Dossier fs 39 – Aldani 3

Questa la lettera con cui delineavo le caratteristiche e i limti di “Quando le Radici”, approfittandone per sbozzare un discorso sul PCI e destini nel prossimo futuro della classe operaia:
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Roma, 11.07.1977

Caro Aldani,

è da parecchio che non ho tue notizie. Sono ansioso di conoscere la tua opinione su “I bufali pascolano per noi” (Geremiadi)[1]; e l’utile che puoi aver tratto dalla mia bersaglieresca risposta sul tuo articolo.

Nel frattempo ho letto “Quando le radici” (a proposito: uno dei pochi volumi CELT distribuiti in modo decente a Roma).

Cominciamo dalla fine. Senza dubbio si tratta del miglior romanzo di FS italiano, in assoluto. Cosa faranno i lottizzatori dei vari premi italiani di FS? Si metteranno una mano sulla coscienza e daranno a Aldani quel che è di Aldani, o continueranno a procedere imperterriti e trionfanti sulla strada delle bagatelle? Oppure (e sarebbe la cosa più spiacevole), si salveranno dal ridicolo perché sarà venuto il turno della CELT?

Ma torniamo al romanzo. Cominciamo dai difetti. La precedenza alle cose sgradevoli. Mi pare che il romanzo manchi del senso dei mondi cosiddetto (nel caso il senso del futuro), in dipendenza della tua personale forte aderenza alla eredità storica della cultura letteraria italiana, la quale da tempo trova difficoltà a entrare in sintonia con il fantastico; sia in conseguenza di alcune stonature nella coerenza e credibilità dell’impianto sociologico entro cui si muovono i personaggi [e vengono fatte muovere] le vicende. Entro nel merito. Il ritmo del romanzo a tratti rassomiglia fortemente (e magistralmente?) a certe creazioni neorealiste (e intimiste anche) del “culturame” che ha tentato di dare dignità alla fisionomia letteraria del dopoguerra, prima malata e poi convalescente del provincialismo fascista e pre-fascista (ai posteri l’ardua sentenza se siano riusciti o meno: accontentiamoci di constatare il tentativo). Fin qui niente di male. Il fatto è che questo modulo di per sé non entra in sintonia con la realtà fabulatoria dell’esperienza fantascientifica. I problemi matrimoniali o più personalmente esistenziali del piccolo borghese (azzardo una ipotesi: la povertà della narrativa moderna, e italiana, e europea, non dipendono forse dal fatto che il protagonista universale di questa narrativa è la figura squallida, amorale, povera emotivamente e intellettualmente del piccolo borghese?), quando sono il fine della narrazione sono inconciliabili con la FS, la quale appunto, per poterne parlare, ne ha fatto un medium: da per scontate e positive le meschinità. Le frustrazioni, le oziose ambizioni del piccolo borghese, fa diventare il motore della storiella, e poi parla di tutt’altro (dell’inconscio collettivo, la paura dei mass-media, l’oppressione sociale, l’angosci per il modo irrazionale e disumano della lotta di tutti contro tutti, il bisogno di certezze, il sogno e l’evasione). Tuttavia “Quando le radici” tratta di ben altre cose che le minuziosità quotidiane dell’uomo medio (le difficoltà orgasmiche, la lavatrice, l’auto, e la religione che non c’è più), in quanto tale precluso dalla possibilità dell’universale (esclusa soltanto la sua rappresentazione quale vittima della crudele macchina sociale, e manifestazione del demoniaco che è nell’uomo: allora sì può rappresentare tutti). Eppure, di tanto in tanto, leggendoti viene da pensare, ecco ora ci racconterà di quanto sia annoiato il protagonista di essere una nullità, e di come ci si crogiola in questo. Naturalmente ciò non avviene mai, e la vicenda ti porta fascinosamente alla fine, con il particolare che sempre suggerisce l’universale, ma la sensazione sta lì bella, sottile e te l’ho voluta dire.

