«Dominio»

Bruno Lai sull’ultimo libro di Marco D’Eramo

Nei primi decenni del secondo dopoguerra i valori della sinistra (uguaglianza, giustizia sociale, democrazia, diritti, solidarietà) seducevano i giovani ed affascinavano anche molti meno giovani. Gli anni del sessantotto hanno rappresentato la maggior diffusione delle idee di sinistra in tutto il mondo. Come è potuto succedere che, nel giro di qualche decennio, queste idee abbiano perso il loro fascino, la loro capacità di mobilitare studenti, lavoratori, semplici cittadini, ed abbiano lasciato il passo all’egemonia culturale della controrivoluzione neoliberista?

Risponde a questo quesito il denso libro di Marco D’Eramo Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, recentemente pubblicato da Feltrinelli (ottobre 2020).

L’attuale egemonia della destra neoliberista non è casuale, ma è frutto di una vera e propria “controguerriglia” ideologica, teorizzata in modo simile ad un’azione militare. Nel manuale dei Marines USA dedicato a questo tema (Counterinsurgency) si legge: «Le idee sono un fattore motivante. […] Le guerriglie [insourgencies] reclutano l’appoggio popolare attraverso un appello ideologico. […] Le narrative sono i mezzi attraverso cui le ideologie sono espresse e assorbite dagli individui in una società».

La convincente e ben documentata tesi di Marco D’Eramo è che l’attuale egemonia culturale delle destre sia il frutto di una lotta di classe ben pianificata, condotta e vinta dal neoliberismo. Lo conferma il miliardario Warren Buffett che, intervistato dal “New York Times”, nel 2006 dichiara: «Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo».

La destra oggi è egemone perché ha vinto la lotta di classe. «Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione cosiddetta progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari».

Questa guerra per l’egemonia è stata generosamente finanziata dalle più ricche famiglie d’America. Uno tra i primi ad investire in questa guerra ideologica fu John Merril Olin, proprietario di una corporation fortemente inquinante (chimica, armi, soda caustica, defolianti). In pochi anni la Fondazione Olin investì oltre 370 milioni di dollari in borse di studio e altre attività culturali a favore del liberismo più estremo. William Simon, che era stato ministro di Nixon e divenne presidente della Fondazione Olin, parlava di “counter-intellighentsia” (quasi sinonimo di “Counterinsurgency”, controguerriglia), sostenendo che «le idee sono armi – le sole armi con cui altre idee possono essere combattute».

Questa gigantesca battaglia ideologica è stata combattuta in tutti quei campi che influenzano l’opinione pubblica ed i decisori politici: scuole ed università (corsi, dipartimenti, cattedre), libri scolastici e di divulgazione, periodici specialistici e per il largo pubblico, giornali, radio, televisioni, pubblicità, politica. D’Eramo cita le maggiori famiglie di miliardari che hanno investito in questa direzione, impegnando cifre vertiginose. Alcuni nomi: oltre al già citato Olin, Mellon Scaife, Bradley, Coors, Smith Richardson, Koch, a tanti altri. Cognomi forse non particolarmente noti a noi europei, ma che rappresentano le più ricche famiglie d’America, che hanno fondato e finanziato prima poche, poi sempre più numerose istituzioni culturali, i pensatoi, i cosiddetti think tank. Nel 2019 si è giunti a 1871 think tank negli USA, 8248 complessivamente in tutto il mondo.

Avvezzi ad investire denaro per ottenerne cospicui ricavi, i miliardari hanno progettato bene la loro azione. «Come sintetizzò Charles Koch: “Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente” che deve andare dalla “produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica”». Ed il loro scopo, nel corso di questa guerra ideologica, non è soltanto quello di vincere la battaglia delle idee, ma anche – o forse soprattutto – di continuare a realizzare enormi profitti. Per questo scopo le risorse sono state investite con grande oculatezza, sfruttando leggi a favore delle donazioni che i loro stessi think tank avevano teorizzato e fatto emanare. «La bellezza, l’eleganza di quest’offensiva contro la sfera pubblica è che la campagna per smantellare lo stato è condotta con il denaro dello stato. Infatti quasi il 40% (esattamente il 39,6%) del patrimonio delle fondazioni “è sottratto ogni anno al Tesoro pubblico dove il suo uso sarebbe stato (in ultima istanza) deciso dagli elettori. Per esempio, nel 2011 le elargizioni totali da parte delle fondazioni statunitensi ammontarono a 49 miliardi di dollari, ma nello stesso anno i sussidi fiscali alle opere benefiche costarono all’erario Usa 53,7 miliardi di dollari: cioè le beneficenze Usa avevano donato 4,7 miliardi in meno di quanto erano costate al Tesoro Usa, quindi tecnicamente non avevano dato nessun denaro proprio, ma quello altrui, dei contribuenti. È geniale l’idea di usare il denaro di cui lo stato si priva per demolire proprio lo stato».

