Nicaragua: domani, un giorno, sorgerà…

… un nuovo sole.

Breve diario di una passeggiata a Managua e riflessioni conseguenti

di Bái Qiú’ēn

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (George Orwell, La fattoria degli animali)

Di mostri ne abbiamo generati abbastanza (Umberto Eco, 1983)

ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza (Antonio Gramsci)

Da Managua, con cariño y esperanza (Spes, ultima dea).

Non molto tempo fa, un carissimo amico ci aveva fatto rilevare che, secondo lui, stavamo sprecando il nostro tempo. Con un realismo da fare invidia a Sancho Panza, uomo pieno di senso pratico e di prudenza, ci parlava di mulini a vento e probabilmente non aveva tutti i torti. Eppure, una rivoluzione con una forte spinta umanista (l’ultima del XX secolo) è stata ben presto tradita da coloro che avrebbero dovuto riprenderla nel XXI secolo in nuove e migliori condizioni (senza una guerra, senza un blocco economico-commerciale e con un notevole sostegno economico da parte del Venezuela di Hugo Chávez). La nostra unica arma è la parola e, per quanto scavi solo relativamente, da vecchie talpe non possiamo e non siamo disposti a rinunciarvi. Per pura utopia o perché nati sotto il segno del Capricorno (testa dura a prescindere), o per entrambe le cose, non siamo ancora disposti a porre termine alla nostra battaglia per snebbiare le menti. Cercare di raccontare cosa sia davvero il Nicaragua di oggi, fuori dalla facile demagogia e dalle frasi fatte della retorica populista, capaci di tranquillizzare il cuore ma che non concimano il cervello, e sperare (utopia, appunto) che sia davvero possibile costruire un mondo nuovo, seppure nel piccolo territorio di un Paese del Centro America sempre più spopolato, ci fa sentire ancora vivi.

***

«Nos vemos mañana, manito». «Si Dios quiere, chele».

Negli anni Ottanta del secolo scorso era sufficiente nominare il sandinismo per suscitare un sentimento di rispetto, di entusiasmo e di solidarietà immediata sia in una parte importante della società nicaraguense sia all’estero. E, come moltissimi altri, ci eravamo illusi che quel sogno post-sessantottesco fosse davvero realizzabile, per quanto a parecchi chilometri dal nostro Paese d’origine. L’impossibile si stava concretizzando sotto i nostri occhi: giorno dopo giorno, si stava creando un’opera d’arte (vero tableau vivant) che si chiama rivoluzione. Errori forse inevitabili a parte, nulla a che vedere con il socialismo reale dell’Est europeo e ancor meno con una visione stalinista-cossuttiana della società.

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«Vos crees que porque el zopilote caga blanco es albañil»*.

Nelle ultime parole del comandante dell’aereo, appena atterrati a Managua, si percepisce la realtà al di là della propaganda: «Si informano i signori passeggeri che in Nicaragua è obbligatorio l’uso della mascherina». Per quale motivo questo obbligo, se il Governo insiste che tutto va bene con la pandemia? A tutti gli effetti, persino nei luoghi chiusi e con assembramenti, tipo bus o supermercati, ben pochi la indossano nonostante il prezzo decisamente popolare: 2 pesos per quella chirurgica (il cambio attuale è circa 36 pesos per dollaro).

Si tratta di poche parole che, nel loro senso più profondo, smantellano completamente la propaganda che recitava e recita: «Il Manifesto si distingue per solerzia. Il valore di ciò che scrive non è rappresentato dalle copie che vende, qualunque blog ha più lettori, figuriamoci i siti online: il valore aggiunto è piuttosto la suggestione che offre un quotidiano che si vorrebbe di sinistra -addirittura “comunista”- e che da sempre attacca i governi socialisti, fornendo il suo sostegno alla guerra di propaganda. Apparentemente combatte Trump, ma nello specifico del Nicaragua si schiera con la destra statunitense che lo sostiene senza che gli si muova un sopracciglio» («Il Nicaragua e la sinistra scomparsa», 9 ottobre 2018). Equazione da manuale KGB: chi critica sta a destra, chi critica è un controrivoluzionario, chi pensa con la propria testa non è di sinistra, men che meno comunista.

