamente di non farsi notare mentre acquista preservativi (siamo nel 1958 ricordate?) in un negozio sperduto dell’Idaho, un luogo dove gli abitanti hanno uno scopo nella vita: “non essere mai coinvolti”. Eppure anche per il sesso sicuro con involucro l’importante è la marca, pensa Bruce: “questa è l’America (…) fidati del tuo prodotto”. Una società pervasa di crudeltà repressa e autolesionista (come ricorda Brolli), in mondo chiuso da cui non si esce con una felicità di plastica. E’ nello stesso 1958 che Dick scrive “Time Out of Joint” (noto in italiano anche come “L’Uomo dei giochi a premio”): qui la fuga dal reale è nell’illusione del protagonista – che ha perso la memoria – di gareggiare e vincere in un concorso a premi mentre sta cercando di intercettare i missili nemici; ah se Peter Weir ha copiato qualcuno per il film “The Truman Show” è da queste parti che bisogna indagare. Fantascienza pqcvle (per quel che valgono le etichette) mentre “In terra ostile” appartiene al genere realista, pqcvle. Che poi esista una sola realtà è la più pericolosa fra le illusioni, ci ha ammonito Paul Watzlawick ma questo forse non è discorso da fare proprio il martedì perchè da questo blog si parte, si parte…

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Un commento

  • Dalla dickiana Sardegna mi segnalano un errore: “In terra ostile” era già stato pubblicato in italiano (da Einaudi nel 1999). Chiedo scusa, in effetti mi era sfuggito: distrazione, pochi dsoldi in tasca o chissà cosa. (db)

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