Le fondazioni hanno finanziato le campagne elettorali di politici di tutti i livelli, a partire dalle presidenziali, sostenendo anche i candidati meno presentabili. Singolare la somiglianza delle vicende di due outsider: Ronald Reagan e Donald Trump. Quando si presentarono alle primarie, l’estrema destra non puntava su di loro perché ritenuti troppo ignoranti, inaffidabili, inadatti al ruolo per il quale correvano. Quando però riuscirono a vincere le primarie, i magnati li assistettero e li “pilotarono” nella loro azione politica. D’Eramo documenta come siano stati “teleguidati” mostrando la coerenza tra dichiarazioni rilasciate dalle principali fondazioni di estrema destra e successive decisioni adottate dai presidenti.

All’inizio, quando danno vita alle prime “fondazioni benefiche”, i miliardari statunitensi vogliono semplicemente ottenere di svincolarsi dai controlli statali (su inquinamento, condizioni di lavoro, sicurezza, ecc.). Intendono difendere la libera impresa e limitare il potere dello Stato. Arrivano presto alla conclusione che il modo più efficace di ridurre la presenza dello Stato sia sintetizzato nel motto: «Starve the beast», «prendi la belva per fame», tagliagli le risorse. E quali sono le risorse dello Stato? Le tasse che pagano i cittadini. Ecco allora che una delle campagne principali delle fondazioni e dei politici di destra diventa la riduzione delle tasse. Ricordate George Bush che invita a leggergli le labbra? Ridurre le tasse per affamare la bestia, per togliere risorse allo Stato ed impedirgli di svolgere i propri compiti a tutela dei cittadini. Dagli anni Ottanta ad oggi negli USA (ma anche altrove) vengono realizzati ripetuti tagli delle tasse, soprattutto per i super ricchi: l’aliquota marginale massima, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, è del 94%. Con Reagan scende al 28%. Ed i tagli continuano con George W. Bush e con Donald Trump, fino ad arrivare a provocare un enorme buco delle finanze federali di oltre mille miliardi di dollari nel 2019.

Una piccola digressione. Prendo spunto dai lavori di George Lakoff, psicolinguista cognitivista. A questo proposito, Lakoff racconta come George W. Bush compia un piccolo capolavoro semantico: comincia a parlare di “sgravi fiscali”. Con questa espressione, apparentemente innocua, riesce ad inquadrare il tema delle tasse nel frame ingannevole più conveniente per le destre liberiste: le tasse sono un peso, un fardello da cui ci si deve liberare, “sgravare”, appunto. Purtroppo l’espressione, più volte ripetuta dal presidente in discorsi pubblici, ed usata anche dal suo staff in ogni occasione, viene ripresa dai media ed anche i politici democratici se ne appropriano, non rendendosi conto che si tratta di un cavallo di Troia semantico. Il risultato finale è che oggi i cittadini più poveri, che beneficerebbero di investimenti sociali da parte dello Stato, cioè dell’utilizzo dei proventi delle tasse, sono spesso favorevoli al taglio della fiscalità, non rendendosi conto di danneggiare così i propri legittimi interessi. Taglio delle tasse significa riduzione dei servizi pubblici, significa aumento della disuguaglianza, perché chi è più ricco potrà ricorrere ai servizi privati, mentre chi è più povero verrà privato anche dei servizi essenziali (sanità, scuola, ecc.).

La battaglia delle idee liberiste è condotta contro le idee di eguaglianza, di solidarietà, di libertà, che erano il patrimonio riconosciuto della sinistra internazionale. Seguo ancora il ragionamento di Lakoff. Se può sembrare strana l’affermazione che i liberisti combattano contro un valore come la libertà, da essi sempre invocata, bisogna chiarire. Anche per gli statunitensi c’è una differenza fondamentale tra libertà “di sinistra”, diciamo così, e libertà liberista. Possiamo considerare “libertà di sinistra” le famose quattro libertà di Franklin Delano Roosevelt, bestia nera dei liberisti. Le quattro libertà, di cui Roosevelt parla nel lontano 1941, sono: libertà di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale), libertà dalla paura. Le libertà liberiste, invece, sono quelle che riguardano le imprese: libertà di intraprendere, di inquinare, di licenziare, di arricchirsi, ecc.