In questa sua analisi assai superficiale e facilona, questo nostro allegro propagandista embedded che vive nel passato, in un mondo di fanstasmi che spaccia per realtà, fa un subdolo riferimento alla storia di questo quotidiano, in origine mensile (giugno 1969) fortemente critico nei confronti dei Paesi dell’Est europeo, in primis dell’allora Unione Sovietica («da sempre attacca i governi socialisti»: chissà cosa intende per «socialista»?), dimenticando che l’intero gruppo fu radiato dal vecchio PCI il cui segretario, alcuni anni dopo operò lo «strappo» con Mosca, sulle medesime basi critiche. Ma soprattutto dimentica che un certo Giangiacomo Feltrinelli fece tradurre e pubblicò alla fine del 1957 Il dottor Zivago di Boris Pasternak (scritto nel 1940 ma stampato solo dopo la destalinizzazione, perché proibito dalla censura). Qualche lettore mette in dubbio che, nonostante i suoi limiti e i suoi difetti, «Osvaldo» fosse un rivoluzionario e che, con la sua attività editoriale fece crescere culturalmente e politicamente un’intera generazione?

E che dire di un tal Ernesto Guevara che negli ultimi anni della sua vita difese sempre più esplicitamente la ricerca di un altro modello, di un diverso metodo di costruzione del socialismo, più radicale, più egualitario, più solidale e meno… moscovita? Pure lui al soldo di Washington?

Non è sufficiente dichiararsi anti-statunitensi per essere davvero comunisti. Se ciò fosse vero, che dire di colui che alla metà del secolo scorso inveiva dai balconi contro il complotto delle «potenze demo-pluto-giudaico-massoniche» ed entrò in guerra contro gli Stati Uniti? Era forse un compagno che sbagliava su tutto il resto?

Purtroppo per questo propagandista che, a quanto pare, è l’unico e il solo vero rivoluzionario in Italia (passato tranquillamente dal trotzkismo al più vetero e becero stalinismo cossuttiano e legato a un gruppetto le cui idee ricordano il nazi-maoismo di Franco Freda), è facile rilevare che con troppa facilità condanna senza appello chiunque non creda ciecamente in ciò che lui continua ad affermare come fosse oro colato, blaterando a vanvera contro la sempre più ridotta sinistra pensante, che ha comunque una concezione assai più ampia della dialettica e del confronto. Quella sinistra che si ostina a osservare i fatti con disincanto, senza edulcorarli o nasconderli, poiché ha smesso da tempo di credere nelle favole a lieto fine e già negli anni Trenta era evidente che le condizioni obiettive della costruzione del socialismo reale in un Paese solo (alla faccia dell’internazionalismo) da parte di una classe dirigente iper-burocratizzata stavano sempre più riducendo le articolazioni democratiche e rafforzando gli elementi amministrativo-repressivi del potere. Mentre, per lui, se i fatti contraddicono la sua stessa idillica visione, tanto peggio per i fatti che nasconde sotto il classico tappeto… ovviamente persiano.

Per chiarire la sua forma mentis, un esempio attuale è più che sufficiente: le ragazze e i ragazzi che da alcuni mesi protestano e mettono in gioco le loro stesse vite lottando contro un sistema socio-economico e politico-religioso che definire feudale è davvero poco, per il suddetto propagandista stanno invece tentando di smantellare e distruggere, con l’ovvio sostegno di Washington, una «società secondo un modello di socialismo coranico, che s’ispira ai princìpi originari della comunità arcaica, all’egualitarismo delle tribù beduine, trasformate dal Corano in nazioni» («Iran, la rivolta degli Zoomers», 2 novembre 2022). Rileviamo come al termine marxiano «classe» sostituisca costantemente «nazione, comunità, ecc.» e ignori totalmente il concetto di conflitto di classe. Per il resto, no comment.

