Donne in lotta: pillole dal Biografilm Festival

Storie da Tunisia, Marocco, El Salvador, Libano…

di Manuela Foschi

Pillola 3:

Donne in lotta per i propri diritti in Tunisia, Marocco, El Salvador, Libano

«She had a Dream» (Ghofrane et les promesses du printemps)

di Raja Amari, Francia 2020.

Chi vive nei Paesi ricchi, se fino ad oggi possiamo chiamarli così, molto spesso dà per scontato che leggi, diritti, emancipazione dei sistemi culturali e tradizionali (ottenuti con tanto impegno, sacrifici, lotte e perdite umane) appartengano anche ad altre parti del mondo ma non è così. A dimostrarvelo i 4 documentari biografici che sto per raccontare. Proprio perché non è sempre facile venire a conoscenza di ciò che accade in altri Paesi, sono molto importanti i Festival come Biografilmfestival.it – www.biografilm.it – che si tiene dal 2005 a Bologna. L’impegno civile, politico, sociale e culturale delle quattro donne protagoniste dei documentari mette in luce come la maggioranza viva all’interno di sistemi culturali classisti e razzisti: molto arretrati dal punto di vista dei diritti delle donne in tutti i settori, dalla semplice vita quotidiana e adoloscenziale, a quella lavorativa e addirittura nel ruolo di madri e procreatrici.

