Grandi Opere: arrivano gli aiuti di Stato

articoli di Franco Astengo, Rete Italiana Pace e Disarmo, di Anna Donati e Stefano Lenzi (ripreso da Sbilanciamoci), a seguire “Una nota congiunta delle associazioni di protezione ambientale al Governo Draghi”

DISTANZE – Franco Astengo

Quaranta miliardi di soldi pubblici per il patrimonio di 3.500 imprese.

Il serbatoio del Tesoro gestito da Cassa Depositi e Prestiti è pronto.

Sottoscriverà prestiti subordinati a tassi di favore ed entrerà nel capitale delle aziende disposte ad aprirsi agli investitori.

Una massa mai vista di aiuti di Stato.

Un elenco di 3.500 imprese che sulla carta potrebbero accedervi.

Sono questi gli elementi principali dell’operazione che dovrebbe decollare nei prossimi giorni coltivando l’ambizione di rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese italiane di media dimensione, quelle che nel 2019 avevano almeno 50 milioni di euro di fatturato.

Obiettivo: stimolare una massa adeguata di investimenti per far passare le aziende da “medie” a “grandi” (troppe le aziende “medie” in Italia, una distorsione frutto di scelte passate).

Commenta Paolo Vetta, responsabile mercato corporate BNL “Fino ad adesso le aziende hanno guadagnato tempo, gestendo le difficoltà con nuovi debiti. Ora i nuovi strumenti permettono loro di intervenire sulla solvibilità, non solo sulla liquidità”.

Il tema, allora, dovrebbe essere quello della crescita e, in questo senso, possono essere possibili alcune osservazioni.

L’ osservazione principale riguarda gli obiettivi di questa “richiesta di crescita”: siamo di fronte, per molti settori, ad una necessità stringente di fronteggiare l’emergenza e si stanno scavando fossati ancora più ampi ben oltre il nostro ambito ormai ristretto alla “periferia dell’Impero”.

Da questo punto di vista, del fossato in chiave localistica, il divario fondante rimane quello tra Nord e Sud: ne ha scritto Isaia Sales su “Repubblica” auspicando un massiccio intervento pubblico in quella direzione e richiamando una “strategia che inglobi il Sud” evocando anche i livelli di investimento che, a suo tempo, la Germania Ovest fu in grado di dirigere verso l’Est nella fase della riunificazione.

Entrambi i punti toccati: quello dell’intervento della Cdp verso le banche e la questione del divario Nord/Sud non possono che far parte di un’analisi riguardante la debolezza strutturale seguita all’abbandono della capacità di programmazione e intervento pubblico dell’economia nei settori strategici.

Non pare proprio che il “Recovery Plan” nelle diverse versioni affronti questo nodo strategico.

Negli anni trascorsi si arrivò anche a discutere di una “nuova IRI” : adesso la situazione indotta dall’emergenza sanitaria ci ha portato alla determinazione tradotta, come già ricordato, dal Ministero dell’Economia in un decreto attuativo di una misura (quella dei 40.000 miliardi) già introdotta dal Decreto Rilancio del maggio 2020.

Siamo però lontani da un visione di capacità programmatoria dell’intervento pubblico in economia inserito all’interno di un quadro internazionale all’altezza dell’emergenza e della prospettiva.

Stiamo osservando un quadro di mutamento dello scenario internazionale e una sorta di “assunzione di prevalenza”(per non usare “egemonia”) da parte di super potenze private: era già successo con le compagnie petrolifere, che si sono mosse come Stati (con diplomazie, 007, milizie), è successo con le banche che hanno in pugno il debito degli Stati e di conseguenza gli Stati. Succede oggi con le imprese tecnologiche (comprese quelle delle tecnologie ambientali) e farmaceutiche che quasi “nazioni sovranazionali” stanno entrando a grande velocità in settori finora riservati agli Stati (ne scrive Danilo Taino sulla “Lettura del Corriere della Sera” del 28 marzo).

In questo quadro si delinea meglio il confronto USA/Cina (anche se gli attori in campo non fanno pensare a un immediato ritorno al bipolarismo) e il tentativo della nuova presidenza USA di riprendere il filo di una sorta di “ciclo atlantico”.

In realtà il processo di marginalizzazione di intere aree del mondo appare in atto con ancora più forza rispetto al recente passato e la debolezza della nostra economia ci fa apparire nel novero delle vittime di questo nuovo processo in crescita delle grandi diseguaglianze .