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La vida es mierda y el porvenir cerote

Oggi, checché lui ne dica ossevando strabicamente il panorama dall’alto di una stanza di un hotel di lusso (tutto spesato, viaggio compreso) e vedendo solo ciò che vuole vedere, ci fa pena passeggiare per le vie e le piazze di Managua e un nodo ci sale alla gola nel vedere solo facce imbronciate, fronti corrugate, occhi che guardano in un vuoto altrove e che, essendo lo specchio dell’anima, esprimono un’infinita tristezza interiore. Oltre all’evidenza della drastica diminuzione del traffico in una città che fino a pochi anni fa era costantemente ingorgata, le persone camminano con le spalle ricurve, come sotto un peso eccessivo da portare controvoglia, come se le coscienze fossero del tutto annullate, assorbite da un’entità superiore. Sembra che neppure i volatili abbiano più molta voglia di intonare le loro melodie canore: «Antes que nazca el día los pájaros del monte nos dan su melodía los güises y zenzontles» (Misa campesina). Soltanto i perros callejeros continuano ad abbaiare imperterriti, senza un attimo di sosta.

Sebbene gli psicologi affermino che la tristezza è la meno “sociale” tra tutte le emozioni, in quanto personale e singola, difficilmente si sentono le note di una qualsiasi canzone provenire da una radio a tutto volume dall’interno delle abitazioni, come accadeva fino a pochi anni fa. Mentre camminano, in pochi alzano lo sguardo per incrociare quello degli altri. Gli unici che lo fanno, sono i pidelimosnas, gli accattoni sempre più numerosi che ti chiedono qualche peso per sopravvivere e accennano persino a un sorriso. O la miriade di bambinetti e bambinette in età prescolare che ti corrono incontro nella speranza di ricevere un pesito, nella zona della Plaza de las victorias, proprio davanti al lussuoso Hotel Princess.

Neppure dopo l’inaspettata derrota electoral del 1990 si percepiva un simile sconforto profondo e generalizzato. Allora si rideva con i giochi di parole, del tipo: «Botaste al Frente», invece di «Votaste al Frente», che si pronunciano allo stesso modo ma hanno un senso ben diverso (esattamente come rilevò Tomás Borge in relazione a «me revelo» e «me rebelo»). Quante volte negli anni successivi ci si ritrovava in strada, si dava fuoco ai vecchi copertoni destartalados dei camion, sparando cohetes con morteros caseros, cantando e ballando tutta la notte con la speranza di un nuovo giorno che doveva presto arrivare (o tornare?). E non mancavano le abbondanti bevute di pessimo guaro, ma che scaldava il cuore (Tayacán, Caballito, Cañita e simili). E se, poi, quella notte di un 18 luglio (in attesa del 19) di un anno che non ricordiamo, un’auto con Tomasito a bordo si fermava e il «comandante Poesia» salutava dal finestrino, era davvero il massimo dell’allegria generale. Oggi, persino i vicini di casa hanno deposto l’eterno sorriso che fino a pochi anni fa era stampato sui loro volti, non hanno più molta voglia di chiacchierare, tanto meno di discutere, seduti nel porche della loro abitazione, limitandosi a salutare i passanti con un gesto della mano e nemmeno riescono più a divertirsi per un innocente gioco di parole. «¿Qué hace un pato con una pata?». Che cosa fa un papero con una papera? Oppure, in alternativa: che cosa fa un papero con una zampa?

«¡Me vale verga d’ese pato!» è l’immancabile espressione non verbale che compare sui loro volti ormai spenti e assenti. Sanno bene che quel pato che vive barricato a El Carmen non è in buona salute e arranca, continuando a mal governare, sempre più in rotta di collisione con la sua pata, come si è visto in diretta televisiva il 31 dicembre 2022.

Da una casa le cui pareti esterne, realizzate con grezze assi di legno e rabberciate alla meglio, con svariate tinteggiature sovrapposte di vari e improbabili colori che poco assomigliano a una tela di Piet Mondrian, oltretutto parzialmente scrostate dalle intemperie e dal tempo, verso mezzogiorno esce una voce femminile, lievemente salmodiante e con frequenti alti e bassi nei toni, a seconda delle parole che pronuncia: «Buenas tardes, Compañer@s; Queridas Familias de esta Nicaragua Nuestra, de Bendición, amplias Bendiciones, múltiples Bendiciones, Magníficas Bendiciones. También de Milagros, porque la Bendición genera Milagros, y cuando recibimos esos Dones Milagrosos tenemos que expresar profundo Agradecimiento, y comprometernos a caminar con esos Dones Milagrosos, creando los Nuevos Tiempos» (Rosario a Multinoticias di Canal4, 2 gennaio 2023). Una specie di predicatrice evangelica che dal pulpito televisivo parla quotidianamente di Fede e di Speranza come se conoscesse davvero il significato profondo di questi concetti teologici. Scordando opportunamente la Carità della trilogia, desaparecida chissà dove, sepolta sotto una montagna di parole che suonano false come una moneta da due pesos.