Impianto sociologico. Comprendo che tu non sia voluto cadere nelle secche dei stereotipati Mondi Nuovi, così cari ai pigri e osannato scrittori d’oltreoceano, ma il contesto dentro cui collochi i tuoi personaggi mi pare poco sbozzato e nello stesso tempo troppo attuale considerata la lontananza temporale in cui collochi la vicenda. Fra quanti decenni le Pieve Lunghe scompariranno? Parecchi. Non abbastanza per trasformare radicalmente la psicologia essenziale dei personaggi (e chi la potrebbe dedurre a questo punto?), [ma sufficienti a determinare] qualche sfumatura caratteriale in più. Non solo. La presente situazione italiano avrebbe dovuto suggerirti qualche altro elemento prezioso, oltre la meccanizzazione definitiva della vita, [elemento] adatto a [mettere in risalto] l’alienazione del protagonista e il destino collettivo a cui si va incontro se perdura l’indifferenza e l’individualismo nei confronti del problema delle trasformazioni della realtà posto in modo tanto prepotente oggi. Ma a te [questo] forse non interessava. A te forse interessava il recupero naturalistico della dimensione umana e hai costruito quanto di più adatto ai tuoi bisogni. Personalmente non sono sicuro che questo non ti abbia nociuto.

Più eclatante il discorso critico sul livello politico, la dove quanto dici (o fai dire) sul PCI appare come mera opinione e non come spontanea e logica reazione (conseguenza emotiva) del personaggio alle condizioni e alle sollecitazioni a cui è stato sottoposto (vedi carenze dell’impianto sociologico). Perché lo zingaro parla di tradimento? Cosa ha avuto d’inganno dal “comunismo”? Non solo. La [severa] critica implicita nella parola “traditori” non coglie minimamente nel segno la problematica del rapporto degli emarginati con il PCI (e d’altra parte è evidente a tutti il “tradimento”? Ne dubito). Questa parola infatti arresta i suoi significati sulle soglie di un atteggiamento formale (consumato da decenni), descrive e non analizza, dati i significati di cui è portatrice; ignora che l’essenza della conversione a U del PCI è costituita dall’assunzione in prima persona del disegno di costituire lo “stato forte” attraverso la limitazione delle libertà individuali e in primo luogo della libertà di pensiero (vedi, per la parte di competenza del PCI, l’attacco brutale di Amendola a Sciascia, Bobbio e altri; di Di Giovanni a Sartre e gli intellettuali francesi; vedi [l’atteggiamento tenuto nell’episodio della] chiusura di Radio Alice (chiusura? No, distruzione fisica: un bell’esempio di teppismo da parte delle Forze dell’Ordine Democratico) e i reati di sovversione [affibbiati] a alcuni dei suoi redattori, chiusura pienamente giustificata dall’Unità ecc. ecc. [segno di una ormai consumata incapacità di rappresentare le istanze democratiche più avanzate della popolazione da parte del PCI, che non ha né vuole avere rapporti organici con le masse, ma di sola mera opinione; e averli in subordine, in ogni caso, dei rapporti organici che intrattiene con settori “progressisti” del capitale]); ma probabilmente qui entrano in ballo le tue personali opinioni politiche che ti hanno impedito di pensare fino in fondo ciò che facevi dire al protagonista; e quindi impedito di creargli attorno il contorno [di circostanze, discorsi, pensieri in grado di] dare il massimo di pregnanza alle sue parole. Bada, è solo una ipotesi, forse anche una sensazione, ma nettissima: leggendoti ho avvertito l’amarezza, la rabbia, ma anche il rifiuto di interessarsene [andando fino in fondo alle questioni]. Fammi sapere se ho preso una cantonata.

Tu dirai: si tratta di una finzione, nella logica della finzione che male sopporta la pignoleria dei particolari; ma anche il capolavoro ha le sue esigenze, cioè l’assoluta coerenza e verosimiglianza (da cui la “pregnanza”) delle vicende. Compito dello scrittore è appunto la conciliazione delle due opposizioni. E un romanzo che si pone quale pietra miliare della FS italiana, le sfumature medesime pesano, là dove invece le incongruenze neppure vengono notate in altri romanzi. Ma entriamo un poco più nel merito.

