Dieci, cento, mille Fernando Pessoa – 2

Quella che segue è un’opera di fantasia, tutt’ora inedita, prodotta dal giornalista, scrittore e compagno (di quelli sinceri di una volta) Orazio Barrese, al quale va tutta la mia gratitudine per avermi concesso di pubblicarla. Scritta per una realizzazione cinematografica, pur acquistata

non ha mai conosciuto attuazione. La propongo per l’interesse letterario, psichiatrico, psicoanalito racchiuso in un personaggio-poeta quale è Pessoa, eroe fantascientifico incarnato, creatore non di mondi ma di persone. Di altri se stesso con i quali si è relazionato come fossero altro da lui. Come forse in effetti erano.
Chiunque abbisognasse di ulteriori chiarimenti potrà averli rivolgendosi direttamente all’autore. Persona cordiale e disponibile, oltre che cortese. Sarà felice di fornirli.
Mauro Antonio Miglieruolo

P E S S O A
di Orazio Barrese

La luna spande una luce scialba, cinerea, sulle tombe del cimitero di Lisbona. Due uomini procedono in silenzio, spediti ma guardinghi, lungo uno dei viali, per fermarsi davanti a una tomba sormontata da una croce. Si riesce a stento a leggere la scritta: Fernando Pessoa. I due stanno per qualche minuto assorti, come in raccoglimento. Poi, sempre senza scambiarsi parola, estraggono da una sacca alcuni attrezzi e si mettono all’opera per staccare la croce. Quando finiscono, l’uno rimette a posto gli strumenti, l’altro si carica la croce sulle spalle.
I profanatori si allontanano. Poi, come per improvviso ripensamento, o per rimorso, l’uomo con la croce ritorna indietro, si ferma qualche istante davanti alla tomba e biascica qualcosa d’incomprensibile: una preghiera o un’invettiva. Quindi raggiunge il compagno assieme al quale, varcato un cancelletto laterale del cimitero, monta su un’auto in sosta. Il rombo e le luci dell’auto che s’allontana diventano sempre più fiochi. In lontananza il chiarore del cielo annuncia la città.

Nel suo studio – tanti libri, molte tele alcune delle quali del periodo futurista e cubista, una grande foto con dedica di Fernardo Pessoa – Adolfo Casais Monteiro, un uomo sui trent’anni di raffinata eleganza, ascolta con cortese indulgenza i discorsi dei suoi ospiti, due giovani studiosi brasiliani, indignati per la violazione della tomba di Pessoa, “il più grande poeta portoghese”.
La moglie di Monteiro, che sta servendo il caffè, con un sorriso tra l’ironico e il beffardo, obietta: “Ma era proprio la tomba di Pessoa? Mi spiego: Pessoa era proprio Pessoa?”
I due critici la guardano interdetti. Non riescono a capire.”E chi poteva essere?” – chiedono.
– Un altro, ad esempio Pessoa.
Monteiro, comprendendo – e degustando – la loro confusione interviene: “Mettiamola così: perché su quella tomba doveva esservi il nome di Pessoa e non quello di Alvaro de Campos, o di Ricardo Reis, o di Alberto Caeiro?”.
– Perché Pessoa era vero, mentre questi altri poeti erano una sua invenzione.
– Invenzione? Creazione, invece, anche fisica, corporea. E se così è, chi può dire che Reis o Campos o Caeiro fossero meno veri di Pessoa e che il vero Pessoa non fosse uno di loro?
– O tutti insieme – sentenzia la donna, che esce dalla stanza dopo avere salutato i suoi ospiti.
Monteiro, quindi, azzarda un’ipotesi: che il furto possa essere stato un omaggio a Pessoa.
– Forse la croce finirà sulla tomba del ladro. E Pessoa, se da vivo avesse potuto prevedere una cosa del genere, ne sarebbe stato felice. O infelice. O disperatamente felice. Scegliete voi. Probabilmente lui vi avrebbe lasciato la libertà di scelta.
I due giovani sono sempre più smarriti. Certo Pessoa è un pozzo senza fondo. Fosse vivo farebbero qualsiasi cosa per conoscerlo. Del resto sono venuti apposta dal Brasile, con una borsa di studio dell’università di San Paolo.
Come mai tanto interesse per Pessoa ?
Perché in Brasile è vissuto, se così si può dire, un importante personaggio partorito dalla genialità di Pessoa.
Certo, Ricardo Reis, emigrato in Brasile dopo l’avvento della repubblica in Portogallo. Ma cosa posso fare per voi?
– Dovendo fare una ricerca su Pessoa, abbiamo pensato di chiedere aiuto a chi è stato suo amico e confidente ed ebbe quindi modo di conoscerlo a fondo e averne confidati i segreti. Per noi sarebbe molto importante che lei ci rilasciasse un’intervista o, meglio ancora, ci parlasse di Pessoa.
Monteiro esita. Dà uno sguardo alla foto di Pessoa, come a chiederne il consenso, poi annuisce. Avverte però che per seguire il suo racconto bisognerà ricorrere all’immaginazione. Almeno per quel che riguarda la “nascita” di una moltitudine di personaggi, alcuni dei quali ebbero ruoli di primo piano nelle vicende letterarie del Portogallo.