Torno adesso a Marco D’Eramo. A chi si ispirano i miliardari nell’organizzare la loro lotta contro lo Stato? Sembra paradossale, ma si ispirano ad un filosofo italiano, sardo, comunista: Antonio Gramsci. Nella strategia, ovviamente, non certo nei contenuti. In alcuni casi questa ispirazione è documentata. Così per esempio Michail Joyce, che dirige prima la fondazione Olin, poi quella Bradley, secondo la rivista “Forbes” «s’ispirava a Gramsci, voleva realizzare una trasformazione radicale». Così anche Henry Manne, che è riuscito a sostenere, pensate un po’, che le fusioni societarie non abbiano alcun effetto anticompetitivo, con buona pace dei vecchi liberisti come Adam Smith o il nostro Luigi Einaudi. Manne si considera un «imprenditore intellettuale» ed è tra i principali artefici di una importante vittoria strategica del fronte di destra: l’introduzione dell’approccio liberista ed economicista nelle facoltà di legge, mediante l’indirizzo denominato «Law and Economics». Questo approccio riduce il tema della certezza del diritto ad un problema di costi e benefici: «Quante risorse e quanta punizione dovrebbero essere usate per far rispettare i diversi tipi di legislazione? Detto in altre, per quanto più strane, parole, quanti reati dovrebbero essere consentiti e quanti colpevoli dovrebbero restare impuniti»?

Come riesce Manne ad introdurre Law and Economics nelle facoltà di legge? Attraverso un approccio gramsciano! Creando «“un’istituzione parallela [all’università], in cui professori più libertari avrebbero potuto affinare le loro idee senza i compromessi associati alle istituzioni di élite”: ancora un esempio di come la counter-intellighentsia si appropria delle categorie del movimento operaio». L’approccio liberista alla giustizia, che inizialmente non gode di alcun credito presso gli accademici delle facoltà di legge, viene quindi introdotto nelle principali università USA attraverso il finanziamento di programmi di Law and Economics, con una diffusione veramente capillare. Gradualmente chi si forma nei corsi di ispirazione liberista pubblica su riviste finanziate dalle fondazioni, prosegue la sua formazione attraverso borse di studio concesse dalle fondazioni, pubblica libri e fa carriera sempre sotto l’ala protettrice delle fondazioni. Queste nuove leve così formate e coltivate, riescono poi ad occupare posti di rilievo alcuni nelle università, altri nel governo, altri diventano avvocati e giudici, giungendo fino al ministero della Giustizia ed alla Corte Suprema.

Finanziare direttamente i docenti che avrebbero diffuso le idee liberiste è stato fatto già in ambito strettamente economico: è la Fondazione Volcker a pagare gli stipendi di Ludwig von Mises all’università di New York e di Friedrich von Hayek a Chicago. E l’economia, per la controrivoluzione della destra, è fondamentale, è tutto: «nulla della vita umana sfugge all’economia». Soprattutto così come è concepita dai Chicago Boys, che hanno un programma molto ambizioso, quello di costruire «un’interpretazione totalizzante della società e della storia umana […] una vera e propria ideologia».

Anche la scuola, in tutti i suoi gradi, subisce l’aggressione dei neoliberisti: «quella che va sradicata è l’idea che ci si possa aspettare alcunché di positivo dalla collettività, da ciò che è comune, dal pubblico, dallo stato, o dal governo. E va sradicata fin dall’infanzia: dopo è troppo tardi». Ecco allora che la scuola pubblica, che può formare al pensiero critico e può ridurre le disuguaglianze economiche, deve essere destrutturata, spazzata via, e sostituita da scuole private di ogni ordine e grado. Fin dall’asilo nido!

Come si può eliminare, o almeno ridurre fortemente, la scuola pubblica? La soluzione la offre Milton Friedman, uno dei “padri” dei Chicago Boys, con la proposta di voucher erogati annualmente ai genitori (in Italia si parla in genere di “buono-scuola”). Gli Stati (della confederazione USA) si limitano a fissare un livello minimo di istruzione da garantire ai cittadini, non attraverso scuole statali, ma attraverso l’erogazione di un voucher che i genitori decidono dove spendere, acquistando i servizi educativi da scuole private o pubbliche. La proposta è in linea con l’idea, sempre di Friedman, di imposta negativa sul reddito. Si stabilisce una soglia di reddito: chi ha un reddito superiore paga le tasse (imposta positiva); chi ha un reddito inferiore riceve un sussidio (imposta negativa).

