Domenico Caringella – Prevert

Sono entrato nella resistenza per noia. Quella che ti punge la mattina per svegliarti e che ti rimbocca le coperte prima di spegnere la luce.
Non per patriottismo. Non per vendetta. Non per avventura o necessità. Per noia. Perché del francese avevo il fatalismo, forse, ma non la passione.
Nemmeno l’arrivo della guerra, i nazisti a Parigi, il futuro che scoloriva, erano riusciti nell’impresa di variare qualcosa in me e nella mia squallida vita. Con l’invasione la fabbrica di Bagnolet smise di produrre bottiglie, per virare su gavette ed elmi, e il cambiamento si fermò lì. Ci misero poco i tedeschi a regolarizzare tutto. Non me ne accorsi neanche. Tra loro e Callier, il mio caporeparto, non trovai grosse differenze; allo stesso modo non ascoltavano e non pensavano a me e agli altri che si consumavano alle macchine e agli attrezzi.
Fu una mia collega del turno pomeridiano, una giovane vedova che si divertiva a confondere lo sgabuzzino dietro la fabbrica dove scopavamo con le tute a farci da letto, con una suite del Negresco con la riviera fuori dalla finestra ad aspettarla, a parlarmi dei partigiani del “Groupe Dunkerque”.
Mi introdussi, quindi. Riunioni, attese, ancora la noia, strisciante, implacabile.
E fu per noia, ancora, che accettai l’incarico. Che cambiai il mio nome con quello del celebre artista. Che lasciai il reparto saldatura della fabbrica per le cucine della Casa Ufficiali nazi, l’offiziersheim di Rue Feauborg Saint Honorè nel 1° Arondissement. Che imparai i film di Carnè a memoria. Che mi diedi, per un giorno, alla poesia. E che mi imposi di odiare il maggiore Adler, l’ammazza partigiani, quello diventato famoso per la procedura fantasiosa utilizzata per prostrare e annullare le persone, un tritacarne abbigliato da boheme che prevedeva canzoni d’amore della Piaf e di Chevalier in sottofondo, scariche elettriche, rasoi, pallottole nella nuca e sopra tutto la sua voce autocompiaciuta che declamava versi di Prevert.

Presi servizio come cameriere presso la Offiziersheim a dicembre, prima di natale, con la prima neve che copriva le strade e i rumori e l’inverno che incalzava. E l’angoscia, l’apatia, in agguato, sempre, temperata dai racconti delle acque della Yonne che si tingevano del rosso del sangue dei partigiani e dei contadini, sotto gli occhi di Adler, che con letizia premeva il grilletto personalmente, tra un verso e l’altro.
Ci vollero due mesi, di sorrisi, gentilezza, di devozione al tavolo n° 18, quello occupato dallo Sturbmannfürer Adler, perchè lo sentissi chiedermi il mio nome.
– Mi chiamo Jacques Prevert
– Jacques Prevert…come il poeta…
– Come il poeta, maggiore. Proprio così.
– Adoro Prevert
– Conosco personalmente Prevert.
– Quanto?
– Abbastanza da leggere le sue ultime poesie prima degli altri, herr Adler. Recentemente ne ha scritta una a casa di un amico comune, sul foglio di un calendario. E l’ha lasciata sul tavolo, per ringraziare per l’ospitalità e per il pastis della padrona di casa.
– Il foglio…?
– Ce l’ho io, sì
– Sarebbe tanto gentile da mostrarmelo? Il mio ufficio è qui sopra. Può venire domani alle 15,00. Chiedo a lei di spostarsi per evitarle il fastidio di dover mandare qualcuno a prenderlo, o a cercarlo, a casa sua. Capisce quello che voglio dire, vero?
Avevo riservato per quel momento il migliore dei miei sorrisi. Merce rara per chi mi conosceva. E anche per lo specchio che mi guardava tutte le mattine.

Alle tre spaccate, il berretto in mano, mi accomodai nell’ufficio personale del maggiore SS Adler, in Feauborg Saint Honorè. Consegnai il foglio, che portavo piegato nella tasca della mia casacca. Lo aprì, lesse a voce alta il titolo, “La vendetta del fiume”, e si abbandonò alla poesia nello stesso modo in cui l’avevo trovato quando ero entrato, disteso sul canapé disperso tra le note e la voce della Piaf gestite dal grammofono sulla scrivania.
Il ripetersi nel poema della parola sangue, il peso che iniziò ad esercitare su di lui il titolo, la memoria che iniziava a suggerirgli le risposte, lo fecero trasalire. Alzò lo sguardo su di me. Ero ad un passo, ormai. Gli piantai nel petto il coltello che nascondevo nel cappello, fino all’elsa. Restò riverso sul divano giallo.
Quello in cui ho fatto ingresso nella stanza, l’ho guardato leggere in estasi, ho atteso l’attimo e ho pensato che quella poesia era davvero di un Jacques Prevert, perché era mia, è stato, forse, il primo e unico momento in anni e anni in cui la noia, la mancanza di senso in tutto, mi ha dato tregua. Quando l’attendente del maggiore è entrato, era già tornata, ineluttabile e invincibile. Concessi tutto il tempo allo Scharführer di sorprendersi, guardarmi, estrarre la Walther PPK e sparare.
Senza Alcun Rimpianto.

Domenico Caringella

 

 

 

per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it

Clelia

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