Due citazioni di Montale, quasi degli aforismi

di Mauro Antonio Miglieruolo

1) Sono poco adatto alla vita, sempre sulla difensiva, ho sempre cercato di non sporcarmi le mani. Mi giudicheranno gli altri.

Potrei dire lo stesso di me, lasciandomi andare a un desiderio di confronto che nasce dal fatto che in molti trascurabili particolari ci somigliamo. Come Montale infatti non addottorato (uguale diploma in Ragioneria), come lui autodidatta, trascinato da una passione cieca verso la cultura (che in me assumeva le forme di una passione incontrollata anche per le più esili tracce culturali); come lui portato alla solitudine, determinata dallo stesso “male di vivere” del quale si dice sia scaturita la sua poesia e comunque dalla mia certa difficoltà a intrattenere rapporti con il prossimo, rapporti che pure amo.
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Qui però si fermano le equivalenze (ah! Sì, dimenticavo la pigrizia, che è solo fisica e mai intellettuale, spazio in cui l’attività è sovradimensionata). Perché Montale appartiene all’estremo Nord (Genova), io all’estremo Sud (Grotteria, Reggio Calabria); lui ha vinto il premio Nobel (1975), io nulla che sia degno di menzione (il Premio Italia nel 2007); lui ha attraversato indenne gli anni della fantascienza, dalla nascita al declino, io invece me ne sono lasciato travolgere. Lui per apprendere l’inglese si è piegato a leggere libri gialli, divertendosi pure; io al romanzo d’investigazione mi sono adattato per pura disperazione, quando restavo senza risorse finanziarie per procurami quelli di altro tipo. Allora me li facevo imprestare, rassegnato a leggere di questi strani libri dei quali tutti si appassionano ma nei quali raramente la vera emozione e il vero stimolo intellettuale sono di casa (salvo le perle rare Hammett e Chandler).
Per la verità le equivalenze e i contrari si fermano non perché del tutto esaurite, ma perché lui è Montale e io solo Miglieruolo (o anche Migliaruolo), pur se un Miglieruolo compiaciuto di poter su se stesso e sull’altro discettare: poter fare e disfare.
Ossi di Seppia, la sua prima opera, eccellente e riconosciuta. La mia prima, Come Ladro di Notte, opera accerchiata dai suoi stessi limiti, che mi ha paradossalmente procurato quel pochino di fama del quale ancora godo; e in qualche misura soffro. E però oggi le circostanze mi concedono di criticarlo, il Montale imbavagliato dalla morte, autorizzato io dalla permanenza in vita, anche se limitato dalla necessità di moderarmi: correttezza impone di considerare che la mia persona viene dopo, prima di me viene l’etica. Devo accettare in ogni caso (l’accetterebbe anche Montale), accettare e farlo presente, che noi tutti siamo nelle mani delle generazioni che verranno. Quindi prendere atto (prendere atto per presentare quest’atto ai lettori) della possibilità dell’uso e dell’abuso che si può adoperare su chi non è più qui tra noi, in grado di offendersi o difendersi o divertirsi per le scempiaggini o acutezze che la sua attività ha saputo suscitare.
Diamo il buon esempio. Inizio io: mi inchino a chi è venuto prima di me e sulle cui spalle mi innalzo. Non voglio si dica un giorno, a proposito del mio nome, ammettendo che ci sarà il giorno in cui verrà pronunciato, che chi di spada ferisce, di spada perisce. Non ho nulla da dire contro Montale e contro chiunque abbia meritato un po’ di fama. Non dite nulla contro di me, salvo che nel presente: nel presente sì, vi autorizzo, domani astenetevi se potete. Ho vissuto come ho saputo, inclemente io per primo contro me stesso, al quale non ho risparmiato nulla, nessuna trascuratezza, nessuna fuga dalla realtà. E mi ricordo, giovanottino imberbe, incosciente e disperato e presuntuoso, che da me stesso mi mettevo in castigo, in un qualsiasi angolo della casa e piangevo, la faccia contro il muro, non riuscendo a capire, disorientato dal tutto che mi presentava la vita, sconcertato da quelle che vivevo come persecuzioni. E come per altro accettare la realtà, quando da essa non derivavano che minacce o al più un vissuto di puro calcolo, per sopravvivere la freddezza, mentre ogni minuto sorgeva in me la voglia di passione. La vita mi porgeva la mano presentandosi con un nome, ma quando cercavo di tenere la presa m’imponeva il distacco, in nome di tutt’altro cognome.