Torniamo allora ai 40 miliardi di soldi pubblici: se questo flusso di denaro sarà limitato – appunto – a crescite patrimoniali e non si determinerà un riavvio di flussi di investimento in settori strategici e se questo flusso non sarà introdotto all’interno di sistema di intervento economico, produttivo, tecnologico a dimensione sovranazionale il risultato sarà quello di rimarcare la nostra piccolezza e la nostra estraneità.

Le questioni in ballo appaiono essere essenzialmente due:

1) quella della programmazione e dell’intervento pubblico in economia;

2) quella della collocazione del Paese nel contesto sovranazionale (perché di questo sembra trattarsi in luogo del “globale”).

Stiamo uscendo dal ciclo dell’austerity seguito alla crisi della globalizzazione con una crescita del divario a tutti i livelli.

Una sinistra che intendesse ricostruirsi dovrebbe muoversi sul filone del progetto economico e sociale, dell’inserimento nel contesto sovranazionale con l’obiettivo non solo di ridurre gli squilibri ma di proporre un diverso modello di “civiltà” non soltanto misurato sulla conservazione (dove potrebbe sfociare, invece, una sorta di “esigenzialismo ambientalista” oggi molto di moda) ma, nella coscienza dell’idea di “limite”.

Serve una coscienza da tradurre in progetto politico per metterci in grado di combattere sul doppio fronte della transizione ambientale e tecnologica.

Attenzione: la transizione ambientale e tecnologica si presenta come ampio terreno di caccia per le lobbies foraggiate dalle grandi concentrazioni “nazionali/sovranazionali” (ci pensino anche coloro che si stanno impegnando nei vari movimenti: esiste sempre il rischio di lavorare per il “Re di Prussia” se non si è capaci di star dentro a un quadro complessivo di trasformazione politica, economica, sociale a livello sistemico).

Una transizione effettiva, quella ambientale e quella tecnologica, che non può quindi essere intesa alla stessa stregua del come la valuta e la considera il governo Draghi

La visione capitalista dell’ambiente e della tecnologia si sta affermando con l’assoluto dominio delle superpotenze: Stati e multinazionali assieme e contro.

Forse tra “liberismo statalista” e “liberismo tecnologico” sarebbe di nuovo il caso di parlare di “terza via”.

Sicuramente non può trattarsi del viottolo tracciato dai 40 miliardi destinati a rimpolpare qualche patrimonio privato ben sostenuto da azioni lobbistiche e corporative esercitate su scala domestica.

 

 

L’eterno ritorno del Ponte dei desideri (irrealizzabili) – Anna Donati, Stefano Lenzi

Con la definizione del PNRR alle porte si torna a parlare insistentemente dell’attraversamento stabile dello Stretto di Messina. Un’opera inutile e dannosa per i suoi costi esorbitanti, gli elevatissimi rischi ambientali, le difficoltà di finanziamento e realizzazione. Sono ben altre le priorità per il Sud.

Torna di moda l’attraversamento stabile sullo Stretto di Messina. Sono mesi che la grancassa si è rimessa in moto, e il Parlamento lo ha richiamato anche nel parere approvato negli scorsi giorni dall’Aula della Camera sul PNRR dell’ex Governo Conte, che nelle prossime settimane sarà rivisto dal Governo Draghi. Non era sfuggito agli ambientalisti, del resto, che anche nel Parere della Camera dei Deputati di ottobre 2020 sulle Linee Guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) fosse stato incluso un richiamo alla possibilità di inserire tra i progetti proprio quello dell’attraversamento stabile nello Stretto.

Il 31 marzo, nel corposo parere votato dall’Aula, si chiede che le “soluzioni tecniche ottimali contenute nello studio della commissione sull’attraversamento stabile e veloce dello Stretto di Messina”, istituita presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (l’ex MIT-Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti), “siano trasmesse subito al Parlamento ai fini dell’approvazione del parere; rispetto agli scenari (ponte o tunnel) si valuti se e quali opere e interventi possano essere realizzati alle condizioni previste dal PNRR.” Con queste parole la maggioranza parlamentare vuole evidentemente fare pressione sul Governo Draghi e il Ministro Giovannini affinché, senza rigore e approfondimenti, decidano subito per l’attraversamento stabile tra Scilla e Cariddi.

