Due lavori di un’ex coppia teatrale – Dopo la fine di un felice connubio

Susanna Sinigaglia

Due lavori di un’ex coppia teatrale

Dopo la fine di un felice connubio

Il duo Deflorian-Tagliarini sta procedendo decisamente su strade separate. Già l’anno scorso avevo visto la loro prima performance da soli e li avevo entrambi apprezzati.

In Un’andatura un po’ storta ed esuberante. Emersione n. 1, Tagliarini aveva narrato il suo percorso biografico-artistico-umano con grande naturalezza, senza rinunciare all’uso di materiali semplici a sostegno della sua azione, introducendo la danza che nel cammino artistico con Daria Deflorian aveva trascurato. Così l’aveva introdotta come elemento del suo racconto, passando in modo un po’ improvviso e impertinente dalla parola alla danza e viceversa. Autentico e originale.

In questo suo secondo spettacolo in coppia con Gaia Ginevra Giorgi al suono live, La foresta trabocca, purtroppo le intenzioni mi sembrano tradite.

 

 

 

 

 

 

 

Nella presentazione della performance, come si legge nel comunicato stampa di Triennale Teatro, avevo colto un lato interessante nel riferimento al lavoro di ricerca “del teorico queer Jack Halberstam, autore del best-seller Female Masculinity (1998) e direttore dell’Institute for Research on Women, Gender e Sexuality della Columbia University. Indagando il concetto di fallimento, Halberstam ci conduce nell’affollato mondo dei ‘perdenti’, proponendoci una nuova visione dove smarrire la strada, dimenticare ed essere dimenticati, essere indisciplinati e improduttivi si rivelano strategie possibili per stare al mondo… Come in una foresta, la materia vibra e il corpo del performer si muove per tentativi, si riposiziona, procede per frammenti”. E ancora: “La danza, in intima relazione con il suono live, è esposta a interruzioni, tradimenti e imprevisti in una scena che infesta ed è infestata”. Ecco, non ho trovato in quel che ho visto qualcosa che mi riportasse a queste premesse, che forse si addicono meglio a Un’andatura

L’idea di coinvolgere il pubblico distribuendo schede trasparenti con frasi un po’ a effetto (a me è capitato “che cosa fai quando non fai?”), che il performer avrebbe interpretato su indicazione di spettatori e spettatrici, si è rivelata piuttosto fragile tranne che quando due spettatori hanno avuto l’ardire di pronunciare ad alta voce la frase scritta sul loro foglietto. Il rapporto con la partner mi è parso debole e il tutto si è risolto in una forzatura, un lavoro un po’ artefatto con qualche pretesa di troppo  e, alla fine, abbastanza sconclusionato. Insomma, deludente se confrontato con il primo. È come se Antonio Tagliarini abbia voluto sconfinare verso territori non ben conosciuti e che non gli appartengono. Come quando per uscire di scena, si è infilato sotto il pavimento di tessuto bianco che la ricopriva per poi ricomparire dileguandosi dietro le quinte. Così, mi è subito ritornata in mente la performance del giovane artista svizzero Pierre Piton vista nell’ambito del Danae Festival il 30 ottobre scorso al DiDstudio di Ariella Vidach e Claudio Prati. Il performer, fra mille acrobazie caratteristiche del suo stile, aveva eseguito sul pavimento del DiDstudio esattamente lo stesso “esercizio” che, mi hanno raccontato, esibisce regolarmente sui palchi di molti spazi teatrali in giro per l’Europa…

Daria Deflorian ha portato in scena La vegetariana. Lo spettacolo è tratto dall’omonimo romanzo di Han Kang, scrittrice coreana premio Nobel per la letteratura di quest’anno. Della performance presentata l’anno scorso, Elogio della vita a rovescio, Daria Deflorian era autrice e regista ma non interprete. Anche in questa c’è un riferimento alla Vegetariana, ma molto velato in quanto costruita insieme ad altri due racconti di Han Kang che l’autrice e regista ha saputo legare magistralmente, dove l’ultimo sembra portare a compimento la tragedia appena tratteggiata negli altri due.

Nella presente Vegetariana invece si narra la sua vicenda dall’inizio alla fine, dando però troppo spazio al testo, inibendo in tal modo il simbolico che pure sarebbe molto presente. Si coglie nel racconto raccapricciante della morte di un cane che aveva morso al polpaccio la protagonista da piccola, poi ucciso brutalmente dal padre di lei costringendolo a correre legato all’auto fino allo sfinimento, non solo come punizione per il morso alla figlia ma anche perché la carne del cane è molto più tenera se la si scuote in quel modo. Qui il racconto prende alla gola, crudeltà e cinismo assumono una valenza universale.

La vicenda della donna che improvvisamente si scopre vegetariana per ripulsa verso la carne, e che rifiuta l’amplesso con il marito perché ha odore di carne, è invece più descritto che vissuto. Perciò l’andamento lineare del racconto che per contrasto sarebbe in grado di evocare immagini potenti per la loro drammaticità, come ci sembra potrebbe essere nelle intenzioni della scrittrice, non raggiunge questo obiettivo.

 

 

 

 

 

 

La ridondanza del testo soffoca le immagini, i riferimenti alle metafore nascoste nelle sue pieghe. Di scena in scena, di episodio in episodio si arriva al termine dello spettacolo senza nemmeno capire esattamente che fine abbia fatto la protagonista. È viva, è morta? Non si capisce… Inoltre, le difficoltà create dall’eccesso di testo determinano gli inciampi della parola che si registrano varie volte negli interpreti. Quello che comunque emerge molto chiaramente dal lavoro è il dramma delle solitudini, la solitudine di ogni singolo protagonista che non trova nessuna possibilità di essere, se non colmata, almeno lenita.

Ed è un dramma che viene paradossalmente accentuato dalla sensazione che Daria Deflorian (nel ruolo della sorella maggiore della vegetariana), in scena, non abbia referenti. L’attrice che interpreta la vegetariana è parecchio più giovane, è brava

ma è molto concentrata su se stessa; con gli altri due interpreti maschili (il marito della vegetariane e suo marito) ha poche interlocuzioni.

Perciò sembra quasi che lei reciti da sola, contrariamente a quanto accadeva quando aveva come partner Antonio Tagliarini, con cui era costantemente in relazione.

 

 

 

 

 

 

 

Non è mia intenzione scrivere una recensione di rimpianto ma, a mio parere, sarebbe auspicabile che i due artisti ritrovassero alcuni elementi del passato, caratteristici del loro connubio e presenti nel loro primo lavoro da soli, che potrebbero essere rilanciati illuminandone ancora la strada pur se in modo rinnovato.

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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