E mi capita di domandarmi, io stupido, come fosse possibile che nessuno ne avesse pietà, e lo raccogliesse tra le braccia per guidarlo e confortarlo, per farlo cresce oltre la presunzione con la quale il poveretto uccideva ogni possibilità, credendo di molto poter fare e che poi pure faceva, aiutando, difendendo, battagliando, ma alla resa dei conti girando a vuoto nell’impresa di costruire la vita, la propria tormentata vita di desolazione.
Ignoravo la nozione più importante: che la domanda era in me, le risposte pure, io la soluzione: era in me insieme a quel che presumevo mi mancasse e invece non mi mancava, aspettava solo di essere scoperto e adoperato. Questo però nessuno aveva provveduto a dirmelo. Nessuno m’aveva fatto sapere che difendersi non equivale a isolarsi; che essere amato e meno importante dell’amare; che se il destino ti nega anche l’ovvio è perché tu impari a non volere nulla che possa renderti schiavo, suddito, come io ero stato, ero e forse ancora sono. Nonostante avessi imparato a tenermi lontano da tutto, i “no” che avrebbe potuto essere “sì” e l’indifferenza e le inaccortezze, la slealtà anche delle persone vicine mi feriva. Il problema è che facevo riferimento a un mondo irreale, nel quale il negarsi delle persone costituiva un impensabile, un vero orrore. Perciò mi negavo a mia volta, io stesso trasformato in un vero orrore. Perché in effetti, cinquantanni e più ci son voluti per apprenderlo, non si tratta di tenersi lontano dalle brutture del mondo (si rinuncia in questo modo anche alle bellezze), ma di subirle con un sorriso, indisponibili a soffrirne…
Povero Montale e il suo male di vivere: chissà se anche lui ne ha sofferto oscuramente e di nascosto quanto ne ho sofferto io? Chissà se anche lui, a un certo punto è riuscito a uscirne, dal peggio almeno, tramite l’assunzione di responsabilità che comporta avere quale riferimento sempre se stesso? Il darsi quel che nessuno può, se già tu non te lo dai? E se poi arriva dagli altri, meglio, si somma all’equilibrio interiore già conquistato di tuo, ti arricchisce anche della positività di un bel rapporto umano.
Chissà se possedeva l’apertura di cuore che solo il coraggio può procurare (ha! IO CORAGGIO PROPRIO NON NE AVEVO, non ne ho!)? La sfida contro i pericoli, la resistenza ai colpi che continuavano ad arrivare, l‘accettazione delle ferite delle quali soffrivo e quasi non riuscivo a vedere. Quel povero piccolo IO che, ignaro di tutto, insistevo nel cercare negli altri quel che gli altri, anche i volenterosi, erano impotenti a dare, tutti noi indifferenti, essendo l’indifferenza reciproca non altro che il riflesso dell’indifferenza di ognuno verso se stesso. Chi è infatti in grado di superare l’abisso della solitudine che un poveretto, cioè la maggioranza di noi, ha scavato nelle oscurità dell’interiore? Io allora pensavo di sapere molte cose, e non sapevo nulla.
Tenetene conto, se potete.
Sappiate che intendo perire nel mio letto, ucciso più dagli anni che dall’intelligenza.

26novYerkaAMAZON CLOCK MAKER

2) Se la vita è un labirinto, sono passato in mezzo a innumerevoli interstizi senza riportare gravi danni, non so se per abilità, forse per caso.

GRAZIE, amico Eugenio, per aver parlato anche per me che ho poca voce per dirmi come si conviene: come a ogni uomo conviene d’esser detto.
Il ruolo dei poeti è proprio questo: dire agli umani, quel che gli umani non sanno dire di sé; quel tanto di cui temono, ma segretamente auspicano che qualcuno glielo dica.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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