«Dopo Chávez. Come nascono le bandiere»

Recensione al libro di Geraldina Colotti pubblicato dalla casa editrice Jaca Book. Un viaggio nel Venezuela bolivariano raccontato grazie ai tanti protagonisti che ogni giorno partecipano al proceso.

di David Lifodi

Quando la grande stampa associa i diritti umani al Venezuela di solito lo fa sempre in chiave negativa. Ricordo un lungo articolo pubblicato la scorsa estate dal sito web di Repubblica in cui le carceri venezuelane venivano paragonate ai centri di detenzione clandestina dell’Argentina di Videla. È proprio per smontare fake news del genere che risulta utile leggere il libro di Geraldina Colotti, Dopo Chávez. Come nascono le bandiere (Jaca Book, 2018), in cui racconta il Venezuela dall’interno e narra storie raccolte sul campo, al contrario di gran parte dei giornalisti che prendono per buone le veline giunte in redazione spesso diffuse da un’opposizione poco credibile.

Tra le tante persone che ha incontrato l’autrice nel corso dei suoi viaggi in Venezuela non si può far a meno di nominare Iris Varela, ministra del Poder Popular para el Servicio Penitenciario prima di essere eletta all’Assemblea nazionale costituente. L’immagine delle carceri venezuelane, solo per fare un esempio, è assai diversa da quella diffuse dalle ong venezuelane. Nel solo 2017, scrive Geraldina Colotti, “Varela ha portato avanti tre linee di azione: bucare il muro dell’informazione a proposito dei progressi raggiunti in maniera penitenziaria; potenziamento del lavoro produttivo dei 56.000  <<privati di libertà>>  reclusi nelle 55 strutture carcerarie del paese e lotta dura alla recidiva”. In quali paesi d’Europa il sistema penitenziario è andato incontro ad una rivoluzione di questo tipo? È opportuno sottolineare questo aspetto in un paese dove il contesto politico-sociale è tutt’altro che idilliaco e  le bande criminali esercitano comunque un ruolo di primo piano, ma la situazione non è ai livelli allarmanti del Brasile del golpista Temer o del Messico ante Amlo, dove nessuno ha mai alzato una voce in difesa dei diritti umani.

Il libro di Geraldina Colotti dà spazio anche ai costanti tentativi di destabilizzazione e ai veri e propri colpi di stato promossi prima contro Chávez e poi per rovesciare Maduro (impossibile non darne conto), ma si sofferma soprattutto sul popolo venezuelano e sulla sua volontà di resistenza e di autodeterminazione, senza la quale difficilmente il chavismo sarebbe riuscito a resistere tutti questi anni a fronte di un assedio permanente. “Fermarsi, segnare il passo, rassegnarsi con la prima meta raggiunta, sono fenomeni sconosciuti nelle rivoluzioni” sostiene Rosa Luxemburg, citata dall’autrice proprio per ribadire la costante necessità di migliorare del processo bolivariano. È così che la pensano anche a Ciudad Caribia, la città fondata da Chávez per dar vita ad una comune eco socialista. Nel 2007, ammette Xiomara Alfaro, prima cittadina della cosiddetta “città nuova”, non c’era niente. È stato grazie al lavoro comunitario di operai, ingegneri e  architetti che le prime famiglie hanno potuto venire ad abitarvi e i cittadini di Ciudad Caribia sanno che devono imparare a convivere anche con coloro che sostengono l’opposizione.

In un paese dove la polarizzazione politica è innegabilmente fortissima, Geraldina Colotti non intende descrivere il Venezuela come un paradiso sulla terra, ma, piuttosto, ha la capacità di far emergere un paese diverso da quello raccontato dalla stampa internazionale, dando voce ai tanti protagonisti del processo bolivariano, senza i quali la rivoluzione avrebbe fatto ben poca strada. Sono in gran parte le donne a rappresentare il fulcro trainante del proceso, spesso semplici, provenienti dal popolo, e ad animare anche le comunas e i Clap (Comité Local de Abastecimiento y Producción). Verso di loro, come del resto nei confronti di Maduro, di cui più volte viene rimarcata con disprezzo la sua precedente occupazione, quella di autista del metro di Caracas, permane una sorta di odio di classe: persone di origini umili, afferma la propaganda antichavista, non sono in grado di guidare il paese.

Eppure, non tutti gli imprenditori la pensano così. Tra i tanti personaggi scovati dall’autrice nel corso dei suoi lunghi mesi di permanenza in Venezuela, c’è l’industriale italiano Pietro Altilio, proprietario di una fabbrica che produce involucri di plastica, la Estrufan. L’imprenditore sottolinea come i diritti dei lavoratori fossero carta straccia, prima dell’avvento del chavismo. Inoltre, assume importanza anche il ruolo delle tante militanti che si occupano della tutela dei diritti delle donne nel segno di Apacuana, l’indigena quiriquire che combatté contro l’invasione spagnola nel 1574.

Ecco, il Venezuela è come Apacuana, una lottatrice indomita, e tutti coloro che erano pronti a scommettere sul crollo della rivoluzione bolivariana alla morte di Chávez per ora sono stati smentiti dai fatti. Per conoscere nel dettaglio il Venezuela che resiste bisognerebbe essere delle Talpe a Caracas, per citare un altro libro di Geraldina Colotti: intervistare, porre domande e confrontarsi con la società venezuelana, cosa che gran parte dei giornalisti disdegnano, limitandosi a riprendere commenti dell’opposizione su twitter o a seguire le dichiarazioni di artisti delle fake news latinoamericani ed europei.

Dopo Chávez. Come nascono le bandiere

di Geraldina Colotti

Jaca Book, 2018: € 22

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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