Oltretutto, le parole della pata relative alla Fede suonano stranamente assai simili a quelle del cardinale Fabrizio Ruffo che con le sue turbe di sanfedisti sconfisse e massacrò i giacobini napoletani nel 1799: «Dio, Patria e Famiglia» (non necessariamente in questo ordine). Quelle sulla Speranza trasportano l’ascoltatore in un futuro prossimo venturo a portata di mano, subito dietro l’angolo, ma il cui avvento si sposta sempre più avanti nel tempo, poiché il Satana del Nord fa di tutto per ritardarlo. Ci vuole sempre un Satana: ottimo paravento per le colpe e le responsabilità che non si vogliono ammettere.

Tra i vicini di casa, Fulana de Tal è morta per Covid, Mengano è andato chissà dove all’estero, Zutano non si sa che fine abbia fatto… La tristezza nasce dalla comune consapevolezza della realtà attuale e dalla rassegnazione di non essere in grado di poter fare qualcosa per mutarla.

Persino i bambini e le bambine, che avrebbero il diritto di vivere spensierati nei loro giochi e nelle loro infantili fantasie, sembrano contagiati da questa cappa depressiva che opprime gli adulti fino a schiacciarli, i quali spesso e volentieri si lamentano: «Ando con nervios», sono teso, ansioso, inquieto (stando ai dati ufficiali del MINSA, ben 256.633 persone soffrono di ipertensione cronica). L’aria di precarietà che si respira è forse più inquinante di quella dei neri fumi dei veicoli sermpre più scarsi e più tossica dei tappi di Coca-Cola usati per mantenere acceso il fuoco sul quale riscaldare un po’ di gallopinto per la cena (costano meno della legna) e distruggono i polmoni con la diossina, demolendo il cervello e impedendo di pensare che la realtà si possa mutare se la si affronta in tanti, uniti e senza rinchiudersi nel proprio io, rimpiangendo i bei tempi andati…

Parecchi anni fa, negli anni della guerra, uno psichiatra nicaraguense di formazione basagliana, come la locale legge sulla psichiatria (ricalcata sulla nostra 180/1978) ci parlò della situazione mentale che vivevano tanti ragazzi e ragazze tornati dall’obbligatorio Servizio Militare Patriottico. Ci raccontò alcuni episodi che definì frequenti (o, forse, comuni): dopo uno scontro a fuoco (refriega) in una località del Nord (Las Segovias), un paio di BLI dissero al loro responsabile che un contra era rimasto ferito e lo avevano lasciato dov’era. «Andate a prenderlo e portatelo subito qui per curarlo». Aggiungendo il comando: «Intero!». L’ultima parola era indicativa dello stato d’animo di quel piccolo gruppo di cinque combattenti addestrati alla guerra non convenzionale (guerriglia), lanciato a combattere un vero e proprio esercito finanziato e addestrato da Washington. I BLI erano i Batallones de Lucha Irregular. Non era facile, aggiunse quello psichiatra, riportarli all’esistenza anteriore. Alcuni reduci si svegliavano nottetempo dopo incubi terribili e spesso colpivano violentemente la moglie, credendola un contra. Per quanto difficile, la maggior parte dei casi si riusciva a riportarli nella normalità. Qualunque cosa voglia dire questo termine.

Oggi è un popolo intero a soffrire interiormente per la perdita di un sogno nel quale ha fermamente creduto e per il quale si è sacrificato e ha lottato rischiando la propria vita e quella dei propri cari. Questo è ciò che si percepisce, semplicemente osservando i volti delle persone. Troppi psichiatri servirebbero per riportarlo alla normalità. Da quello che i propagandisti embedded definiscono golpe blando, ossia dalle proteste di massa dall’aprile 2018, la società civile è stata letteralmente scardinata: 3.106 ONG nazionali e straniere su 7.227 sono state soppresse, annullate, cancellate, eliminate con un semplice tratto di penna (nella sostanza: assassinate). E, chissà perché, mentre camminiamo lentamente sulla Bolívar, inconsciamente fischiettiamo Dio è morto: «Perchè è venuto ormai il momento di negare / Tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura / Una politica che è solo far carriera / Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto / L’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e ma è col torto…».