Nel bene o nel male il PCI è ancora oggi il partito della classe operaia [l’unico che ne ottenga la fiducia]. Ora il problema è che il proletariato italiano ha acquistato [anche] per merito suo proprio (ma anche per merito del PCI, dalla Resistenza fino al 1970) posizioni che sono politicamente e economicamente molto più avanzate di quelle che porta avanti oggi il PCI, unico partito in grado di dirigere le sue lotte con sufficiente efficacia dal punto di vista organizzativo. Il proletariato quindi si trova a godere di una rendita di posizione che non può mantenere a lungo. Si profila una sconfitta di dimensioni storiche. E si profila anche, nel medio termine, una rottura tra PCI e masse che modificherà in modo consistente il quadro politico del prossimo futuro. A quel punto la borghesia non avrà più bisogno di un PCI ridimensionato [leggi: DS] e non più in grado di controllare le lotte, per cui si porrà il problema della liquidazione e abdicazione totale del partito da ogni residuo socialista, e la sua collocazione in un ambito di blanda opposizione (opposizione di Sua Maestà), ridicola caricatura del ruolo svolto per tutti gli anni ’50 e primi anni ‘60 [lucida anticipazione dell’involuzione della “sinistra” che avrebbe iniziato a manifestarsi solo alcuni anni dopo, a partire dal 1980. E che avrebbe avuto compiuta realizzazione a partire dagli anni ’90. Questo nel 1977, in un periodo che molti potevano ancora ciecamente ostinarsi a considerare di offensiva democratica: intelligenza non dell’uomo, ma perspicacia determinata dal buon uso del superiore armamentario critico marxista].

Il processo è ormai irreversibile. (Irreversibile nella sua essenza), salvo eventi imprevedibili che non possono entrare nei calcoli delle persone razionali. E allora? Allora nel tempo futuro da te descritto [consumatosi ormai questa certa involuzione del PC] non potrà venire in mente a nessuno di definire “traditore” il “comunismo” [che da decenni non sarà più al fianco delle masse], anche perché il comunismo non tradirà proprio nessuno, poiché è indubbio che a quel punto avremo un comunismo [autentico], non traditore [aggiungo oggi: che avrà nulla a che fare con il PCI, che si qualificherà con altro nome]. Né a qualcuno potrà venire in mente che il PCI possa tradire gli emarginati, [che non rappresenterà in quel futuro] dato che già non li rappresenta oggi. [In quel futuro] vi saranno atti [alias prese di posizione] ben più concreti che il semplice affibbiare a qualcuno l’etichetta di collaborazionista; e più ampi che non il ruminare di vecchi residui del passato (e guarda un po’ che mago sei: sei riuscito a renderli gli unici progressisti della terra).

Ammetto, per amore della verità, che le modalità con cui lo zingaro si esprime sono autentiche, verosimili: è astratto e inverosimile il contenuto ideologico di quell’esprimersi, in quanto attiene a una attualità che su quel punto [è da considerare] estremamente transitoria. [Essendo allora il “tradimento” del PCI da decenni ormai dato per compiuto] non può quindi tornare nelle espressioni delle masse di quel tuo futuro.

Ultimo: a mio parere il protagonista, pur considerando che non è alla prima esperienza a Pieve Lunga, si adatta troppo facilmente alle condizioni disagiate di vita dell’eremo. Il nostro desiderio, quando è frustrato troppo a lungo, spesso ci induce a ignorare i disagi che comporta la sua realizzazione. Ma poi, nel momento di cogliere la rosa, le spine danno fastidio…

Ma passiamo agli elementi positivi che colpiscono a una prima lettura. L’ approfondimento verrà dopo. Butto lì alcune cose che potrebbe servire agli studi futuri.

