Dilatare il significato di cura

Appunti verso lo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo

di Lea Melandri (*)

Chi si occupa dei lavori di casa – scrivono quelli di Salary.com – dovrebbe guadagnare 7.000 euro al mese…”. Rilevare in termini quantitativi – tempo e denaro – quello che qualcuna, già negli anni Settanta, ha chiamato “il lavoro d’amore“, un lavoro non riconosciuto come tale e come aggregato della grande economia, è sicuramente importante. Sulla violenza domestica si è cominciato a discutere con un certo rilievo dopo che sono usciti rapporti nazionali e internazionali nel merito. Ma non basta. Dovremmo chiederci perché le donne, pur consapevoli che con l’emancipazione, l’integrazione nel mondo del lavoro extradomestico, non è venuta meno la responsabilità della cura e del lavoro domestico, ancora stentano ad abbandonare il potere che viene loro dal rendersi “necessarie”, indispensabili a figli, mariti, padri, ecc. Le cure materne non riguardano solo i figli piccoli – e anche i questo caso, l’accudimento possono farlo uomini e donne, genitori biologici e non biologici -, ma vengono estese anche a persone autonome e in perfetta salute.

Antonella Picchio, femminista economista, impegnata su questi temi da tanti anni, lo dice in modo chiarissimo:

Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi.

Le donne sono “schiave” della loro forza? “Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”, scrive Sibilla Aleramo.

A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni Settanta Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto – come scrive Antonella Picchio – fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato.

Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellareÈ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile? Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende – cosa si produce, come si produce -, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari.

(*) Link all’articolo originale: https://comune-info.net/dilatare-il-significato-di-cura

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2 commenti

  • Sono d’accordo nel considerare l’eccesso di cura una forma sbagliata di potere e che tale potere si possa tradurre in un macigno sui figli e su coloro a cui viene rivolta. Ma penso che invece il giusto equilibrio, sia il portato di una cultura femminile che vada rivendicata e che debba diventare patrimonio condiviso e ripartito. E’ potere, certo, ma non necessariamente schiavitu’, o almeno non di più del lavoro sottopagato e precario. E se equilibrato, ripeto, regala e ripaga più di ogni lauto stipendio. A meno che non consideriamo il valore del denaro primario su tutto. La sfida vera è ribaltare il paradigma del profitto, del denaro e del potere come elemento di competizione. Questa si sarebbe una vera rivoluzione.

  • Giuseppe Tadolini

    Non solo chi svolge il lavoro di casa non percepisce settemila euro, ma non riceve nemmeno la pensione sociale, a meno che il coniuge non abbia a sua volta una pensione irrisoria.

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