Il film biografico “She had a dream” di Raja Amari riproduce la vita di Ghofrane, una bellissima ragazza ventenne nella Tunisi di oggi a dieci anni dalla Primavera Araba: iniziata con Mohamed Bouazizi che per il sequestro della sua bilancia e della sua frutta e verdura mentre vendeva al mercato si è dato fuoco a Sidi Bouzid, un villaggio rurale della Tunisia, il 17 dicembre 2010. La protagonista ha capelli ricci lunghi molto curati con ciocche bianche come una modella, uno splendido incarnato nero, ed è ripresa nel suo piccolo appartamento mentre guarda alcune fotografie. «Non mi piacciono le foto che mi ritraggono. Le ho distrutte tutte. Ecco mio papà, mio fratello e mia madre. Non avrei mai voluto lasciare il nido. Ero così sicura e felice. Invece non ho ricordi belli della scuola, avevo un’insegnante che mi faceva sedere in fondo all’aula e mi schiaffeggiava. Mia madre le chiese se lo faceva perché ero nera. Non lo fece più ma mi ignorava completamente. Un altro mi chiamava ‘tizzone bruciato’. In Tunisia, e in tutti i Paesi nordafricani, soppravvive in una bella fetta di popolazione il razzismo verso chi ha la pelle nera. Eppure l’Africa è il continente, culla dell’umanità, da cui si è originata la dispora verso tutto il pianeta e dove la popolazione è in maggioranza nera: dovrebbe essere un vanto. La pelle nera invece ancora nel secondo millennio continua a essere causa di discriminazione». Ghofrane salutando dal terrazzo i suoi vicini precisa: «Nel mio quartiere non sono mai stata discriminata, solo dall’elite, da chi è istruito». Quindi la discriminazione è messa in atto dalle classi abbienti con la pelle chiara. «Venivo costantemente insultata e per questo sono entrata in M’nemty, un’associazione che lotta contro la discriminazione razziale, e grazie a questo sono diventata più forte. A Gabes, una cittadina rurale, dove ci sono i miei parenti e il nonno che adoro, bianchi e neri prendono autobus diversi. Hanno inserito la segregazione razziale per impedire i matrimoni misti». Tra la fine del 2010 e il 2011 i giovani, che si erano riversati nelle piazze della Tunisia in migliaia per mesi, rivendicavano la fine della corruzione, l’uguaglianza di opportunità e un lavoro dignitoso per tutti. Ne sono morti oltre cento e migliaia furono i feriti. Il 14 gennaio, dopo la morte del giovane che si diede fuoco, l’allora presidente lasciò la Tunisia per l’Arabia Saudita. Subito la Primavera araba accese le piazze dell’Egitto. Ghofrane aveva solo 10 anni e mentre accarezza il suo gatto rosso ci dice che il 26 dicembre 2016 ascoltò il comizio di un uomo politico le cui parole la colpirono: «Affermò che in Tunisia c’è ancora il razzismo e con la politica si può cambiare la mentalità della gente». Era Youssef Chahed, primo ministro nel governo eletto democraticamente dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, nonché leader del partito Long Live Tunisia (Tahya Tounes). La protagonista è entrata a far parte di questo movimento politico come attivista: senza alcun guadagno e abbandonando gli studi di giurispudenza. Ghofrane di solito si muove in taxi per le lunghe distanze, non ha un’auto o un motorino. «Anche prendere il taxi non è facile per i neri. Una volta un autista dopo essere salito ha minacciato di uccidermi e ci ha provato. L’ho denunciato alla polizia ma non ha fatto niente». E aggiunge: «Voglio impegnarmi affinché i tunisini neri si occupino di politica e partecipino perché non siamo rappresentati». Lo ripete a casa della madre mentre cena sul terrazzo sul tetto tipico delle case di Tunisi insieme ad amici e parenti. Alle elezioni dell’ottobre 2019, morto il Presidente Essebsi, Ghofrane si candiderà in Parlamento per Long Live Tunisia. La sua scelta la porta ad abbandonare l’associazione con la quale ha iniziato l’impegno civile perché non accetta persone che fanno parte di un partito. La presidentessa di M’nemty, disillusa sull’onestà della politica, la mette in guardia dicendole che se ci fosse stato un partito realmente democratico l’avrebbero notato e che purtroppo in quarta posizione non sarebbe stata mai eletta anche se il suo partito avesse vinto. Ma Ghofrane ci crede e realizza una grande campagna elettorale per sé e per il partito che rappresenta lungo le bianche strade di Tunisi toccando tutti i luoghi che frequenta quotidianamente fra amici che la sostengono e altri che non la voteranno perché non credono nella politica e nel partito che rappresenta. La nostra protagonista confessa: «Adesso dopo il fallimento delle Primavere c’è solo disillusione, prima avevamo tante aspettative. Credo che bisogna ridare fiducia alla politica. Poi voglio dimostrare alla mia famiglia che sono forte e anche se sono solo una ragazza ce la posso fare». Con le amiche si ritrova dalla parrucchiera dove si confrontano sulle convenzioni sociali che obbligano le ragazze a vent’anni a trovare un ragazzo, sposarsi e avere figli. Loro voteranno Ghofrane. Solo una non la voterà perché deve sposarsi. A sostenerla ci sono tutti gli amici poveri del quartiere, che tra gli stretti vicoli e le case bianche fanno il coro ad un pezzo rap improvvisato da Zakaria, un ragazzo che entra e esce dal carcere: «Ti voterò perché hai sempre aiutato i poveri e sei amica dei criminali e li hai aiutati e consigliati. Qua siamo tutti disoccupati e passiamo tutto il giorno tra una pillola qui e uno spinello là». E tutti insieme sulle note di Bella Ciao cantano «Vogliamo una Tunisia senza corruzione e terrorismo. Una Tunisia per tutti». Il 6 ottobre 2019 Ghofrane non sarà eletta e il suo partito perderà. Vincerà il partito islamista Ennhada. Lei dichiara: «Dopo la campagna elettorale sono rimasta a casa 3 giorni. Ero molto depressa». Sei mesi dopo la regista la riprende a discutere all’Università Aruba: «Ho deciso di completare gli studi, spero di diventare avvocato. Credo che legge e politica si completino a vicenda». Ghofrane è determinata e piena di gioia di vivere e speranza per il suo Paese: non lascerà l’impegno politico sociale. Ora si è unita al movimento di donne tunisine nere Anbar tornando fra i suoi amici che non credono nella politica; magari li convincerà a partecipare e agire per il cambiamento. In bocca al lupo a Ghofrane e a tutte le associazioni che stanno lottando contro la discriminazione razziale in Tunisia, l’unico Paese in cui la Primavera Araba ha comunque migliorato la situazione e aperto spazi per la libertà di espressione e di associazione, dando una nuova Costituzione ed elezioni libere. I problemi molto gravi sono quelli economici: con una disoccupazione al 30% fra i giovani e al 60% tra i laureati. Nel 2016 più di cento persone si sono date fuoco come Mohamed Bouazizi.

