E dato che Margaret Atwood scrive…

anche buona fantascienza, eccola di Marte-dì

«MARGARET ATWOOD e la scienza dell’ecologia» di Valerio Calzolaio (*)

Tra il 2003 e il 2013 Margaret Atwood pubblica tre libri ambientati nel futuro prossimo, circa cinquant’anni dopo in un ecosistema sconvolto da una catastrofe ecologica. Era già una scrittrice di fama mondiale, con trent’anni di carriera e riconoscimenti. Vi era appena stato lo straordinario successo del capolavoro The Blind Assassin (2000, Booker Prize e Hammett Award, edito in Italia l’anno successivo), una torbida vicenda familiare novecentesca nel passato del Canada. Passò a un altro snodo della propria ricerca letteraria. Il termine cli-fi non veniva usato quando uscì il primo, eppure la trilogia viene oggi considerata una sorta di pietra miliare della climate fiction, quasi un vero e proprio campo letterario, appunto la cli-fi, branca contemporanea della fantascienza, science fiction, l’amata sci-fi. I tre libri dell’Adamo pazzo, MaddAddam Trilogy sono: Oryx And Crake (2003, L’ultimo degli uomini), The Year of the Flood (2009, 2010 in Italia), MaddAddam (2013, “L’altro inizio”, sempre per Ponte alle Grazie 2014). Avevano l’obiettivo di offrire una nuova prospettiva culturale non un nuovo genere letterario. Va detto che nemmeno il romanzo The Blind Assassin è propriamente un giallo o un noir, nonostante il titolo o crimini e misteri di cui è intriso; prevalentemente ambientato nel 1945-47 ricostruisce lo sviluppo e le crisi industriali, le relazioni sociali e familiari in una parte del Canada lungo la prima metà del Novecento con una narratrice di fine secolo. Il punto di vista è quello di due sorelle ed evidenzia ruoli e diritti delle donne come individui di un potere segnato dai maschi. E non mancano riferimenti al contesto ambientale.

Noi del noir evitiamo lunghe disquisizioni sulle etichette dei generi, tanto più su sci-fi e cli-fi: gli scrittori si sono sempre confrontati con l’ambiente naturale delle loro storie, anche per dare qualche base scientifica al rapporto dei personaggi con gli ecosistemi; vari scrittori da molto tempo narrano di futuro, più o meno terribile e fantascientifico, per descrivere possibili sviluppi del presente; esiste ormai una diffusa consapevolezza su alcuni raggiunti confini planetari e sugli effetti dei cambiamenti climatici antropici globali. Atwood stessa preferisce definire la propria letteratura speculative fiction, narrazioni per ragionare e re-agire, per far emergere con competenza e liricità i nessi fra scienza e politica, fra inquinamenti e disuguaglianze, per mostrare alternative fra scenari distopici e resilienze possibili, fra una distopia e un’utopia fantastiche, verosimili, comunque relative.

La trilogia considerata cli-fi descrive la fine della civilizzazione intorno alla metà del secolo in corso sulla East Coast; a quel punto una “catastrofe” ecologica, genetica e sociale è già avvenuta, tutti i tre romanzi descrivono le scarse e precarie relazioni umane sopravvissute con punti di vista diversi, intersecando poeticamente flashbacks e digressioni, miti culturali e questioni scientifiche, morti e rinascite di Adamo ed Eva. Non sono temi nuovi dell’universo narrativo della straordinaria scrittrice canadese, per certi versi l’intera opera ha sempre cercato, attraversando più generi (saggi, versi, sceneggiature, narrazioni varie per adulti e bambini), di vedere con realismo dove di brutto rischiamo di andare, per colpa o responsabilità di chi e su cosa fare leva per evitarlo: ripulsa, poesia, ecologia. Per altro, lo stesso The Blind Assassin ha atmosfere “gialle” su tre diversi piani temporali: la secolare storia della famiglia Chase, la vicenda del famoso omonimo romanzo (d’amore) e il futuro distopico sul pianeta Zycron (esigue bande di nomadi primitivi in mezzo a orribili distruzioni) che l’amato declama all’amata.

Le periodizzazioni della critica collocano nel 2007 il momento in cui si esplicita nella letteratura anglofona una tendenza alla climate fiction. Proprio Atwood riprese il termine e contribuì a renderlo “social”, insieme al proprio impegno contro ogni violenza. Da allora si citano alcuni precursori o pionieri e innumerevoli opere, letterarie televisive cinematografiche, siti hastag e pagine facebook. Il cli-fi si è caratterizzato per narrazioni che, a differenza della più parte della fantascienza tradizionale, non riguardano tecnologie immaginarie o pianeti lontani, piuttosto scenari ipotizzabili per un prossimo futuro del nostro pianeta. A esempio, quanto probabilmente accadrà se persisteranno gli effetti del climate change e avranno luogo gli scenari descritti dall’Intergovernmental Panel noto come IPCC: innalzamento del mare e sommersione di aree costiere, eventi meteorologici sempre più estremi, desertificazione in aree ora solo un po’ secche o siccitose. Il 2007 fu l’anno in cui il Premio Nobel per la pace venne assegnato all’IPCC e ad Al Gore.