Ecco, perdonami, [Quando le Radici] è il romanzo che avrei voluto scrivere io. Il desiderio della fuga a Pieve Lunga del protagonista è il mio , Pieve Lunga è mia, [di un me] che sta qui a piangere sulla schifosa vita romana, gas d’auto, frastuono e chi ne ha più ne metta. Chissà quanti altri rimarranno colpiti dallo stesso motivo. Ma di là dagli umori personali, [è vero] che il romanzo interpreta bisogni profondi dell’uomo contemporaneo. Due cose fondamentalmente: il recupero del rapporto umano nella socialità (Pieve Lunga) e [recupero di un rapporto con la] natura non più intesa antagonisticamente. Il personaggio è affascinato tanto dalla tranquillità agreste del paese, quanto dai suoi abitanti e dalle loro concezioni del mondo. L’eroe ha rapporti umani, ma disumanizzati, nella megalopoli. La sessualità è banalizzata a livello così profondo che riappare solo come veicolo di rapporti sociali, di espressione dell’angoscia e della sopraffazione. Se vuoi è il veicolo deragliante del riscatto del sesso e della socialità (ricerca dell’esperienza particolare fuggendo Dioniso, credendo di avvicinarlo; manifestazione della propria aderenza alle leggi del gruppo, [anche] quando queste provocano solo angoscia): il fallimento di ognuno nel proprio ambito. La sopravvivenza è assicurata a livello totalmente individuale: sono scomparsi gli ultimi elementi di convivenza solidaristica tipici delle società pre-capitalistiche. La sopravvivenza passa attraverso l’accettazione della riduzione allo stato vegetale. Il lavoro ha realizzato i suoi elmenti ultimi d’alienazione. È totalmente estraneo all’uomo e ai suoi bisogni, per finalità, svolgimento, condizioni, natura. Improvvisamente l’eroe si confronta con la realtà alternativa (regressiva? Sarebbe utile e necessario una riflessione a parte). Dal punto di vista individuale (è un altro limite del romanzo: proprio la soluzione per uno solo) il panorama non tiene. Pieve Lunga è infinitamente più progredita della proiezione tecnologica della città futura. Il contorno stesso sembra suggerire la scelta “fuggi, vieni”. Tutto ciò è naturale, non ostentato, si sente intimamente la razionalità della scelta operata, e non si avvertono forzature.

Ancora: il merito del romanzo è anche di ipotizzare [e ben costruire] l’alternativa, di comporla nell’ambito della “normalità”; [al contrario di quanto propongono e dispongono] i mostri sacri d’oltreoceano che dal cilindro del prestigiatore, dalle gesta puerili alla maniera del bimbo che gioca agli indiani, fanno uscire la rivoluzione, il deus-ex-machina, la scoperta improvvisa che tutto ciò che è, è per il bene (poveri noi che non comprendiamo i disegni dei potenti). In poche parole: [nel tuo romanzo] tutto avviene senza l’intervento del mirabolante. E pensare che i due mondi si oppongono veramente, radicalmente. Il loro attrito non produce scintille, ma fa maturare scelte e comportamenti. A pensare che per inezie, differenze d’impostazione di scarsissimo conto (valori eterni contro valori eterni, ma nell’ambito sempre della turlupinatura) gli americani se la prendono assai calda (nei romanzi), quasi stessero ancora a disputarsi i pascoli (e chissà che…).

Stile: due sole parole, perché qui occorrerebbe un esperto e un lavorod i riflessione un poco più lungo, meno affrettato (senti, non ti voglio liquidare con due complimenti, lo comprenderai dalla lunghissima lettera, ma qui [su questo tema] mi sembrerebbe di accedere alla presunzione). Un bello stile piano, tutto tuo, tutto contemporaneo, fatto d’audacia e di rigore. Un bel modo di fare “sperimentalismo”!

Il protagonista. La figura è perfettamente credibile, bella perché costruita sulla sua vita interiore, non sull’azione. Avresti guadagnato in drammaticità (e interesse), ma perso in precisione psicologica e umanità. Una cosa. All’inizio sembra una vittima, un predestinato. Poi diventa il vincitore (di se stesso prima) delle avverse circostanze. La sensazione però è di una vittoria umana, non demiurgica, il ritrovamento di qualcosa forse desiderato, ma che potrebbe anche essere il “meno peggio”. Si tratta di una scelta di vita. La vittoria sta nel riuscire a fare scelte coraggiose, ma anche di stare con i piedi ben piantati a terra: scegliere tra le alternative possibili, forzando il possibile, non inventandolo (raccontalo ai “veri” scrittori di FS). Dietro ci sta un discorso grosso come una montagna. La funzione della letteratura. Deve illustrare/rappresentare/imitare le possibilità, o invece deve lavorare sui desideri? E se un poco tutti e due, a chi la “determinazione” di ultima istanza?