«Mothers» (Oumahat) di Myriam Bakir (Marocco-Francia, 2020)

In Marocco le donne che diventano madri senza essersi sposate finiscono in carcere a causa della legge 490 del Codice penale marocchino che le considerara “fuori legge”. La prima inquadratura di «Mothers» riprende le mani di queste madri nel carcere di Agadir. Da 30 anni Mahjouba Edbouche con l’associazione Oum El Banine si occupa delle giovani donne molto povere. Quando una di loro rimane incinta e il padre del nascituro non vuole sposarla, oppure sparisce, è possibile chiedere ospitalità presso la loro struttura. Ci sono vari tipi di operatrici. C’è chi si occupa dell’aspetto psicologico, chi delle spese o dell’accoglienza con un avvocato che cura la situazione giudiziaria. Le madri “nubili” saranno accolte solo a patto che avvisino i genitori dell’accaduto e vogliano tenere il nascituro. Questo è lo scoglio più duro da superare perché le ragazze mentono alla propria famiglia, hanno paura dei genitori e si sentono in pericolo per cui quando scoprono di aspettare un bambino fuggono e si nascondono. Per fortuna molte si rifugiano presso la struttura di Mohjouba: «Dal 1980 si parla di modificare la legge, ma ancora non è stato fatto nulla. In ospedale per tutelarsi da una nascita illegittima, per la quale è prevista una pena anche per i medici, chiamano la polizia e la ragazza madre rischia di essere accusata di prostituzione. Questo non succede se partoriscono con il nostro coinvolgimento. Ma credo che la colpa non sia solo degli uomini, i giovani non sanno cosa fare. Viene loro chiesto di raccogliere il frutto proibito ma poi non possono mangiarlo. Agli uomini non viene data la possibilità di dimostrarsi migliori di quello che sono. Qui in Marocco abbiamo internet, cellulari, tutte le nuove tecnologie però come tradizioni e cultura siamo indietro di 50 anni». Mahjouba continua toccando l’aspetto cruciale di questo sistema sociale: «Le madri interferiscono troppo nella vita dei loro figli, nel lavoro, nello stipendio, nella vita privata. Non lasciano che i figli abbiano una loro vita e diventino indipendenti, così il loro senso di responsabilità non si forma. Sono troppo presenti e pressanti». Mahjouba ha salvato dal carcere migliaia di ragazze madri e aiutato i loro genitori: tiene conferenze e dibattiti. Anche le famiglie sono grate a questa associazione perché in Marocco se una figlia partorisce in casa un bimbo morto tutta la famiglia finisce in carcere. Le ragazze madri vengono riprese dal documentario solo di schiena per non essere riconosciute. C’è chi una volta partorito si sposerà con il vero padre, chi tornerà in famiglia, chi invece sceglierà di andare a vivere da sola con il proprio bambino cercando un lavoro.

«Fly So Far» (Nuestra Libertad) di Celine Escher (Svezia-El Salvador, 2021)

Porta in primo piano la legge restrittiva sull’aborto che vige in El Salvador. Con la viva voce delle protagoniste, che hanno abortito per problemi insorti durante la gravidanza, e sono state condannate a 30 anni di carcere. Teodora Del Carmen Vasquez ha 34 anni ed é in carcere da 10 anni e 6 mesi.

Primo piano a mezzo busto su di lei e durante il suo racconto partono le immagini: «Il 13 luglio 2007 ero incinta di 9 mesi e lavoravo in centro a San Salvador, la capitale. Quando non mi sono sentita bene ho telefonato più volte per ricevere aiuto perché non potevo muovermi. La polizia disse che sarebbe arrivata ma non è mai venuta fino a quando sono svenuta. La mia bimba è nata lì. Al risveglio mi hanno chiesto – ma perché l’hai uccisa? – Non ho ucciso nessuno. – Invece sì, hai ucciso tua figlia e devi pagare -». Da quel momento Teodora entrerà nel carcere femminile con altre 3000 donne: 6 bagni in tutto, cibo orribile e obbligata a dormire sul pavimento per 7 mesi.