Nell’estate 2020 si era riaperto il dibattito con la proposta (non nuova in verità) di realizzare un tunnel sottomarino, ovviamente considerato dai proponenti come facile, sicuro, rapido ed economico da realizzare. Anche la Saipem si era candidata a proporre subito una soluzione di attraversamento sottomarino dello Stretto di Messina tramite un tunnel galleggiante, sul modello degli oleodotti e dei gasdotti costruiti nel mondo. L’allora Ministra De Micheli, a seguito del dibattito che si era riaperto, aveva istituito ad agosto 2020 presso il MIT una commissione di esperti per valutare la fattibilità tra tunnel in alveo, tunnel flottante e ponte sullo Stretto di Messina.

Il 15 marzo scorso è trapelata poi la notizia che il nuovo Ministro Giovannini avrebbe chiesto alla Commissione sull’attraversamento stabile dello Stretto di Messina costituita dalla Ministra De Micheli di produrre un approfondimento anche sull’opzione zero, valutando l’alternativa alla costruzione del ponte rappresentata dal potenziamento dei servizi traghetti, porti e stazioni ferroviarie. Approfondimento che fa escludere che la proposta possa essere inserita tra i progetti del PNRR che devono essere definiti entro il prossimo aprile, secondo gli standard e il grado di dettaglio richiesti dalle Linee Guida e dal Regolamento per la redazione dei PNRR e nel rispetto del principio del “no significant harm” (nessun danno significativo).

Peraltro, del fatto che il Ponte non possa stare tra i progetti del PNRR, che ricordiamo vanno conclusi entro il 2026 secondo le regole europee, sembrano esserne consapevoli anche i sostenitori dell’attraversamento stabile, i quali hanno già cominciato a virare nelle dichiarazioni sulla necessità di utilizzare i fondi ordinati e quelli per il Mezzogiorno per la sua realizzazione.

Nel 2021 l’attraversamento stabile dello Stretto ha nuovi sostenitori inediti, come diversi esponenti del PD e del Movimento 5 Stelle, che si aggiungono ai tradizionali supporter di Lega, Italia Viva, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Una preoccupante e velleitaria maggioranza trasversale di fautori del progetto. Ma tornano a farsi sentire anche i comitati No Ponte e le associazioni ambientaliste.

 Il rilancio da parte di Webuild del progetto di ponte sullo Stretto

E nella partita entra anche Webuild (la grande azienda delle costruzioni nata nel 2014, già Salini-Impregilo, che ha avviato la fusione con Astaldi), che rilancia la sfida del ponte proprio quando il Governo Draghi si appresta a chiudere entro aprile il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, come richiesto dall’Europa, che deve essere corredato da progetti che siano in una fase avanzata di progettazione e, quindi, immediatamente cantierabili.

È Webuild a mettere online un filmato che finisce su YouTube a metà marzo. Scorrono le immagini del rendering animato del progetto del ponte sullo Stretto di Messina, opera essenziale per collegare l’Italia all’Europa (!) e sfida ingegneristica per rilanciare lo sviluppo del Sud Italia e per il futuro del Paese. La musica è ritmata e si vede un treno correre sulla corsia centrale del ponte ad unica campata a doppio impalcato (ferroviario e stradale), mentre il sottotesto richiama tutti i numeri della sfida ingegneristica che il nostro Paese non dovrebbe perdere: l’opera sarebbe lunga ben 3.300 metri e sostenuta da torri che arrivano a sfiorare i 400 metri di altezza. Si tratta sicuramente di una grande sfida visto che, allo stato delle attuali conoscenze tecniche, il ponte ad unica campata e a doppio impalcato più lungo esistente al mondo è il Minami Bisan-Seto in Giappone, di complessivi 1.400 metri di lunghezza.

Il progetto di Webuild non è altro che la riproposizione del progetto definitivo del 2010 di Eurolink (General Contractor allora capeggiato, non a caso, da Impregilo) che venne abbandonato nel 2013: lo hanno fatto notare in una loro lettera al Governo dieci associazioni di protezione ambientale (FAI-Fondo Ambiente Italiano, Federazione Pro Natura, Greenpeace Italia, Italia Nostra, Kyoto Club, Legambiente, Lipu-Birdlife Italia, TCI-Touring Club Italiano, T&E-Transport&Environment, WWF Italia). La lettera è stata inviata il 26 marzo scorso al Presidente del Consiglio Mario Draghi, al Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili Enrico Giovannini e al Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani.