( flash back )

Sfuma la figura di Monteiro e prende corpo lentamente 1’immagine spigolosa e segaligna di un uomo sui quarant’anni, baffetti, occhiali a stanghetta, espressione triste e annoiata. È Pessoa, e si ha quasi la sensazione che sia uscito dalla foto incorniciata che Monteiro aveva osservato un istante prima.

Pessoa è seduto dietro una scrivania e sta battendo sui tasti di una macchina da scrivere. Sul foglio si nota l’intestazione Mayer & C. -Import-Export e la data: Lisbona, I2 febbraio 1914. Ovviamente l’epoca è attestata dall’ambientazione, dal tipo di macchina da scrivere, dal calendario liberty, dall’ abbigliamento dei personaggi.
Pessoa appare stanco. Accende una sigaretta, dà uno sguardo a un impiegato in “mezze maniche”, si alza dalla sedia. Esita prima di appallottolare il foglio che estrae dalla macchina da scrivere e di avviarsi verso l’uscita. Prima di raggiungere la porta incontra il signor Mayer il quale, con una certa deferenza, gli chiede se ha già tradotto in inglese la lettera. Pessoa gli risponde che gli è passata la voglia di lavorare perché il testo che gli era stato dato era scritto malissimo. Gli provocava un’enorme sofferenza quel portoghese stentato. Nulla di male che non si conosca l’inglese, ma la lingua portoghese… Quindi con una punta di perfidia Pessoa chiede chi abbia scritto quel testo, se per caso non sia stato proprio Mayer. La risposta è impacciata e Pessoa, dopo avere salutato, s’allontana con un sorriso che sprizza sadismo.
Mayer deve giustificare, di fronte agli altri impiegati, la propria tolleranza. Dice che i poeti vanno compresi e possibilmente aiutati, come ha fatto lui che ha affidato a Pessoa la corrispondenza commerciale in inglese e in francese. E promette un grande “regalo”: una foto di gruppo con Pessoa. Poi torna ad essere il “padrone”: “Ma cosa state a fare? Riprendete il lavoro!”.

Pessoa, d’umor nero, per le strade di Lisbona. Vorrebbe acquistare una bottiglia di whisky, ma s’accorge che i soldi non gli bastano. E allora a passo svelto, quasi concitato, raggiunge la redazione di un quotidiano. Risponde appena ai saluti degli uscieri. Scuro in volto, penetra nell’ufficio del direttore che lo guarda sorpreso: “Che c’è Pessoa? I1 suo articolo lo pubblichiamo domani. Ottimo. Ma susciterà polemiche, risentimenti….”
Pessoa risponde che non glie ne importa nulla di quando l’articolo sarà pubblicato e di ciò che provocherà. Vuole avere pagati gli scritti precedenti, perché ha urgente bisogno di danaro. II suo tono è così deciso, così perentorio che il direttore, dopo avere obiettato che a quell’ora non c’è nessuno in amministrazione, gli anticipa di suo alcune banconote.

