Disgelo Usa-Cuba: una pax che giova solo agli Stati Uniti

di David Lifodi

Su tutti i quotidiani il 20 luglio 2015 è stato descritto come un giorno storico per la ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba, caratterizzato dalla riapertura delle rispettive ambasciate a Washington e L’Avana. I media hanno enfatizzato gli aspetti più folcloristici della faccenda, dall’alzabandiera con gli inni nazionali di sottofondo agli applausi festanti della popolazione intervenuta all’evento. Certo, la ripresa delle relazioni diplomatiche dopo 54 anni rappresenta senza dubbio un risultato di rilievo, tuttavia non si può fare a meno di constatare delle evidenti contraddizioni nella miglioramento dei rapporti tra il gigante nordamericano e la piccola isola caraibica.

“Dopo aver capito che il terrorismo e lo strangolamento economico imposto a Cuba tramite il bloqueo non avevano ottenuto alcun effetto, Obama ha scelto un’altra strada nel tentativo di portare la democrazia sull’isola con altri mezzi”: è questo il tagliente giudizio di Noam Chomsky in un’intervista rilasciata al quotidiano messicano La Jornada. Da sempre molto critico verso il suo governo, il linguista statunitense ha sottolineato che la ripresa delle relazioni tra i due paesi, voluta fortemente da Obama, si inserisce nell’ambito di una richiesta di normalizzazione dei rapporti con Cuba proveniente dalle multinazionali Usa del settore farmaceutico, dell’energia e dell’agroindustria: in pratica, il capitalismo finanziario a stelle e strisce voleva tornare ad investire a Cuba, ma non poteva farlo finché non fossero state ripristinate le relazioni diplomatiche tra i due paesi. E ancora, è  evidente come gli Stati Uniti non avessero scelta: in occasione dell’ultima Cumbre de las Américas prima del nuovo corso, svoltasi in Colombia, Obama si era trovato quasi isolato in un contesto in cui buona parte dei paesi latinoamericani aveva cominciato a tendere a sinistra, pur con tutte le sfumature e le contraddizioni del caso. Non si può fare a meno di notare, e per questo il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e Cuba va preso con le molle, che la “democrazia” che Obama e tutto l’estabilishment americano, democratico o conservatore che sia, vuol ristabilire nell’isola caraibica, è quella attualmente vigente in paesi quali Guatemala e Honduras, da sempre nell’orbita statunitense. Ci sono quindi molti motivi per mantenere un atteggiamento quantomeno prudente sugli sviluppi del nuovo corso così tanto pubblicizzato, in maniera superficiale, dalla stampa mainstream. La bandiera cubana sventola di nuovo a Washington per la prima volta dal 3 gennaio 1961, quando il presidente Usa Eisenhower ruppe le relazioni diplomatiche con Cuba dopo che aveva già imposto un embargo di cui ancora non si vede la fine. Certo, spetta al Congresso autorizzare la fine del blocco economico, ma il comune sentire di buona parte dei congressisti per mantenerlo non lascia trasparire nulla di buono. A questo proposito, Raúl Castro ha già fatto sapere che il processo di riappacificazione si interromperà presto se non sarà tolto il bloqueo, così come se non si risolverà la questione di Guantanamo, dove gli Stati Uniti mantengono la propria base militare occupando illegalmente il territorio cubano. Inoltre, sempre dagli Stati Uniti, proseguono le trasmissioni radio e tv dei dissidenti di Miami che continuano ad incitare la popolazione alla destabilizzazione del loro stesso paese. Su questi aspetti, finora, dalla Casa Bianca non è stata registrata alcuna presa di posizione ufficiale, segno piuttosto evidente che le manovre per riportare la “democrazia” a Cuba proseguono come prima. In questo contesto, da Washington finora hanno sempre fatto orecchie da mercante in merito alla richiesta di una compensazione economica proveniente da Cuba a causa dei danni umani e di carattere economico provocati dagli Stati Uniti in oltre mezzo secolo. E ancora, desta molte perplessità la doppia morale utilizzata dalla diplomazia statunitense verso Cuba e verso l’America Latina. Se l’isola ribelle è stata cancellata dalla lista nera, difficilmente si conciliano opinioni e azioni degli Stati Uniti (in particolare della destra radicale, ma non solo) verso Cuba e verso i paesi bolivariani, a partire dal Venezuela, e per i quali L’Avana resta un modello da seguire. Proprio di recente l’opposizione radicale al proceso bolivariano ha ricevuto l’appoggio ufficiale di Obama per farla finita con il presidente Maduro e il Venezuela socialista. Non solo lo stesso Obama ha continuato, durante l’improvvisa luna di miele sbocciata con Cuba, a sostenere che il Venezuela rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale statunitense, ma il suo presidente Joe Biden, in una riunione con i sostenitori di Leopoldo Lopez (incarcerato da Maduro in quanto leader di un partito apertamente eversivo e di ideologia fascista quale è Voluntad Popular) ha dichiarato che nel giro di qualche mese il governo bolivariano, peraltro democraticamente eletto, sarebbe stato rovesciato. Sulla base di tutte queste premesse, come è possibile fidarsi delle rassicuranti dichiarazioni di Obama e dei democratici, che mirano al ristabilimento delle relazioni con Cuba anche per legittimarsi come abili negoziatori in vista delle presidenziali del 2016? Come ha affermato il ministro degli Affari esteri cubano Bruno Rodríguez, solo l’eliminazione dell’embargo, la restituzione di Guantanamo (dove si trovano, ancora oggi, un centinaio di prigionieri) a Cuba e il rispetto della sovranità territoriale dell’isola daranno il senso ad una reale riappacificazione tra i due paesi. Basta leggere tra le righe alcune dichiarazioni di Obama o certe decisioni prese dalla politica statunitense per capire che dietro alla riapertura delle ambasciate a Washington e L’Avana ci sono interessi precisi e non un semplice spirito umanitario. Quando Obama sostiene che gli Stati Uniti proseguiranno ad appoggiare gli sforzi degli attivisti per i diritti umani a Cuba è fin troppo evidente che pensa ad un modello simile a quello delle cosiddette rivoluzioni arancioni nell’Europa dell’est e, allo stesso tempo, sono noti a tutti gli investimenti per milioni di dollari allo scopo di “promuovere la democrazia e rafforzare il ruolo della società civile a Cuba”.

A queste condizioni è difficile aspettarsi un processo di riavvicinamento alla pari tra Stati Uniti e Cuba, ma senza il rispetto del diritto all’autodeterminazione per l’isola la tanto celebrata riapertura delle ambasciate rischia di avere un valore poco più che simbolico e forse è proprio questo che da Washington vogliono: uno specchietto per le allodole per far tornare Cuba all’epoca di Fulgencio Batista.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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