Il fallimento e i problemi irrisolti del progetto del 2010

Nella lettera sopra richiamata le associazioni ricordano che il progetto definitivo del 2010 elaborato dal General Contractor Eurolink fu abbandonato dal Governo Monti nel 2012, evento a cui seguì nel 2013 la liquidazione della concessionaria Stretto di Messina SpA (ai sensi del Dpcm 15 aprile 2013), dopo che lo stesso Governo allora in carica (con il decreto-legge 187/2012) aveva chiesto ad Eurolink di produrre entro l’1 marzo 2013 approfondimenti tecnici ed economico-finanziari sul progetto definitivo che il General Contractor fece la scelta di non presentare entro il termine indicato, procedendo anche al recesso dal contratto firmato con Stretto di Messina SpA nel 2005.

Nella loro lettera le associazioni fanno notare come sia impensabile che il progetto definitivo del 2010 venga riproposto dopo che è stato motivatamente abbandonato, dapprima dallo stesso General Contractor e poi dallo Stato. Un progetto che già nel 2010 aveva un costo stimato tra i 7,5 e i 9 miliardi di euro, stima che non comprendeva l’aumento dei costi derivato dalle 35 prescrizioni di carattere tecnico e ambientale allora richieste nel parere di Valutazione di Impatto ambientale e dal CIPE. Le modifiche richieste erano sostanziali e, in alcuni casi, di una complessità senza precedenti per un’opera di queste dimensioni, da realizzare in una delle aree più complesse dal punto di vista del rischio sismico e idrogeologico.

Le associazioni richiamano nella lettera i principali problemi irrisolti del progetto del 2010. Oltre a quelli già ricordati sull’elevatissimo e sottostimato costo di realizzazione, dalle osservazioni fatte allora emergeva, tra l’altro, che: a) il ponte a regime sarebbe stato in perdita, e per ammissione degli stessi progettisti, perché il traffico ferroviario era assolutamente insufficiente e quello stradale stimato era solo l’11% rispetto alla capacità complessiva dell’infrastruttura, con il rischio che ai pendolari (la stragrande maggioranza degli utenti) fossero applicati pedaggi altissimi; b) il ponte ad unica campata sarebbe sorto in una delle aree a maggiore rischio sismico del Mediterraneo (come ricordato dal devastante terremoto del 1908 che rase al suolo Messina e Reggio Calabria) e tra le più dinamiche al mondo dal punto di vista geologico per l’incontro-scontro tra la placca africana e quella europea; c) con scavi per un ammontare di 6.800.000 metri cubi, che avrebbero inciso sul delicato equilibrio territoriale dei versanti calabrese e siciliano; d) non tenendo conto che l’opera sarebbe dovuta sorgere in una delle aree a più alta biodiversità del Mediterraneo, dove sono localizzati ben 12 siti delle Rete Natura 2000, tutelati dall’Europa ai sensi delle Direttive Habitat e Uccelli.

Il progetto non può essere inserito nel PNRR Next Generation Italia

Inoltre, le associazioni sostengono motivatamente che il progetto non potrebbe essere comunque incluso tra gli interventi previsti dal PNRR, che devono essere definiti ad un grado di dettaglio e secondo gli standard e i tempi stabiliti nelle Linee Guida della Commissione Europea del 22 gennaio 2021 sui PNRR degli Stati Membri e nel Regolamento (UE) 2021/241, del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza (RRF). Non solo, le regole europee sul PNRR stabiliscono che gli interventi debbano essere conclusi entro il 31 dicembre 2026 e, date la complessità e le difficoltà realizzative, è da escludere che il progetto del ponte possa essere definito e realizzato nei tempi indicati, anche solo grazie alla realizzazione di un lotto funzionale, trattandosi di opera unitaria non frammentabile.

Ben altri sono gli interventi utili al Sud Italia e alle relazioni tra Calabria e Sicilia. Nella lettera viene ricordato che si deve puntare a migliorare la logistica e le reti ferroviarie e stradali del nostro Meridione, favorendo intermodalità tra i diversi vettori e i collegamenti necessari con le infrastrutture portuali e aeroportuali, a cominciare dalla Sicilia e dalla Calabria e nell’area dello Stretto.