Pessoa ancora in ufficio con un amico. Un usciere gli porta in una busta la foto di gruppo. Pessoa l’osserva, poi la strappa. All’amico che gli chiede il perché risponde che, pur non avendo mai avuto un’idea particolarmente esaltante della propria presenza fisica, il suo volto in confronto agli altri non gli è apparso mai così insignificante come in quella foto. Arriva Mayer e dice a Pessoa: “Lo sa che è riuscito benissimo in fotografia?”. Pessoa lo fulmina con uno sguardo, Mayer nota che la foto è stata lacerata e si allontana imbarazzato.

In casa della zia Anica, Pessoa discute con altre persone di magia, pratiche esoteriche, spiritismo. Ci dev’essere appunto una seduta spiritica, ma si attende una donna, Maria, alla quale Pessoa appare particolarmente interessato. Dopo una lunga attesa la zia Anica decide ugualmente di incominciare. Pessoa però non riesce a concentrarsi, porge l’orecchio ad ogni rumore, guarda verso la porta. La sua è una presenza “ritardante”. E così lascia la seduta. Passa in salotto, si versa da bere, riprende a fumare accanitamente. E’ palesemente nervoso: si alza e si siede continuamente e continuamente si affaccia all’’ingresso. Finalmente giunge Maria. La giovane biascica qualche scusa, poi s’avvinghia a lui spingendolo essa stessa verso un’altra stanza e buttandolo sul divano. L’uomo incomincia a spogliarla, ma d’un tratto balza in piedi e, tenendosi le tempie, scappa via, senza curarsi delle domande e delle proteste di Maria.

Poco dopo nel suo studio. Ha la cravatta slacciata, la camicia sbottonata, così com’era, cioè, quando era fuggito da Maria. In piedi, intingendo la penna nel calamaio, adopera come scrittoio il piano di un grande comò, che è sormontato da uno specchio. Scrive un titolo, O Guardador de Rebanhos, quindi, quasi di getto, vengono fuori numerose liriche, in calce alle quali appone la firma di Alberto Caeiro de Silva.
Eccitato, stanco, sudato, Pessoa osserva la sua immagine allo specchio. Il suo volto incomincia a deformarsi e poi l’immagine riflessa è ben diversa, è quella di un uomo sui trentacinque anni, biondo, pallido, gli occhi azzurri. Pessoa urla : “Maestro”! e istintivamente va per abbracciarlo, ma subito si blocca e gli urla d’andarsene. L’immagine replica: “Ha appena creato in me il suo maestro e vuole che me ne vada. Perché?”
– Perché voglio tornare ad essere me stesso: Pessoa-Pessoa e non Pessoa incarnato in Caeiro o viceversa. .
– Quindi, lei mi ripudia? E così io divento un maestro senza discepoli, e per di più senza nemmeno una storia personale…
Pessoa lo rassicura. I discepoli ci saranno: “La mia anima è una misteriosa orchestra, non so quali e quanti strumenti suonino o stridano, ma dentro di me mi riconosco come una sinfonia. In quanto alla storia personale, la biografia è pronta, anche se non è ricca e dettagliata. Nato a Lisbona nel 1889, Alberto Caeiro de Silva, a causa della sua salute cagionevole, vive da anni in campagna, in un villaggio del Ribatejo, presso una vecchia zia”.
Caeiro chiede spiegazioni sulla sua salute cagionevole e Pessoa risponde:
– Lei è affetto di tubercolosi, proprio come mio padre. Capisce adesso il mio legame e il mio tormento?
Il legame e il significato affettivo sono palesi, ma Caeiro non è certo contento. Inutili sono le sue obiezioni; Pessoa lo costringe ad andar via. Prima d’allontanarsi, però, Caeiro borbottando allunga la mano al di là dello specchio e si impossessa delle poesie. Portano il suo nome, quindi sono sue e intende farle pubblicare al più presto.
Pessoa sembra annuire. Ma in realtà non ascolta più il Maestro. Ha ripreso ad intingere la penna nel calamaio e a scrivere, di nuovo eccitato, ed esaltato per avere ritrovato se stesso.
Stavolta infatti è Pessoa-se stesso che scrive. E sotto le poesie, che hanno per titolo Chuva obliqua, c’è, nitida, la firma di Fernando Pessoa.
Quando finisce, stremato, a terra vi sono numerose bottiglie vuote.

(segue)

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