Disgelo Usa-Cuba: le insidie del nuovo corso

di David Lifodi (*)

Il 17 dicembre 2014 sarà ricordato come una giornata storica per il disgelo tra Stati Uniti e Cuba, caratterizzato dal ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, dall’interscambio dei prigionieri e dal discorso simultaneo di Raúl Castro e Barack Obama che annunciavano la fine delle ostilità. Eppure, senza voler passare per forza come bastian contrario, non concordo né con coloro che hanno interpretato un evento comunque storico come un successo della diplomazia Usa o dell’isla rebelde, né con chi ritiene la pax statunitense-cubana fonte di enormi vantaggi per Cuba. Al tempo stesso, ovviamente, non credo che fosse meglio l’isolamento dell’isola decretato dagli Stati Uniti, ma, in definitiva, è forte, a mio avviso, il rischio che il nuovo corso tra i due paesi sia all’insegna della famosa frase del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Bisogna che tutto cambi perché non cambi niente”.

Innanzitutto, il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba non implica l’eliminazione dell’embargo da parte del Congresso Usa, dove i repubblicani sono la maggioranza. A lasciare perplessi, sono anche le dichiarazioni di Obama, dipinto con eccessiva enfasi ed una buona dose di superficialità come uomo di pace. Il presidente Usa ha ammesso di aver lavorato per ripristinare le relazioni tra Cuba e Stati Uniti, a partire dall’apertura delle rispettive ambasciate, perché oltre cinquanta anni di isolamento si sono rivelati un fallimento, ma si è guardato bene dal dichiarare che il suo paese non cercherà più di influenzare la politica cubana, ad esempio tramite la bloguera  ampiamente foraggiata dalla Cia. Inoltre, lo stesso Obama ha tenuto a ribadire che gli Stati Uniti hanno sempre appoggiato democrazia e diritti umani a Cuba, una bugia facilmente smascherabile, basti pensare alla serie di azioni terroristiche che dagli anni ’70 sono state provocate  dai vari Posada Carriles, Orlando Bosch ecc…: una delle più clamorose, nel 1976, causò la morte di 73 persone sul volo 455 della Cubana Aviación, su cui lo stesso Carriles aveva piazzato una bomba. Fu sempre Carriles, esule cubano addestrato dalla Cia, a rivestire, alla fine degli anni ’90, un ruolo di primo piano nella serie di attentati in alberghi e luoghi turistici dell’Avana allo scopo di destabilizzare il paese: in uno di questi rimase ucciso anche il giovane imprenditore italiano Fabio Di Celmo. E ancora, fa pensare l’apertura (interessata?) di Obama a Cuba nello stesso momento in cui il presidente statunitense decide di inasprire le sanzioni nei confronti del Venezuela bolivariano, che con la revolución ha da sempre un rapporto speciale, caratterizzato nel segno dell’Alba dalla presenza dei medici cubani nelle villas miserias di Caracas e da una serie di collaborazioni sud-sud. Non bisogna dimenticare nemmeno i colpi di stato avvenuti negli ultimi anni in Honduras e Paraguay, dove presidenti democratici sono stati scalzati dalla reazione delle destre locali con l’evidente appoggio della Casa Bianca. Gli aspetti significativi, e degni di rilievo, del nuevo rumbo, si vedranno a breve: si parla di un incontro tra Raúl Castro e Obama su questioni globali quali immigrazione, sanità, sport, cultura, ma anche su una ambigua e poco chiara guerra a quel terrorismo che gli Stati Uniti, anche di recente, hanno individuato nei paesi aderenti all’Alba (Alianza bolivariana para América Latina). È evidente che sulle politiche migratorie l’apertura dei flussi turistici verso entrambi i paesi rappresenterà un enorme beneficio per i cubani, così come l’esportazione di beni e servizi, soprattutto a livello di telecomunicazioni, dal gigante nordamericano a Cuba. Un segnale positivo riguarda anche l’ammissione di Cuba alla Cumbre de las Américas del 2015 (se davvero sarà tale) e la revisione dello status che designava l’isola come uno stato che appoggia il terrorismo, anche se sulla sovranità territoriale cubana resta la macchia di Guantanamo, una vergogna che gli Stati Uniti non intendono in alcun modo cancellare, come se fosse normale disporre liberamente del territorio di un altro paese. Di certo, la crescita dei servizi legati al turismo rappresenterà una manna per l’economia cubana, così come le nuove tecnologie permetteranno a Cuba di aprirsi davvero al mondo e poter comunicare, ma anche qui c’è il risvolto della medaglia. Senza voler fare previsioni apocalittiche, come sostengono coloro che temono un ritorno dell’isola all’epoca di Fulgencio Batista, è forte il rischio che l’economia cubana finisca per dipendere esclusivamente dal mercato statunitense, come hanno sempre auspicato l’estrema destra repubblicana Usa e cubana, in dissenso con Obama perché non ha messo in discussione la natura socialista di Cuba, un aspetto, questo, che può essere ritenuto un successo per tutto l’integrazionismo latinoamericano, che ha sempre individuato nella revolución un faro e una guida. Al tempo stesso, la probabile dipendenza di Cuba dagli Stati Uniti, se da un lato potrebbe alleviare le difficoltà di un popolo che comunque è sempre riuscito ad arrangiarsi nelle difficoltà, senza peraltro che nel paese si siano mai verificati moti contro il castrismo (con sommo scorno della stampa autodefinitasi progressista, che mai ha evidenziato questo aspetto), dall’altro rischierebbe di consentire ad un capitalismo selvaggio e pericoloso di penetrare nell’isola, cosa mai riuscita ai presidenti Usa di segno imperialista, ma che avrebbe possibilità di avvenire, paradossalmente, nell’era del “progressista” Obama. Ci sono innegabili motivazioni di  ordine geopolitico, economico