Come si può facilmente capire, riproporre il progetto del ponte sullo Stretto di Messina è un azzardo per il nostro Paese, ma lo è ancora di più se si considera che l’Italia è la maggiore beneficiaria in Europa dei fondi messi a disposizione dal meccanismo Next Generation EU, e quindi ha una grande responsabilità nei confronti della UE. La Commissione Europea chiede, infatti, a tutti i Paesi Membri dell’Unione progetti credibili e cantierabili: forzature come quella del ponte sullo Stretto di Messina sarebbero difficilmente comprese ed accettate. Basti ricordare che già negli anni 2000 quando il progetto era stato inserito tra le reti TEN-T europee del corridoio Berlino-Palermo, esso era stato comunque escluso dalla Commissione Europea, per il suo carattere non strategico, dalla possibilità di finanziamenti comunitari.

Continuano a ridursi i servizi di trasporto nell’area dello Stretto

In questi anni, dopo l’abbandono del progetto del Ponte del 2010, l’attenzione di Governo e Parlamento nei confronti dei collegamenti in questa area del Paese e dello stato delle infrastrutture è stata del tutto inadeguata. I collegamenti in traghetto e quelli ferroviari si sono infatti ridotti e non è stata posta alcuna attenzione a come rendere più semplici e veloci gli spostamenti integrando le diverse modalità. Inoltre, lo stato delle infrastrutture nell’area è peggiorato al punto che di recente sono state chiuse gallerie e viadotti autostradali dopo che si erano evidenziati problemi e lesioni nelle strutture.

Sul fatto che sia necessario porsi seriamente il problema di quale siano le priorità per il nostro Meridione, le associazioni, come riconoscono nella lettera, trovano nel Ministro Giovannini un alleato. Sono numerosi gli interventi per migliorare la logistica e le reti ferroviarie e stradali siciliane e calabresi, la mobilità urbana delle città, l’adeguamento e messa in sicurezza delle reti. In questi anni, in realtà, i servizi forniti dai traghetti e dalle ferrovie sono stati ridotti e c’è bisogno di interventi urgenti su infrastrutture che devono essere messe in sicurezza e adeguate (per carenze nella progettazione ed esecuzione dei lavori o per scarsa manutenzione), pensando nel contempo a velocizzare le relazioni e a favorire l’intermodalità a vantaggio di residenti, ospiti e turisti.

A questi interventi necessari e urgenti vanno dedicate le risorse. E, con esse, le energie progettuali e politiche per il rilancio e la rigenerazione del Mezzogiorno italiano.

da qui

 

 

Il Recovery Army – Rete Italiana Pace e Disarmo

 

Sorpresa nell’uovo di Pasqua: una parte dei fondi del Recovery Plan verrebbe destinata per rinnovare la capacità e i sistemi d‘arma a disposizione dello strumento militare. Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che la Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta.

Ad aprire a questa possibilità è stato il Parlamento, a quanto risulta dalle Relazioni definite e votate in questi giorni dalle Commissioni competenti.

Nel testo licenziato dalla Camera si raccomanda di “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.

Per il Senato “occorre, inoltre, promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”.

Viene inoltre ipotizzata la realizzazione di cosiddetti “distretti militari intelligenti” per attrarre interessi e investimenti.

Diversamente dalle bozze implementate dal precedente Governo, in cui l’ambito militare veniva coinvolto nel PNRR solo per aspetti secondari come l’efficienza energetica degli immobili della Difesa e il rafforzamento della sanità militare, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) potrebbe quindi destinare all’acquisizione di nuove armi i fondi europei per la rinascita dell’Italia dopo la pandemia.

Un comparto che, è bene ricordarlo, già riceverà almeno il 18% (quasi 27 miliardi di euro) dei Fondi pluriennali di investimento attivi dal 2017 al 2034.

Le indicazioni inviate al Governo derivano da dibattiti nelle Commissioni Difesa della Camera e del Senato che hanno approvato all’unanimità i pareri consultivi relativi. Ciò evidenzia un sostegno trasversale all’ipotesi di destinare i fondi del PNRR anche al rafforzamento dello strumento militare.

Addirittura alla Camera i Commissari hanno concentrato il loro dibattito sulla “opportunità” di accrescere ulteriormente i fondi a favore della spesa militare fornita dal Piano. Da notare come il rappresentante del Governo abbia sottolineato come i pareri votati “corrispondano alla visione organica del PNRR” dello stesso esecutivo Draghi, che dunque ritiene che la ripresa del nostro Paese  realizzare anche favorendo la corsa agli armamenti.

