Dissenso e cinema in Egitto

di Monica Macchi
«L’oppressione e’ una cultura, la democrazia e’ una cultura e le persone non cambiano la propria cultura da un giorno all’altro. Una cosa è cambiare il regime, un’altra è cambiare quella cultura». Ahmed El Attar

Ho incontrato Ahmad El-Attar, fondatore e general manager dello Studio el-Din (http://seefoundation.org/v2/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1LINK), un centro di performing arts situato nella “Sharia Broadway”, la via che storicamente era dedicata all’arte e alla cultura, per parlare delle politiche culturali sotto Mubarak e di cosa potrebbe succedere con la vittoria dei Fratelli Musulmani. In Egitto il cinema non solo è un’industria ma è anche un’industria culturale, grazie anche al fatto che il dialetto egiziano è compreso in tutto il resto del mondo arabo. Ahmed El Attar sottolinea subito l’esistenza di due realtà parallele e non comunicanti: da un lato lo scenario culturale del Cairo e di Alessandria (in cui sono stati ambientati molti film recenti di successo tra cui «Microphone» (2010), «El Shooq» (2010) e «Hawi» (2010) e dall’altro il deserto culturale, specchio dell’assenza totale di infrastrutture, del resto dell’Egitto. Ci ha poi spiegato il meccanismo della censura sotto Mubarak: per quanto riguarda il teatro la creazione di carrozzoni, macchine di propaganda funzionali per lo Stato, senza alcuno spessore nè artistico nè culturale, come dimostra l’esperienza del Festival del Teatro Sperimentale. Per quanto riguarda il cinema, il meccanismo della censura era più complesso e articolato come dimostra il diverso trattamento riservato al film «Hyya Fauda» («Le Chaos», 2008) di Yusef Chahine e Hawi El Batout pur trattando la stessa tematica, cioè i soprusi e la corruzione della polizia. El Attar spiega questa differenza in maniera tautologica cioè dicendo che il regime di Mubarak era per l’appunto un regime e quindi era «forte coi deboli e debole con i forti» e Chahine era sì un regista inviso al regime, a causa di film come «Al-nas wa al-Nil» («Un jour, le Nil», co-produzione Egitto/URSS/Francia) sulla costruzione della diga di Aswan, «Al-Usfur» («Le Moineau», 1972, Egitto/Algeria) sulle responsabilità e gli errori della Guerra dei Sei giorni e «Al-Mujrih» («L’emigrè»,1994, Egitto/Francia) che ha scatenato una controversia religiosa con l’università di El-Azhar, ma era soprattutto un regista conosciuto internazionalmente. Quindi suo malgrado, Chahine è stato cooptato dal regime e sbandierato come «prova della democraticità» dell’Egitto di Mubarak (per chi ci ha creduto o ha fatto finta di crederci).
Opposto il caso di El Batout che nonostante alcuni premi all’estero (prima come documentarista e poi con «Hawi») era abbastanza debole da poter essere sopraffatto ma soprattutto non usava la sceneggiatura. La parola scritta costituisce infatti un limite ed è controllabile: non è stato tanto il tema del film ma il comportamento di El Batout a dover essere punito. La sceneggiatura assume sotto il regime di Mubarak il ruolo di “confine” da non oltrepassare e si configura quindi l’esempio estremo di “sceneggiatura chiusa” secondo la definizione del «Cahier du cinema» del 1985 dove tutto è predeterminato e niente viene lasciato all’estro del regista e all’alea. Vi era poi un ulteriore controllo sul prodotto finale, cioè sul girato del film per controllare se le singole inquadrature e scene corrispondessero effettivamente alla sceneggiatura. Il regime ha tentato di applicare questo metodo di controllo anche a Internet (celebre la definizione di Gamal Mubarak degli internauti come di «amebe bloccate davanti al loro schermo che non sarebbero usciti dalle stanze in cui erano rintanati») senza capire la lezione di McLuhan che «il medium è il messaggio» e che il senso di protezione dato dall’anonimato ha permesso il superamento della paura, sia quella fisica che la paura di sentirsi soli e diversi (a esempio il