Al primo processo, dopo circa un anno, l’avvocato (prese 700 dollari dai genitori che vivono nella jungla salvadoregna) non si presenta. «A venti anni ho avuto Angél Gabriel e quello che desidero di più è stare con lui, ma ho perso il meglio della sua infanzia. Lo amo più di tutto. Come amavo la bambina, il mio sogno era avere due figli». Teodora in carcere non voleva parlare con nessuno fino a che conosce altre donne nella sua stessa situazione. Glenda Cruz ha perso la figlia al quarto mese dopo essere stata picchiata dal marito che testimonierà contro di lei. Carolina Diaz: «Sono caduta ma ancora non so cosa sia successo a mia figlia». Alba Rodriguéz: «Sono rimasta incinta dopo uno stupro da parte di tre uomini tra cui mio fratello, ma ho tenuto il bambino. Poi ho abortito per il dispiacere, alla morte di mia madre. E’ venuta la polizia durante il funerale del mio bambino, mentre lo portavamo in chiesa lo hanno tolto dalla cassa, lo hanno buttato con un telo sopra il pick up e ci hanno portati via. Ma io ho altre due figlie che stanno crescendo senza la mamma e senza la nonna». Teodora dichiara la sua determinazione: «Quando mi sono resa conto che eravamo in tante mi sono fatta coraggio e ho pensato che le donne non sono di proprietà di El Salvador e delle sue leggi. Le donne non devono andare in prigione per problemi nati durante la gravidanza. Bisogna risolvere la situazione che stiamo vivendo, così abbiamo deciso di unirci per difenderci. Nel 2012 abbiamo incontrato per la prima volta i legali del Citizen Group, un gruppo di avvocati impegnati. Noi eravamo 17 ma in questa prigione sono stati identificati 129 casi come il nostro». Da quel momento iniziano le campagne di mobilitazione per cambiare il codice penale e depenalizzare l’aborto con l’appoggio del partito Fronte di Liberazione Nazionale, ma partono anche le contromanifestazioni «per difendere la vita». L’arcivescovo di San Salvador e il deputato fondamentalista del partito Arena, Ricarco Velasquez Parker, sostengono che l’aborto in qualsiasi modo sia avvenuto è contro natura e contro l’istinto materno e dichiarano che nessuna donna, che abbia avuto un aborto spontaneo, è stata mai perseguitata». Il deputato mente: è risaputo che le benestanti in queste situazioni vanno in cliniche private o all’estero mentre le donne povere finiscono in carcere anche con prove completamente false. «Sappiamo i nomi dei pubblici ministeri che non dicono la verità. I giudici non hanno nemmeno letto i risultati delle autopsie. Per Teodora hanno scritto soffocamento perinatale, che è una causa di morte naturale ed è in linea con l’urto che Teodora aveva ricevuto su un autobus la settimana prima. Ma nella sentenza poi hanno scritto annegamento e c’erano le foto della bimba in una cassetta dello sciacquone anche se si vede che non c’è acqua. Teodora aveva chiamato 5 volte la polizia. Non ha senso e non ha basi scientifiche» dichiarano gli avvocati che faranno riaprire il processo. Una dottoressa dell’ospedale conferma: «Se aiutiamo o istighiamo un aborto prendiamo dai 2 ai 5 anni. Ogni aborto in ospedale quindi viene riferito alla polizia. Si tratta di misoginia, stigma, criminalizzazione, persecuzione nei confronti delle donne. Chi è incinta perde ogni diritto. Diventa un’incubatrice. Tutti i suoi diritti vengono violati in nome del feto».

Il sostegno fuori dal carcere per le 17 donne si diffonde. La Radio de Todas invita le donne a sostenere Teodora, davanti al tribunale di Isidro Menédez, il giorno della nuova udienza. Tantissimi i giornalisti. Sono arrivati anche il figlio e i genitori di Teodora che è radiosa e piena di speranza. Ma l’udienza sarà sospesa confermando la sentenza nonostante l’avvocato dichiari: «Senza prove come fa l’accusa a dire che ha ucciso la figlia?». Teodora sarà picchiata e riportata in carcere. Ma da quel momento si diffonde il grido nelle strade: «Lotteremo contro questo sistema capitalistico e patriarcale». L’eco di quelle proteste contro le ingiustizie fa il giro del mondo e arriva in tutti i telegiornali. Finché un giorno il giudice, una donna, porta un foglio in carcere a Teodora e la invita a leggere: le è stata ridotta la pena ed è libera .. ma Teodora non lo legge perché non ci crede. Invece sarà liberata quel giorno e riabbraccerà il figlio dopo 10 anni tornando nel suo villaggio di origine nella giungla, dove vivono i fratelli e le sorelle. Da lì oggi parte per raggiungere ogni angolo di El Salvador: racconta la sua storia, chiede che cambi la legge sull’aborto e intanto che le altre donne incarcerate vengano liberate.

«Libertà per le 17» è il motto della regista.