Anche se green le bombe sono sempre strumenti di morte, non portano sviluppo, non producono utili, non garantiscono futuro.

La Rete italiana Pace e disarmo denuncia la manovra dell’industria bellica per mettere le mani sui una parte dei fondi europei destinati alla Next Generation.

Inascoltate le associazioni pacifiste, spazio solo ai produttori di armi.

Nel corso della discussione di queste settimane sono stati auditi rappresentanti dell’industria militare (AIAD, Anpam, Leonardo spa) mentre non sono state prese in considerazione le “12 Proposte di pace e disarmo per il PNRR” elaborate dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e inviate a tutte le Commissioni competenti. Per tale motivo chiediamo ora al Governo che le proposte della società civile fondate sulla costruzione della convivenza e della difesa civile nonviolenta (con un impegno esteso alla difesa dell’occupazione in un’economia disarmata e sostenibile) siano ascoltate, valutate e rese parte integrante del nuovo PNRR che l’esecutivo dovrà elaborare, spostando dunque i fondi dalla difesa militare.

La produzione e il commercio delle armi impattano enormemente sull’ambiente. Le guerre (oltre alle incalcolabili perdite umane) lasciano distruzioni ambientali che durano nel tempo.

 

Ne consegue che la lotta al cambiamento climatico può avvenire solo rompendo la filiera bellica e che il lavoro per la pace è anche un contributo al futuro ecologico.

Occorre quindi una nuova politica estera italiana ed europea che abbia come obiettivo la costruzione di una comunità globale con un futuro condiviso, riprendendo il progetto delle Nazioni Unite volto “a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” e di collaborazione tra i popoli come elemento dominante delle relazioni internazionali.

La nonviolenza politica è lo strumento e il fine che bisogna assumere. Per questo è prioritario orientare il rilancio del nostro Paese ai principi ed ai valori della pace: il Piano deve essere l’occasione per investire fondi in processi di sviluppo civile e non sulle armi. “Non c’è un mondo di ieri a cui tornare, ma un mondo di domani da far nascere rapidamente”: così è scritto nell’introduzione al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

La Rete Italiana Pace e Disarmo vuole davvero che Il mondo di domani, per garantire un futuro alle nuove generazioni, sia basato su uno sviluppo civile e non militare.

Il Mahatma Gandhi indicava l’unica strada possibile “o l’umanità distruggerà gli armamenti, o gli armamenti distruggeranno l’umanità”. Non possiamo tollerare che nemmeno un euro dei fondi destinati al futuro ecologico venga invece impiegato per mettere una maschera verde al volto di morte delle fabbriche d’armi. L’umanità ha bisogno di pace e di un futuro amico.

da qui

 

Una nota congiunta delle associazioni di protezione ambientale al Governo Draghi

Dieci associazioni di protezione ambientale chiedono al Governo Draghi

di “resistere alle pressioni politiche e delle imprese interessate

alla costruzione dell’opera” che vogliono il rilancio del progetto del

ponte sullo Stretto di Messina (abbandonato nel 2013) e alla richiesta

che l’intervento venga inserito nel PNRR.

Le associazioni intervengono, anche, a sostegno della posizione del

Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile Enrico

Giovannini che sta valutando le alternative sull’attraversamento dello

Stretto sino all’opzione zero.

L’argomentata lettera è stata inviata, oltre che al Ministro

Giovannini, al Presidente del Consiglio Mario Draghi e al Ministro

della Transizione Ecologica Roberto Cingolani da FAI – Fondo Ambiente

Italiano, Federazione Pro Natura, Greenpeace Italia, Italia Nostra,

Kyoto Club, Legambiente, Lipu – Birdlife Italia, TCI – Touring Club

Italiano, T&E – Transport & Environment, WWF Italia. Quattro le

motivazioni di carattere giuridico, economico-finanziario, tecnico,

ambientale sostenute dalle associazioni.

 

Valutazioni delle alternative e PNRR – Le associazioni condividono la

posizione assunta dal ministro Giovannini a metà marzo che, a quanto

risulta, ha chiesto alla Commissione, costituita dalla Ministra De

Micheli nell’agosto 2020 sull’attraversamento stabile dello Stretto di

Messina, di produrre approfondimento anche sull’opzione zero,

valutando anche l’alternativa alla costruzione del ponte costituita

dal potenziamento dei servizi traghetti, porti e stazioni ferroviarie.