Quali sono però implicazioni e sottintesi di questa proposta? La soglia fissata, si badi bene, è una soglia di povertà, quindi il sussidio è un sussidio di povertà! In questo modo, però, lo Stato rinuncia a comprendere (quindi anche a rimuovere) le cause della povertà e si limita a ridurne gli effetti più macroscopici. Ma soprattutto: l’elargizione di questa “tassa negativa” tende a sostituire definitivamente l’erogazione di servizi sociali da parte dello Stato. Assistenza sanitaria, istruzione, assicurazione contro gli infortuni o per la pensione, ecc., tutti questi servizi – considerati essenziali nella tradizione europea di Welfare State, ma anche in quella del New Deal rooseveltiano – saranno erogati dal mercato.

Si potrebbe supporre che non sia un male, perché scuole statali, ospedali pubblici ed altri servizi sociali pubblici potranno continuare ad esistere, sul mercato, in concorrenza con quanto offerto dei privati. Ma non è così. Perché i voucher e l’imposta negativa sul reddito vanno a braccetto con la strategia di progressiva riduzione delle tasse, a cui consegue la riduzione della spesa pubblica. Tutti gli enti pubblici vedranno ridursi il finanziamento da parte dello Stato, e riusciranno ad erogare servizi sempre più scadenti. Nella scuola USA è così da tempo: le scuole e le università statali sono considerate di serie B e garantiscono una formazione di qualità decisamente inferiore a quella delle analoghe istituzioni private, assai care e frequentate dai rampolli delle famiglie più abbienti.

Ma c’è dell’altro. Dove ancora c’è uno Stato sociale ed i servizi pubblici sono efficienti, non è facile indurre i cittadini ad abbandonarli in favore di imprese private, aventi spesso fini di lucro. (In Italia, per esempio, le scuole private sono spesso considerate scuole di recupero, dove si iscrive chi non ce la fa ad affrontare la scuola pubblica, ancora selettiva, a dispetto del dettato costituzionale. In Italia abbiamo ancora scuole pubbliche che garantiscono un livello di istruzione superiore a quello della maggior parte delle scuole private).

E qui entra in gioco un altro tassello della strategia neoliberista: le Parent trigger laws. Gli intellettuali al soldo delle fondazioni di destra affermano da tempo che la scelta dell’istituzione scolastica da far frequentare ai giovani deve essere lasciata ai genitori. Tutte le fondazioni, anche quelle di orientamento più moderato, finanziano la “riforma dell’istruzione” – la chiamano così – volta alla privatizzazione della stessa. In questo modo conquistano l’appoggio dei fondamentalisti religiosi di ogni setta, molto presenti negli USA: questi desiderano ardentemente di poter scegliere di mandare i propri figli in scuole che forniscano un indottrinamento coerente con quello della famiglia. Trump è arrivato a nominare ministro dell’istruzione Betsy DeVos, rampolla di una famiglia di miliardari bigotti, da sempre in prima fila nel progetto di smantellamento della scuola pubblica.

Il “potere ai genitori” che i neoliberisti vogliono ottenere mira a dar loro il potere di decidere il futuro delle scuole pubbliche. In base all’adozione del Parent Trigger Act, i genitori possono dare la scuola in gestione ai privati, licenziare insegnanti e dirigenti, oppure addirittura chiuderla.

C’è inoltre un sottotesto razzista. Attraverso il voucher, che i genitori decidono dove spendere, i bianchi possono rifiutarsi di mandare i figli nelle scuole frequentate da neri o da altre minoranze etniche. Le scuole per le minoranze ottengono minori finanziamenti, offrendo un servizio di qualità inferiore, mentre le scuole per bianchi saranno di livello superiore. In questo modo si spiega come possa l’ultradestra americana mettere d’accordo i razzisti con le famiglie più religiose e devote.

Tutto questo disegno è portato avanti con stile e la lotta in favore delle Parent trigger laws – già adottate in sei Stati – «è presentata dalle fondazioni come una campagna per aumentare la qualità dell’insegnamento e l’efficienza degli insegnanti».

Questa vittoriosa lotta di classe è stata condotta con perseveranza e grande dispendio di mezzi, generando una crescente povertà delle masse ed un costante drenaggio di risorse dalle classi meno abbienti a favore degli ultra ricchi.