«Room without a view» di Roser Corella (Germania-Austria, 2021)

Questo documentario ci offre uno sguardo incredibile e impietoso su come sono trattale le colf straniere in Libano. La società libanese è essenzialmente basata sull’apparenza e sull’immagine. Molte donne libanesi della classe media lavorano e avere figli dopo il matrimonio è la regola. Così sono nate agenzie come “Ok Madame” che procurano domestiche provenienti da altri Paesi con un tariffario molto vario. Sembra che in Libano avere una colf sia diventato uno status symbol e chi può ne assume una. Di contro parte nei Paesi con alti tassi di disoccupazione nascono agenzie che reclutano ragazze, insegnano il libanese e promettono un contratto di lavoro in Libano. Alcune immagini del documentario mostrano in Bangladesh centinaia di ragazzine sedute per terra in grandi saloni che imparano a voce alta il libanese e usano gli elettrodomestici per prepararsi a fare le colf in Libano. Una delle protagoniste di questo film – che fa raddrizzare la pelle, per la durezza delle immagini – è proprio una giovane bengalese.

Lo schermo è completamente nero, si sente solo la voce di colui che cerca una domestica e fa alcune domande all’agenzia informandosi sullo stipendio. «Le Filippine costano 5000 dollari, quelle provenienti dal Kenya 2600 dollari mentre quelle dall’Etiopia 200 dollari». C’è quindi una vera e propria classificazione umana monetizzata secondo la provenienza.

Altra immagine all’aeroporto: l’arrivo di una ragazza che ha firmato il contratto con l’agenzia. «Appena in Libano mi hanno confiscato il passaporto. Non capivo cosa stesse succedendo, pensavo di essere nei guai. Sono istruita e mi hanno detto di andare in una casa a pulire e a preparare i figli per la scuola. La padrona mi disse: “Hai firmato un contratto ora mi appartieni, sei di mia proprietà. Non hai diritto di parlare o di lamentarti”. Ero scioccata! Ho pensato: sono stata venduta!». In Libano, secondo l’articolo 7 della legge sul lavoro, ai domestici non sono applicate le normative ed è il sistema della Kafala a dettare le sue leggi. Le domestiche in Libano lavorano dalle 12 alle 18 ore al giorno. Devono essere disponibili tutta la notte, se ci sono bambini piccoli, sette giorni su sette: non hanno una vita propria perché non possono uscire. I padroni le chiudono a chiave ogni volta che escono. I racconti sono racappriccianti. Chi ha perso una mano per le botte ricevute, chi è stata spinta giù dal balcone, chi è stata accoltellata al viso e al collo. Alcune vivono in camerette piccolissime e gli uomini abusano di loro quando le mogli escono.

La voce di una ragazza libanese fuori campo confessa come suo padre abusasse sempre della servitù ed è risaputo che le mogli pur sapendo non si oppongono. Queste donne sono costrette a vivere un inferno e molte non ce la fanno: scelgono di suicidarsi, proprio dai balconi di quegli appartamenti in quei nuovi condomini che la regista ci mostra continuamente per darci un’idea della prigionia … e dell’unica visione, che le colf straniere hanno per mesi e anni. Molte, firmando quel contratto, hanno lasciato i loro figli per uno stipendio migliore: per anni non li vedono e non possono nemmeno telefonare. Donne completamente schiavizzate. Molte di loro piangono disperate dicendo: «Aiutateci a tornare a casa».

Per fortuna c’è Radio Beirut Sud, da dove le speaker etiopi insistono sulla necessità per le colf di unirsi, per superare la loro condizione e in primo luogo ri-ottenere i loro documenti.

Poi l’immagine si sposta in una Chiesa cristiana ortodossa, piena di donne sempre etiopi: pregano per una di loro che ha perso la vita in una piscina mentre era a casa dell’agente dopo che il datore di lavoro si era lamentato di lei.

Ogni giorno 600 donne etiopi arrivano in Libano. Ogni settimana muoiono 2 domestiche. Si buttano dalla finestra o dal terrazzo e nessuno va in carcere. «Noi avvocati non sentiamo processi su abusi perché il sistema della Kafala permette a chi li compie di evitare i giudici». Ed è sotto gli occhi di tutti.

«Il Primo Maggio sono scappata senza stipendio, senza documenti, sono andata in strada e ho incontrato tante lavoratrici come me, così ho manifestato con loro». La regista inquadra una manifestazione per le strade di Beirut. Tante donne di nazionalità differenti. Striscioni con scritto «Join us on international domestic workers day off» e «Abolish the kafala system». Questo documentario dovrebbe essere distribuito e circolare in tutti quei Paesi dove nascono agenzie che allettano donne e ragazzine ad andare in Libano perché “si guadagna”.

Redazione
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