Ottime le figure secondarie, i vecchi, il sindacalista (forse con un millesimo di caricatura), la signorina di città… splendida quest’ultima, hai avuto buona mano, specialmente quando hai alluso a un suo brevissimo rigurgito di femminilità. Più stereotipata la zingara, anche perché la sensualità e il demonismo che gli attribuisci all’inizio (o meglio, che gli attribuisce un personaggio, ma poi non si evince fosse falso), non trova riscontro nel seguito in cui finisce per assumere una funzione catalizzatrice rispetto al protagonista, cioè subordinata e senza effettiva importanza.

L’armonia dell’insieme. C’è grande coerenza narrativa, un tono sommesso da vecchio saggio di paese (sommesso, ma anche robusto, deciso, chiaro) che ti snocciola i suoi ricordi, filtrati dai suoi desideri. Con alma e gusto del narrare ti porta in tempi e luighi dimenticati, ti trascina al rimpianto, alimentando speranze, subendo sconfitte e preparando crepuscoli: gioie e vittorie.

Quello che però esce fuori di veramente importante è lo spirito giovane, in ascesa, dell’autore. Si tratta di una importante lezione di scrittura, da ben considerare, ma che bisognerà faticarer molto affinché sia riconosciuta aldilà da generiche parole di elogio.

Da parte mia sono pronto a dare il mio contributo per rompere le barriere di omertà intorno elevate intorno al valore dal mediocre e consueto. Sono pronto a trasformare queste note in una recensione (ad esempio) sempre non vi sia altri disponibili a parlarne in modo più appropriato. “Quando le radici” merita. Ha sfondato le porte principali della FS (un atto di violenza sulle consuetudini del genere) e nessuno dovrà e potrà fare finta che non sia successo, o limitarsi a inchini formali, prima di relegare il romanzo nel dimenticatoio [tentare, almeno]. Sarebbe proprio un peccato se gli astronavisti riuscissero a farlo uscire dalla porta di servizio alla chetichella, [dopo che tu sei riuscito a farlo ammettere dalla porta principale].

Perdona la lunghezza del tutto. Mia moglie mi ha già sgridato, dicendomi che non è giusto fare un romanzo sul romanzo (quanto ha ragione!); e men che meno infliggere estenuanti annotazioni a persone che stanno lontano e non possono dire per tempo: basta!

Nessuna notizia dalla Jugoslavia? Io no.

Dalla Russia scrivono di avere esaurita l’antologia con il mio racconto.

Saluti comunisti

Mauro Antonio Miglieruolo

Via Antonio Bennicelli 70

00151 Roma

PS – Come ho scritto male! Non rifaccio la lettera per non perdere altri pomeriggi…

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1 Sul blog di Miglieruolo con il titolo “Quando il nemico si avvicina” – pubblicato in quattro puntato ai seguenti quattro indirizzi:

QUANDO IL NEMICO SI AVVICINA – 1

http://miglieruolo.wordpress.com/2011/11/16/quando-il-nemico-si-avvicina-2/ http://miglieruolo.wordpress.com/2011/11/23/quando-il-nemico-si-avvicina-3/ http://miglieruolo.wordpress.com/2011/11/30/quando-il-nemico-si-avvicina-4/

e sul blog di Daniele Barbieri con il medesimo titolo, sempre in quattro puntate, ai seguenti indirizzi:

http://danielebarbieri.wordpress.com/2011/10/22/quando-il-nemico-si-avvicina-1/

http://danielebarbieri.wordpress.com/2011/10/29/quando-il-nemico-si-avvicina-2/

http://danielebarbieri.wordpress.com/2011/11/05/quando-il-nemico-si-avvicina-3/

http://danielebarbieri.wordpress.com/2011/11/12/quando-il-nemico-si-avvicina-4/

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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