é colpa mia

Mi chiamo Fabio, ho 33 anni e faccio il giornalista. Insomma, non è proprio vero che questa sia la mia professione, ma insomma, faccio qualcosa che si avvicina all’idea che ognuno di noi ha di giornalismo. Una volta (così raccontano) questa era una bella professione, illuminata, piena di slanci, di dedizione, interesse per il proprio lavoro, approfondimento. Oggi questa professione si è trasformata. Inserita in un sistema infame si è trasformata in una professione balorda.

Ho scelto di fare il giornalismo scientifico. La chiamo “comunicazione scientifica” perché “divulgazione” richiama alla mia mente quel “parlare con il volgo” che voglio cancellare dalla mia testa. Tanto per esser chiari: il primo “volgo” sei tu che spieghi, non chi ti ascolta. E comunque, faccio il giornalista. Suona proprio bello da dire. Ma non è vero. Lavorare vuol dire fare un mestiere, impegnarsi per farlo bene, ed essere retribuiti per farlo. Quindi, io NON faccio il giornalista. Lavoro (perchè perdere del tempo davanti ad un articolo scientifico è un lavoro, intervistare una persona è un lavoro, montare una trasmissione è un lavoro) ma non vengo retribuito.

Chi è che non mi retribuisce? Quello che dovrebbe essere il mio datore di lavoro, cioè quell’ente che usufruisce del mio lavoro gratuito e volontario. Un ente che, nella fattispecie, imposta il suo palinsesto parlando di precarizzazione del lavoro, di diritti dei lavoratori e di lotta al capitale. Ma è un lavoro volontario, me l’avevano detto da subito, lo sapevo già da prima. Quindi la colpa della mia condizione non è attribuibile a chi non mi paga, ma a me stesso che ho deciso di sottostare a queste condizioni.

Quindi la colpa è solo mia.

Curioso vero? Non è la stessa cosa che è stata detta ai lavoratori della fiat? Se volete i vostri diritti, perderete il lavoro, e, nel tal caso, sarà solo colpa vostra. Se invece accettate delle condizioni più scadenti, allora il lavoro lo potrete avere. Chi nel grande, chi nel piccolo, il sistema si ripresenta uguale a se stesso.

Vediamo allora come si fa a trasformare questo che è un hobby in un lavoro retribuito. Vogliamo ridere? Si intensifica il tempo di lavoro “gratuito” per imparare a fare il “mestiere”. Si pagano i viaggi in treno per andare a intervistare i ricercatori, si compra un mixer e un microfono panoramico per fare le interviste da casa, si pagano i paper pubblicati su science, nature o bmj, si studia (tanto), e si fa diventare quello che era partito per essere un hobby un effettivo lavoro.

Ah, dimenticavo: la colpa è sempre mia.

Si dovrà pur campare? E allora si cominciano a fare una marea di lavori sottopagati (sempre in campo scientifico). Si animano i bambini parlando dell’elettromagnetismo, si parla di astronomia dentro un planetario, si spiega loro la matematica con le bolle di sapone, si raccontano le favole legate alla scienza, e si accumula una serie di esperienze così vasta che anche un “lavoratore” nel tuo campo non si sognerebbe di avere. Poi ti fermi un attimo e guardi indietro. Cosa ho in mano? Niente, neanche i contributi.

Ah, dimenticavo: la colpa è sempre mia.

Poi, piano piano, si prende forza (o coraggio), si capisce di essere anche diventati bravi, e che, in fondo, sarebbe giusto che qualcuno ti pagasse per fare quello che fai. E allora si scrive un curriculum, poi lo si riscrive in formato europeo perché lo vogliono in formato europeo, e poi si comincia a sperare. Tutt’attorno c’è però il silenzio. Nessuno risponde. Nella migliore delle ipotesi qualcuno risponde dicendo “lei è troppo qualificato per i nostri bisogni”. Cominci ad andare ai convegni di comunicazione della scienza, senti un po’ in giro, e scopri di non essere il solo in questa condizione. Scopri che chi innova questo mestiere ha poco meno (o poco più) di 30 anni, e lo fa, come te, nella maggior parte di casi, gratuitamente.

Ah, dimenticavo: la colpa è sempre mia.