In una realtà nella quale pare che nulla possa mutare, persino Lorenzo de’ Medici forse eviterebbe di scrivere «chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza». In un Paese dove l’idea di futuro non è mai esistita (se verso le 8 di sera davi mille dollari a una persona, potevi essere certo che alla mezzanotte non aveva più un centesimo: chissà se domani sarò ancora vivo?), è proprio l’assillo del domani che oggi tormenta e soffoca ogni altro pensiero, impedendo persino quel minimo di tranquillità necessario a una fiammella di ottimismo. Che sempre più persone ricercano inutilmente nel fondo torcibudella di una bottiglia di guarón. (Secondo il rapporto dell’OMS sul consumo alcoolico relativo al 2018, il Nicaragua è il primo Paese dell’area centroamericana).

«Grazie, Signore, per avermi dato un altro giorno di vita», dice davanti allo specchio un anziano personaggio all’inizio di Milagros facendosi il segno della croce (regia di Robert Redford, con Sonia Braga e Rubén Blades). La stessa frase pare che sia pronunciata dai nicaraguensi tutte le mattine, quando aprono gli occhi.

Dal 2018 l’unica cosa positiva che il Potere è riuscito a fare è stato dare a un popolo che ne era del tutto sprovvisto il senso del proprio futuro, purtroppo visto in negativo: «Nos vemos mañana». «Si DOS quiere»**.

Soltanto un esiguo gruppetto di ragazzotti e ragazzotte stazionanti all’angolo di un incrocio, sotto uno dei giganteschi cartelloni sui quali compare la tipica scritta cubitale «El Pueblo, Presidente!» («y Daniel desde un afiche reía en el taquezal») ci pare felice o quanto meno sereno, indossando una maglietta identica per tutti, distribuita dal Potere per il passato Anno Domini e lo slogan «Siempre será 19», malamente copiato dal «Siempre es 26» della Rivoluzione cubana. Omologati all’interno di un manufatto di cotone destinato a sbiadirsi e a sfaldarsi con i ripetuti lavaggi e la cui ottimistica scritta scarsa di fantasia scomparirà in breve tempo. Forse, sono quegli stessi giovani che Pasolini, nell’appunto 67 «Il fascino del fascismo» del romanzo rimasto a livello di abbozzi Petrolio, descrisse come «giovani, che giunti al momento della scelta, decidono di stare con i potenti, di servirli, con lo scopo di partecipare al potere, e un po’ alla volta, magari diventare dei veri potenti anch’essi».

Carlos Arturo Mejía Godoy, suo malgrado oggi esule in Costa Rica, nel gennaio del 1979 compose l’inno del Frente Sandinista contenente un vero e proprio messaggio ideale: «mañana algún día surgirá un nuevo sol / que habrá de iluminar toda la tierra». Quell’ottimismo che permeava i nicaraguensi fino a pochi anni fa, oggi è desaparecido por completo. È praticamente impossibile parlare di politica o di qualunque argomento che possa esservi collegato, anche alla lontana.

Non è più concepibile scherzare e ridere su nulla, come si poteva fare fino a pochi anni fa quando una sera, seduti tra il marciapiede e la strada, in una serata stellata e senza nubi, in direzione di El Carmen si videro lampi e si udirono tuoni (ma, dove eravamo, non cadeva una sola goccia di pioggia): «Chissà cosa starà architettando la Chayo?». Se allora ci fu una carcajada generale (liberatoria), oggi può creare problemi persino dire che prima di partire abbiamo fatto la quinta dose di vaccino, perché, oltre alle varianti, la copertura dura soltanto qualche mese. A mala pena in Nicaragua si è fatta la seconda, da un anno e più, a meno di sei milioni di abitanti, nonostante il Governo abbia ricevuto donazioni per oltre quindici milioni di dosi, lasciandone scadere parecchie e iniettandole ugualmente senza alcuna verifica sull’efficacia o meno (ma dando l’illusione agli pseudo vaccinati di essere protetti).