Il romanzo e il film con contenuto climatologico sono divenuti spesso uno strumento utile agli sforzi collettivi per affrontare il riscaldamento globale, per superare negazionismo e diffidenza. Dan Bloom, laureato a Boston nel 1971 in letteratura, poi giornalista in giro per il mondo, attivista ecologista, usò il termine “cli-fi” su Amazon, da allora lo ha “gestito” in saggi e rapporti. Non voleva definire un nuovo “genere”, ma solo trovare una fraseologia accattivante per valorizzare la letteratura che si occupa di cambiamenti climatici e di riscaldamento del pianeta. La mattina del 23 aprile 2012 Margaret Atwood twittò: “ecco un nuovo termine, cli-fi” e citò l’articolo di Bloom, suscitando interesse e apprezzamento ancor più larghi. Con l’affermarsi della nozione, il mondo dell’editoria iniziò a considerarlo come una nuova assestante categoria. In un decennio il cli-fi è divenuto un fenomeno letterario globale, un fenomeno noir visto che descrive alcuni crimini contro l’umanità (e gli ecosistemi), chi li investiga e il conflitto (non proprio e non sempre a lieto fine) che si determina. Tratta di ingiustizia sociale e ambientale, il colpevole (collettivo) viene ancora poco e male perseguito.

Pochi ricordano che anche in Italia nello stesso 2007 cominciò a uscire la collana Verdenero, di cui si discusse già nell’edizione di dicembre 2007 del Noir in festival. Tutti i maggiori scrittori italiani del noir uscirono con un testo appositamente scritto per la collana, libri legati alla scienza dell’ecologia, non solo al clima. La scelta della noir climate fiction è meno deliberata, allora fu Baldini (“Melma”, Edizioni Ambiente 2007) ad adottare una prospettiva cli-fi, molti altri poi, con particolare efficacia Arpaia nel 2016 (“Qualcosa, là fuori”, Guanda). Baldini colloca il suo romanzo nel 2050, Arpaia illustra la vicenda del millennial napoletano Livio dal 2038 (dottorato in California) al 2078 (fuga dal Sud Italia verso il nord Europa), alle prese con i peggiori scenari descritti dall’IPCC (nel caso prevalga, come purtroppo sembra, l’opzione business as usual). Niente spettacolarizzazioni, il nostro catalogo di dieci anni fa spiegava che “il noir ecologista fa bene all’ambiente”: è fecondo parlare dei crimini contro gli ecosistemi e di un nuovo patto di sopravvivenza sul pianeta (non del pianeta), fondato sulla maggiore rinuncia possibile al carbone, sull’aumento dell’efficienza dei carburanti e dei combustibili, sulle fonti rinnovabili di energia, sull’efficiente assistenza ai nuovi paesi industrializzati e sull’aiuto sostenibile ai paesi in via di sviluppo.

Margaret Eleanor Atwood, Raymond Chandler Award 2017, ci è riuscita alla grande, memore della propria sopravvivenza ed evoluzione nelle foreste e nei ghiacci del Québec. Nata a Ottawa nell’Ontario nel 1939, seconda di tre figli, grazie all’infanzia immersa nella scuola della natura e ai genitori “scienziati” (padre entomologo, madre nutrizionista), ha sempre avuto grande attenzione alla vita come coevoluzione di specie e al pianeta come insieme di fattori biotici e abiotici non a “disposizione” degli umani. Prestissimo ha scelto la propria vocazione per la letteratura, leggendo, scrivendo, studiandola, riflettendoci, insegnandola. La bibliografia è ampissima e multiforme, solo in parte tradotta in italiano (poco i componimenti poetici e i saggi). Ora, con l’avvento di Trump, è tornato di moda il suo gran romanzo The Handmaid’s Tale (1985, Mondadori 1988, Ponte alle Grazie 2017), oggetto anche di una recente seguitissima trasposizione televisiva. Allora fu definito “inverosimile”, tuttavia l’Ancella aveva illustrato già oltre trent’anni fa un’America misogina occupata da fondamentalismo religioso (con istituzioni totalitarie) e degrado ambientale (con conseguente calo delle nascite), da oppressioni sessuali ed etniche, con una possibile fuga verso il Canada (oggi uno dei paesi con intelligenti, competenti, sostenibili e solidali politiche migratorie). In parte sono anticipazioni di una lucida testimone, in parte sono cicli della storia politica, in parte è una dinamica permanente del capitalismo contemporaneo.

Alla qualità letteraria non è forse indispensabile la coerenza di scelte e idee degli scrittori, né il fondamento culturale delle narrazioni. Atwood comunque garantisce entrambi. Sa di cosa parla: suscita emozioni perché le prova, si documenta con cura, raccoglie fatti accaduti e scenari veri, confronta con amici esperti la descrizione dei fenomeni, sceglie la precisione nell’uso evocativo delle parole. E cerca di agire secondo un principio isomorfico: vive e consuma con spirito critico, usa ovunque ironia e autoironia senza invettive e presunzioni, partecipa attivamente a informate campagne per la giustizia sociale, da molti anni è militante del Partito Verde canadese (pur sapendo che ogni dimensione politica ecologista ha una sua specifica storia nazionale). Amiamo leggerla perché scrive in modo stupendo, forse anche perché trasmette voglia di “diritti”. Molti individui, le donne, i migranti, gli inquinati, gli oppressi, le altre specie testimoniano ingiustizie che possono incontrare resistenza, la sua e la nostra indignazione. E capacità di rivalsa.

(*) ripreso dal CATALOGO NOIR DICEMBRE 2017

Redazione
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