La densa analisi di Marco D’Eramo affronta anche altri punti. Rileva come almeno alcuni intellettuali di sinistra si siano accorti di quel che tramava la destra. Se ne accorse Michel Foucault, che ne parlò nei sui corsi sulla biopolitica. Così come Pierre Bourdieu, studioso della “violenza simbolica”, «quella violenza che estorce sottomissioni che non sono nemmeno percepite come tali». Più recentemente ne ha dato conto la filosofa statunitense Wendy Brown, che scrive di disfacimento del popolo e di rivoluzione invisibile neoliberista. L’ideologia neoliberista trasforma il cittadino in “padrone” ed “imprenditore” di se stesso, ma con quali conseguenze? Perdono significato importanti categorie analitiche come lavoro, alienazione, sfruttamento; perdono ragion d’essere i sindacati e tutta la legislazione sul lavoro e le forme di protezione sociale conquistate dopo dure e faticose lotte dal movimento operaio. Ne è un sintomo «la crescente opposizione popolare alle pensioni, alla sicurezza del lavoro, alle ferie» e ad altre importanti conquiste delle lotte sindacali. Così come «l’assenza di simpatia per i micidiali effetti delle misure di austerità imposte al Sud Europa nella crisi dell’unione Europea del 2011-2012».

La lotta di classe esiste, dunque, e la stanno vincendo i ricchi. Ma non tutto è perduto. «Anche se la partita è truccata bisogna giocarla», sostiene giustamente D’Eramo. Del resto, gli ultra liberisti hanno vinto facendo tesoro dell’insegnamento di Gramsci, imparando dalle conquiste del movimento operaio. E quando la controrivoluzione è cominciata, i neoliberisti erano in nettissimo svantaggio. Adesso, quindi, si tratta di imparare noi da loro. Loro hanno sovvenzionato la diffusione della Law and Economics perché si sono resi conto dell’importanza della magistratura nello scontro politico. D’Eramo elenca una serie di pronunciamenti della Corte Suprema USA che hanno sancito storiche vittorie per i diritti civili. Quelle conquiste non sono state ottenute tramite atti legislativi del Congresso, ma attraverso la pressione esercitata dai movimenti per i diritti civili e successive sentenze della magistratura, cioè attraverso atti giudiziari.

I terreni su cui condurre la lotta di classe sono l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione ed il debito. La battaglia in difesa della scuola statale, di un’istruzione pubblica universale e gratuita, è fondamentale perché, come aveva già compreso Jean-Jacques Rousseau, «senza di essa […] non ci sono cittadini ma servi». È importante coltivare la memoria storica, anche attraverso la scuola, come «presupposto per l’indispensabile, immane lavoro di rialfabetizzazione politica. Ci hanno convinto che “rivoltarsi è ingiusto”» perché diventassimo sudditi obbedienti. Invece «è ora di ricordare che nulla di buono fu mai ottenuto dalla società senza un conflitto, senza una lotta, senza un’insurrezione, senza una rivolta dei dominati contro i dominanti».

Insomma, come scriveva Antonio Gramsci: «Mi sono convinto che anche quando tutto è perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio».

(*) cfr «Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi» e Siamo ignari di essere sudditi con un’intervista a D’Eramo

Redazione
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6 commenti

  • sergio falcone

    “Mi sono convinto che anche quando tutto è perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio”, Antonio Gramsci.

    Ai compagni, alle compagne ma, soprattutto, a me stesso.

  • …e se riteniamo possibile che qualcun altro faccia qualcosa per noi …

  • La guerra delle narrazioni per il momento non c’è. C’è un’unica narrazione prevalente ed è quella che va verso il great reset.

  • Così come ogni tanto dimentichiamo chi siamo personalmente e politicamente, così a volte un bell’articolo come questo ce lo fa ricordare. L’ho inoltrato a tutti gli amici più cari. Grazie.

  • Gian Marco Martignoni

    Ringraziando Daniele per avermi segnalato questo imprescindibile libro di Marco D’Eramo – per il quale ho sempre nutrito la massima stima -, complimenti a Bruno Lai per questa super recensione. Ho appena terminato la lettura di “Dominio”, e quindi sbalordito per l’ennesima volta dalla bravura di D’Eramo e dalla sua impressionante metodologia di lavoro, penso che dopo il disorientamento che ci è piombato addosso – evidentemente non per caso – c’è la possibilità di un riorientamento del discorso politico a partire da una dell’indicazioni fornite dall’ autore . Ovvero, ” Una scuola pubblica, universale, gratuita, è il presupposto per l’indispensabile, immane lavoro di rialfabetizzazione politica “.

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