Il FSLN, l’ex partito della rivoluzione, è degradato rapidamente fino a diventare un macchinario al servizio del progetto personalistico della coppia presidenziale che prevede un futuro assicurato per la successione dinastica al potere, con relativa oligarchia di cortigiani a supporto. I volti dei militanti, quando si accenna a Daniel o al partito, assumono un aspetto triste e sconsolato, a prescindere dalle parole che pronunciano. La comunicazione non verbale spesso afferma il contrario di ciò che esprimono i suoni laringei, per cui non riusciamo a capire a quale stadio di elaborazione della perdita siano attualmente, se a quella della negazione, della rassegnata accettazione passiva o della depressione. Forse in un misto delle tre. Di certo, non all’elaborazione del lutto.

Già l’attento osservatore Charles Darwin nel 1872 descriveva le manifestazioni esteriori della tristezza che, in fondo, sono facili da identificare: «Il bisogno di attivazione scompare e la persona rimane immobile e passiva, oppure di tanto in tanto si dondola avanti e indietro. La circolazione diventa debole; la faccia impallidisce; i muscoli sono flaccidi e le palpebre si abbassano; la testa pende sul petto contratto; le labbra, le guance e la mascella inferiore sono portate in basso dal loro stesso peso» (L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali).

Ciò nonostante, nelle parole dell’inno del FSLN, dopo quattro anni dall’esplosione sociale del 2018, restano le ottimistiche parole: «nuestro pueblo es el dueño de su historia / arquitecto de su liberación». Se si intona questa strofa, poiché non si può decretare per legge l’obbligo di essere felici neppure con la minaccia di essere ritenuti traditori della Patria, l’espressione facciale dell’interlocutore comunica un chiarissimo «¡Ojalá!», magari! La fase della rabbia e della negazione, forse, cova ancora negli animi, sotto le ceneri di una rivoluzione tradita e di un sogno spezzato. Perciò, avendo la testa assai dura, non ci stancheremo di raccontare il baratro in cui è sprofondato il Nicaragua, nella speranza che si possa nuovamente parlare di sandinismo ottenendo la stessa reazione positiva ed entusiasta degli anni Ottanta.

In compenso, se percorrete in auto una trentina di chilometri (chessò tra León e Chinandega), incontrereste almeno sei pattuglie della Policía de Tránsito (stradale), regolarmente protetta da almeno un pao di antimotines superarmati.

Nel corso di una lunga chiacchierata, una carissima amica ci ha chiesto a bruciapelo: «Sei ancora sandinista?». Al che le abbiamo risposto: «¡Sandinista siempre, pero de Sandino y Fonseca!».

Qualcun altro ci ha raccontato un particolare decisamente incredibile (libero il lettore di non crederci): quando un recluso è liberato, per alcuni mesi deve interpretare con convinzione il ruolo di militante del Frente, condizione indispensabile per dimostrare l’avvenuta “riabilitazione” e quindi la possibilità di reinserimento nella società.

***

È assai probabile, se non certo, che la Corte reale e i vari cortigiani che ne fanno parte (divisi nei pro-re e nei pro-regina, l’un contro l’altro armati) non vivano questa situazione psicologica interiore. Non lo sappiamo, ma sappiamo che Orwell concluse la sua “favola” sulla rivoluzione degli animali della fattoria con un’immagine assai significativa: «Quella sera alte risa e canti uscirono dalla casa colonica, e ad un tratto, all’udir tutte quelle voci, gli animali si sentirono presi da curiosità. Che cosa stava succedendo là dentro, ora che per la prima volta gli animali e gli uomini si incontravano su un piede di eguaglianza? […] Che cosa c’era di mutato nei visi dei porci? […] Non c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due». E il nostro propagandista che ha fatto del popolo un feticcio attorno al quale ballare il trescone degli ubriachi, se ne guarda bene dagli impuri contatti con coloro che nella Rivoluzione popolare sandinista continuano a credere sinceramente e per il momento stanno a osservare la trasformazione descritta da Orwell.

* Così recita un modo di dire nicaraguense: lo zopilote è una specie di condor che si nutre di carogne, assai comune soprattutto nelle campagne.

** DOS: iniziali di Daniel Ortega Saavedra. Gioco di parole con Dios.

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