E allora pensi di aver perso tempo, di aver dedicato stupidamente ben 10 anni della tua vita ad un sogno irrelizzabile e privo di prospettive, dove lavorare (sottopagato o anche gratis) è una concessione del tuo datore di disoccupazione, dove i tuoi sforzi son tutti vani. Sei diventato introverso, sospettoso e individualista. Non ti riconosci più.

Ma la colpa è davvero tutta mia?

Jolek

  • Caro Fabio, alla domanda retorica della fine del tuo articolo, l’ovvia risposta: no, non è tutta tua la colpa. E mi dispiace tanto. Gente come te se ne sta andando via dall’Italia.

    Che possono fare i tuoi lettori davanti a quello che racconti? Dove ci porterà la consapevolezza? È cambiabile la situazione?

  • Caro Fabio,
    tutta la mia comprensione ai tuoi 10 anni di “comunicazione scientifica, ma anche partecipazione, empaticamente sofferta dai miei 40 anni di volontariato in archeologia preistorica.
    I primi 10 come collaboratore volontario in un museo civico, i restanti (e quelli in corso) come “outsider” (in ricerche, sperimentazioni e pubblicazioni), compresa una deludente (anche e soprattutto umanamente) esperienza di Coop., quando già avevo capito che le cosidette coop. altro non erano che caporalato culturale e, per pochi, trampolini di lancio verso nicchie istituzionali. Nelle quali venire assorbiti culturalmente rispetto alla “passione” di cui ci si sentiva portatori in nome di una retribuzione tanto agognata.
    Difetti del mondo archeologico e della comunicazione? Ahimé no: ho anche intercalato esperienze sindacali e persino in una primaria associazione ambientalista. Le dinamiche erano identiche.
    La mia conclusione: non é l’acculturazione o meno che fa la differenza ma l’idea di socialità che permea ciascuno di noi e il nostro paese (su altri non ho esperienze adeguate per esprimermi) e la sua strutturazione profonda in “vip” e “nop” a tutti i livelli, anche i più modesti. Con il collante della raccomandazione, onnipresente.
    Ma se é “passione” difficile negarla anche davanti all’evidenza più bieca: credo faccia parte dell’identità personale.
    E la passione non é mestiere, può diventarlo ma deve restare non dipendente per rispetto di sé stessa e quindi di noi stessi.
    E continuare a sentirla é già un bicchiere mezzo pieno, anche se per l’altra metà occorre sempre arrangiarsi ( la definisco la “sindrome del salmone culturale”: una vita controcorrente).
    Cito, a nostra consolazione, un’affermazione di Konrad Lorenz a proposito della differenza fra “scienziati” e “scientisti”: questi ultimi hanno per fine ultimo occupare tutte le nicchie ecologiche esistenti (fino a farsene costruire, clientelarmente, anche di nuove, spesso duplicati).
    Gli scienziati invece, avendo per fine la scienza e non le nicchie e trovando queste tutte occupate, sono costretti ad inventarsele, realizzando così (faticosamente, passo dopo passo) la loro passione di ricerca.

    Abbracci culturali,

    Giorgio

  • “…la passione non é mestiere, può diventarlo ma deve restare non dipendente per rispetto di sé stessa e quindi di noi stessi”
    Vero, non posso che approvare; però vorrei dire anche che la Passione non deve nemmeno essere martirio: i martiri servono solamente per essere messi in bella mostra come esempio di abnegazione e “passione” dall’autorità di turno. Ma a lungo andare si rischia che l’appassionato martirizzato perda di vista il vero fine della sua passione(che magari nel frattempo è diventa mestiere)e perda molto più tempo a crogiolarsi nel suo martirio o diametralmente a ribellarsi a questo, piuttosto che a svolgere bene e con passione il proprio lavoro.
    Morale: a lungo andare ci perdono anche i presunti datori di lavoro o comunque più in generale, chiunque usufruisca del lavoro(gratuito o meno) dell’appassionato

    massima solidarietà a te, Fabio, e a tutti quanti si trovano in situazioni simili

    Un ascoltatore di Caccia al fotone e “Appassionato”