Approfondimento che fa escludere che la proposta possa essere inserita

tra i progetti del PNRR che devono essere definiti entro il prossimo

aprile, secondo gli standard e il grado di dettaglio richiesti dalle

Linee Guida e dal Regolamento per la redazione dei PNRR e nel rispetto

del principio “no significant harm” (nessun danno significativo).

 

L’abbandono del progetto del 2010 – Le associazioni ricordano al

Governo, a proposito del rilancio del progetto del 2010 del General

Contractor Eurolink (capeggiato da Impregilo), avvenuto a metà marzo,

da parte del Webuild (società composta da Impregilo-Salini e da

Astaldi) di un ponte sospeso ad unica campata della lunghezza di 3.300

metri, sostenuto da torri alte 400 metri. E sottolineano che quella

proposta fu abbandonata dopo che il GC Eurolink non produsse, entro il

termine dell’1/3/2013 stabilito dall’allora Governo Monti, gli

approfondimenti economico-finanziari e tecnici richiesti, recedendo

dal contratto con la concessionaria Stretto di Messina SpA, portando

il Governo allora in carica ad abbandonare il progetto e all’avvio

della procedura di liquidazione di SdM SpA.

 

I problemi irrisolti del progetto del 2010 – Le associazioni osservano

che già nel 2010 il progetto del ponte aveva un costo stimato al

ribasso di 7.5 – 9 miliardi di euro, che però non considerava le 35

prescrizioni di carattere tecnico e ambientale allora richieste nel

parere di Valutazione di Impatto ambientale e dal CIPE. Le modifiche

richieste erano sostanziali e in alcuni casi di una complessità senza

precedenti per un’opera di queste dimensioni, da realizzare in una

delle aree più delicate da un punto di vista del rischio sismico e

idrogeologico. Dalle carte del progetto definitivo del 2010 emergeva

che: a) il ponte a regime sarebbe stato in perdita, per ammissione

degli stessi progettisti perché il traffico ferroviario era

assolutamente insufficiente e quello stradale stimato era solo l’11%

rispetto alla capacità complessiva dell’infrastruttura, con il rischio

che i pendolari (la stragrande maggioranza degli utenti) fossero

applicati pedaggi altissimi; b) il ponte ad unica campata sarebbe

sorto in una delle aree a maggiore rischio sismico del Mediterraneo

(come ricordato dal devastante terremoto del 1908 che rase al suolo

Messina e Reggio Calabria) e tra le più dinamiche al mondo dal punto

di vista geologico per l’incontro-scontro tra la placca africana e

quella europea; c) con  scavi per un ammontare di 6.800.000 metri

cubi, che avrebbero inciso sul delicato equilibrio territoriale dei

versanti calabrese e siciliano; d) non tenendo conto che l’opera

sarebbe dovuta sorgere in una delle aree a più alta biodiversità del

Mediterraneo, dove sono localizzati ben 12 siti delle Rete Natura

2000, tutelati dall’Europa ai sensi delle Direttive Habitat e Uccelli.

Lavorare subito per le alternative e per migliorare i servizi –  Le

associazioni chiedono al Governo un confronto per individuare gli

interventi veramente necessari per migliorare la logistica e le reti

ferroviarie e stradali siciliane e calabresi, ricordando come in

questi anni i servizi forniti dai traghetti e dalle ferrovie siano

stati ridotti e come ci sia bisogno di interventi urgenti su

infrastrutture che devono essere messe in sicurezza e adeguate (per

carenze nella progettazione ed esecuzione dei lavori o per scarsa

manutenzione), pensando nel contempo a velocizzare le relazioni e a

favorire l’intermodalità a vantaggio di residenti e turisti.

Le Associazioni concludono la loro lettera, facendo notare al Governo

che, nel momento in cui l’Italia è la maggiore beneficiaria in Europa

dei fondi messi a disposizione dall’Europa con lo strumento Next

Generationi EU, si debba mantenere saldo l’orientamento a presentare

progetti credibili e cantierabili, respingendo ogni forzatura per

proposte come quella del ponte sullo Stretto di Messina, non

sufficientemente motivate, che non passerebbero il vaglio dell’Europa.

 

Per contatti

WWF Italia Via Po 25/C 00198 Roma -ufficiostampa@wwf.it

Mob. +39 340 9899147 / Mob. +39 329 8315718  / +39 334 6151811

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