blog di Ghada Abdel Aal che infrange il “mito” del matrimonio come unica fonte possibile di realizzazione femminile). Parlando poi dei Fratelli Musulmani El Attar sottolinea un’altra peculiare funzione che ha il cinema e più in generale l’intrattenimento oggi in Egitto: quella di “valvola di sfogo” sociale soprattutto per i giovani, moltissimi dei quali sono disoccupati, per cui ridacchia El Attar «voglio proprio vedere come metteranno il velo ad attrici e cantanti». Il vecchio regime e i Fratelli Musulmani sono politicamente la stessa cosa cioè hanno una politica di stampo conservatore ma sono liberisti: sanno che una parte delle entrate proviene dal turismo per cui al di là di dichiarazioni di facciata, non potranno proibire l’alcol o i bikini. Ma a guardare le vignette che circolano non tutti condividono questa opinione.
CHI È AHMED EL ATTAR
Ahmed El Attar si è laureato in Teatro all’Università Americana del Cairo focalizzandosi sulla tematica del linguaggio («ho sempre avuto un approccio molto scettico al linguaggio… sono cresciuto in una prostituzione completa del linguaggio, in un discorso politico e sociale completamente in contrasto con quello che noi tutti stavamo vivendo. Ci hanno detto l’Egitto era un bellissimo posto e sicuro dove vivere, ma appena ci siamo affacciati fuori ci siamo trovati accerchiati dall’ingiustizia sociale e politica») diventando ben presto un punto di riferimento della scena indipendente nei primi anni ’90, caratterizzati in Egitto da un calo di popolarità del teatro pubblico. Il suo primo dirompente lavoro «Oedipus the President» rompe con la narrazione lineare e riscrive il mito tramite riferimenti politici contemporanei, mischiando tre lingue e innovando il design del teatro con il palco dietro al pubblico. Dopo questo spettacolo, El Attar diventa il capo del Fondo di sviluppo della cultura e scrive «The Committee», una feroce critica sull’esercito egiziano che gli procura gli strali della censura di Stato e una programmazione… in Oman. A questo punto si trasferisce a Parigi per un master in Management Culturale alla Sorbona, dove compone «Life is Beautiful or Waiting for My Uncle From America» (2000) un pezzo di teatro dell’assurdo basato su un uso massiccio dell’iterazione, con parole inventate e una struttura grammaticale in piena libertà; acclamato in Egitto, Germania, Oman e Libano. A questo sono seguiti «Mother I want to be a Millionaire» (2004) «Othello, or Who’s Afraid of William Shakespeare» (2006) e «Fuck Darwin, or How I’ve Learned to Love Socialism» (2007) con cui vince il premio come miglior attore al Festival di teatro sperimentale del Cairo. Nel 2009 El Attar inizia a scrivere il suo lavoro più famoso «On the Importance of Being an Arab» presentato in anteprima alla Biennale di Sharjah: una performance di 40 minuti in cui el-Attar seduto su una sedia su un mattone di cemento mischia conversazioni telefoniche sul discorso di Barack Obama ai preparativi per il suo matrimonio, mentre alle sue spalle in una proiezione-video scorrono lettere d’amore, manoscritti incompiuti e lettere ai suoi genitori, senza alcuna correlazione fra i movimenti del corpo e le parole. Grazie a questi lavori El Attar viene definito dall’edizione araba del «Newsweek» come una delle personalità che hanno maggiormente influenzato il cambiamento nel mondo arabo ed è attualmente membro di diversi consigli internazionali e comitati consultivi tra cui Femec, Forum Euroméditerranéen des Cultures; è il generale manager di Emad el din Foudation e fra gli organizzatori del Dcaf (Downtown Contemporary Arts Festival) festival multidisciplinare dedicato alle arti contemporanee che ha lo scopo esplicito di riportare l’Egitto sulla scena culturale globale, in questi giorni di scena al Cairo.
VIDEO
http://www.formacinema.it/index.php?option=com_content&view=article&id=240:ahmed-el-attar&catid=78:egitto&Itemid=212

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