ed elettorale alla radice dell’audace mossa del presidente statunitense nelle nuove relazioni diplomatiche basate sull’amicizia con Cuba, all’insegna del divide et impera nel continente latinoamericano. La vera distensione con l’America Latina sarebbe dovuta avvenire anche attraverso il ritiro delle basi militari dal continente e il riconoscimento dell’integrazione regionale latinoamericana, invece, il nuovo corso con Cuba prelude, piuttosto, al tentativo statunitense di recuperare quell’egemonia sull’America di sotto persa ormai da tempo. Organismi come Unasur (Unión de Naciones Suramericanas), Celac (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños) e Alba hanno contribuito a ridurre progressivamente l’influenza a stelle e strisce sul Sudamerica, e la stessa “democrazia” Usa cerca di dare un’immagine pulita e limpida di se stessa dopo aver imposto per anni e anni l’anacronistico bloqueo con il solo appoggio di Israele in sede Onu. E ancora: mentre imprese cinesi, russe e latinoamericane avevano già iniziato ad espandersi in territorio cubano, quelle statunitensi non potevano proprio per via di quell’embargo sancito dal loro stesso paese. In questo senso, ciò a cui mirano gli Stati Uniti è una rapida transizione di Cuba verso il capitalismo, a partire dalla pericolosa Alianza del Pacífico che Obama o il suo successore cercheranno di imporre all’isola ribelle per togliere argomenti all’Alba e separare Cuba da “cattive amicizie” come quella con il Venezuela bolivariano. In definitiva, la Casa Bianca non modifica i suoi obiettivi, ma, più semplicemente, cambia la politica per conseguirli e, probabilmente, li radicalizzerà se alla distensione di Obama si sostituirà la linea radicale dei repubblicani, in maggioranza al Congresso e guidati da Marco Rubio, senatore della Florida, oppositore dell’accordo Cuba-Usa con le argomentazioni della mafia cubano-americana di Miami e tra i candidati della destra radicale alla Casa Bianca. Sono gli esuli di Miami a cercare con tutti i mezzi di sabotare l’accordo, a partire dalla bloguera Yoani Sánchez, che denuncia la mancanza di libertà di espressione a Cuba, ma scrive senza alcun problema per quotidiani internazionali dalla sua casa a L’Avana, dove gestisce anche il quotidiano on line 14ymedio.com. Il recente, e poco chiaro, arresto del marito della bloguera, Reinaldo Escobar, durato per breve tempo prima del rilascio e denunciato con solerzia dalla stessa Sánchez sul suo account twitter, appare più come un tentativo disperato che l’opposizione ha sfruttato per recuperare visibilità. A Yoani Sánchez, invece, sono stati subito revocati gli arresti domiciliari: per lei ed altri collaboratori del sito web 14ymedio.com, che tutto è meno che indipendente, come in molti insistono  a definirlo, l’accusa di “partecipare al disordine pubblico” non è del tutto fuori luogo, considerando le molteplici manovre per creare il caos sull’isola, non ultima la promozione del twitter cubano denominato Zunzuneo, allo scopo di dar vita ad un movimento di opposizione giovanile all’estabilishment cubano. Alla fine, la distensione tra Stati Uniti e Cuba ha spiazzato anche  Yoani Sánchez, che puntava ad essere individuata come leader del cambiamento nel suo paese e adesso si trova senza argomenti. A questo proposito, non si può non evidenziare come la stessa superbloguerasia poco conosciuta anche nel suo paese, che lei per prima scredita ogni giorno (e non si capisce perché quotidiani come la Repubblica si ostinino a concederle spazio) senza però denunciare mai la vergogna di Guantanamo o quella del contractor statunitense Alan Gross,  il cooperante di Usaid tenuto prigioniero a Cuba per aver cercato di violare i controlli della sicurezza cubana ed essersi introdotto nel paese ufficialmente per offrire assistenza informatica alla comunità ebraica dell’isola. Gross è stato trattato molto meglio dei cinque eroi antiterroristi cubani detenuti nelle carceri degli Stati Uniti: il loro ritorno in patria rappresenta senza dubbio il miglior risultato del disgelo tra Usa e Cuba. Conosciuti familiarmente come los Cinco, i cinque membri dell’intelligence cubana furono arrestati per aver infiltrato la mafia cubano-americana, in procinto di compiere un’ondata di atti terroristici contro l’isola, e condannati a seguito di processi farsa in Florida. Per Gerardo Hernández, Antonio Guerrero e Ramón Labañino si trattava di pene tombali: gli altri due erano già usciti di prigione a seguito di un complicato e sofferto iter giudiziario.

In definitiva, la nuova sfida di Cuba, adesso, sarà quella di difendersi dall’aggressione del mercato nordamericano. I cubani potranno godere di beni di consumo finora sconosciuti, può darsi che il loro tenore di vita migliori, ma bisogna sottolineare, come ha fatto Luciana Castellina sul manifesto, che Cuba può vantare “un ottimo sistema sanitario nazionale e un’elevatissima, universale e gratuita istruzione”. Certo, Cuba non si è piegata alle imposizioni del potente vicino, costretto ad ammettere i suoi fallimenti, e al tempo stesso, pur con tutte le controindicazioni del caso, la mossa distensiva, per quanto non priva di secondo fine, da parte di Obama è stata comunque audace, ma prima di parlare di disgelo, di fine di un’era e celebrare le prospettive del nuovo corso, occorrerà vedere quali sono le reali intenzioni della Casa Bianca: vera all’insegna del todos somos americanos di Obama o un nuovo tentativo di colonizzazione dell’isola con mezzi più subdoli?

* tratto da www.peacelink.it – 4 gennaio 2015

 

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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