  • sintetica: tutta la mia comprensione. mio padre, 20 anni fa, mi disse: “io non sono preoccupato per le tue scelte di lavoro, etico bellissimo, motivante. Non mi preoccupo per il tuo lavoro, che ne avrai sempre molto, ma per la tua remunerazione…. qualcuno ti pagherà? giusto per vivere…”

  • Sabato 14 maggio 2011 puntata 200 – e ultima – di “Caccia al fotone”; potete ascoltarla anche qui, “My only friend, the end…” in data 15 maggio.
    Cosi “Caccia al fotone” chiude perchè Fabio va in cerca non di un “lavoro” ma di “remunerazione”, come scrive qui sopra Donata, d’un minimo di reddito perchè non ha una famiglia che nuota nei soldi.
    Quando, nelle ultime ore, ho raccontato che per 200 volte una persona ha costruito gratis una bella trasmissione giornalistica (basata su interviste preziose, preparate da un competente e non da un tappetino ignorante) c’è chi non mi ha creduto: davvero gratis? davvero bella?
    Davvero.
    “Caccia al fotone” chiude e un po’ chiude anche Fabio; spero di no ma se l’Italia non cambia rapidamente un bel po’ … sarà assai difficile che Fabio possa riprendere il suo lavoro (lo sottolineo: lavoro) con un minimo di remunerazione come giusto che sia per tutte/i.
    Dovrei aggiungere che anche io (non a 34 anni ma a 63) non mi trovo – per la remunerazione – in una situazione molto diversa e che conosco altre/i che hanno fatto e fanno bene il giornalismo senza un minimo di reddito. Ma che Fabio non sia il solo forse consola o spiega? O dovrebbe farci capire di più e arrabbiare il doppio?
    Fabio farà il falegname o il cuoco se gli va bene o più probabilmente il precario di mille lavori con solo qualche occasionale settimana l’anno in cui qualche scuola o ente pubblica gli garantirà due soldini (ma proprio due) per parlare di scienze a ragazzine/i annichilite/i dalla Gelmini e brutta compagnia. Lui probabilmete in quei pochi giorni ne salverà un po’ dall’ignoranza e dalla superstizione.
    Ma “Caccia al fotone” scavava di più, almeno in potenza informava (e fpormava) un sacco di gente, giovane e non. In conclusione ci perde Fabio certo ma soprattutto ci perdiamo noi tutte e tutti.
    (db, 16 maggio 2002)

  • Sono una persona che è stata intervistata da Fabio in Caccia al Fotone.

    Sono una persona che ad un certo punto se ne è andata via (anche se aveva una posizione in Italia) perché il sistema Italia tarpa le ali a chi ha passione. E – lo voglio dire con chiarezza – sono andato via sotto il ministero (?) Mussi, non Gelmini. Finiamola di dire che è tutta colpa della Gelmini. La Sinistra di Mussi per l’Università e la Ricerca Scientifica non ha fatto nulla e non far nulla è dannoso, anche se è passato sotto il silenzio connivente dei docenti universitari, refrattari ad ammettere di avere un ministro incurante votato da loro stessi.

    Sono una persona che ha apprezzato Fabio per l’entusiasmo, la passione e la dedizione. E ho scoperto qui che lavorava GRATIS. I volontariato scientifico è non etico, la ricerca di qualità e la sua divulgazione non sono optional. Mi sconcerta sapere che una realtà da “radio libera” sia in realtà così poco etica. Fabio è stato tradito, nella sua professionalità di giornalista che riempiva una nicchia così bistrattata e poco curata a livello Nazionale (se ci pensate, siamo passati da Piero Angela a Alessandro Cecchi-Paone a Alberto Angela…) con entusiasmo e passione. Ma è stato tradito come persona, come uomo che si realizza nel suo lavoro. Questo non lo perdonerò mai. Voi che vi riempite la bocca politichese di “diritti dei lavoratori”, che vi commuovete per l’importanza della sicurezza sul lavoro, che gonfiate il vostro petto con il suono del termine “solidarietà” e poi lasciate che un entusiasmo genuino passi sotto il termine “volontariato” (ma i soldi della pubblicità durante la trasmissione Caccia al Fotone a chi andavano????), voi, proprio voi: VERGOGNATEVI!

    Alessandro

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