Ecologia. I diritti negati alla Terra e a chi verrà dopo

di Gustavo Zagrebelsky (*)

Le generazioni future hanno fatto il loro ingresso nel dibattito pubblico. Ciò, perché la condizione dei viventi è oggi inedita. La Terra (intesa come ambiente fisico e sociale) per millenni si è pacificamente considerata la base di perpetua riproducibilità nel tempo della vita degli esseri umani, quali che fossero le offese che i suoi figli potevano infliggerle. Oggi non è più così. Le odierne capacità distruttive, di gran lunga superiori alle capacità rigenerative delle risorse della natura fisica e dei legami sociali, fanno dubitare circa la sensatezza della formula di Thomas Jefferson al tempo della Rivoluzione americana: «La terra appartiene ai viventi». Era, in origine, una formula polemica verso un passato opprimente, che esprimeva l’ansia di liberazione da un peso, per permettere l’espansione della creatività della generazione attuale.

Inquinamenti, risorse dissipate

Distruggendo la Terra, rompiamo un patto fra generazioni

Oggi, quella formula significherebbe cecità di fronte alle esigenze di futuro. Un tempo ci si poteva concedere il lusso d’essere ciechi; non più oggi. Le capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse comuni, sono tali da minacciare la riproduzione della vita. (…) Il discorso sui «diritti delle generazioni future» è un tentativo, se non di colmare la distanza, almeno di tematizzare la minaccia incombente su un pianeta le cui forze vitali, lo stock energetico e le sue capacità di rinnovamento sono in declino, insidiate da un consumo quantitativo e qualitativo crescente. È stato detto che per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano; oggi — segno di senescenza del nostro habitat — sono i figli a doversi prendere cura della loro madre Terra.

Le buone intenzioni si scontrano e soccombono di fronte agli interessi immediati. Le «generazioni future» chiedono moderazione nell’uso delle risorse alla generazione presente e dunque propongono un conflitto tra ciò che esiste e ciò che non esiste, appartenendo esse, per l’appunto, al mondo che deve ancora venire e nemmeno è certo che verrà. Così, gli inquinamenti, la produzione di anidride carbonica e di sostanze chimiche letali, la distruzione delle risorse ambientali ed energetiche, la tecnologia non solo di vita ma anche di morte, i mezzi di riduzione dell’autonomia personale procedono senza sosta per la forza della realtà, malgrado gli allarmi sempre crescenti e per lo più impotenti. Ciò fa temere che vi sia un’incoercibile forza interna al sistema di relazioni economiche e sociali entro il quale viviamo, una forza a sua volta nemica dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.

Le questioni così sollevate interpellano la nostra stessa visione costituzionale della vita. Il costituzionalismo può ignorarle? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino alle soglie del tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era peggiorato fino a comprometterlo. Il costituzionalismo non ha avuto, fino agli anni recenti, ragioni per preoccuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma, molti motivi ne ha oggi, e drammatici.

Per quale ragione la cerchia de «i tutti» che hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità, quale che sia il loro momento. Al tempo nostro, le parole di Thomas Jefferson dovrebbero essere sostituite con «la Terra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». «La Terra appartiene ai viventi», invece, spezza ogni legame di debito e credito tra ogni generazione e autorizza ciascuna di esse a sfruttare «la Terra» fino in fondo. Oggi sappiamo che, se fosse davvero così, correremmo il rischio di non poter parlare di «ogni generazione». In tal modo, il discorso sulle generazioni future ristabilisce il legame di debiti e crediti che per secoli si teorizzava esistere tra viventi e non viventi, cambiando però direzione: per secoli, i figli sono stati considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli.

I diritti di credito dei figli nei confronti dei padri possono essere considerati il risvolto al futuro di quello che Hans Jonas, in un testo fondativo di questa tematica, Il principio responsabilità, ha considerato essere la pretesa, fondamentale quanto altra mai, dei nostri successori di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi stessi abbiamo trovato. È sua la formulazione del cosiddetto «imperativo ecologico»: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra». Questa norma etica fondamentale rappresenta un’estensione nel tempo a venire dell’imperativo kantiano circa la necessaria idoneità a valere in generale della massima, cioè del criterio, d’ogni azione morale. Tale imperativo, nella versione di Kant, contiene un nucleo totalizzante, incompatibile con la pluralità degli universi culturali che caratterizzano le società umane. È un «imperativo imperialistico» e, come tale, svolse la sua funzione nel tempo dell’Europa-centro-del-mondo. Può funzionare senza minaccia d’intolleranza solo quando tutti si riconoscano pacificamente nel medesimo universo etico. Altrimenti, esso contiene una implicita, seppur inespressa, valenza aggressiva, colonizzatrice. Ma, l’anzidetto imperativo ecologico sfugge a tale difficoltà, in quanto si basa su un principio universale che non può non unire tutti gli esseri viventi: possiamo sì mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella dell’umanità; (…) Achille aveva sì il diritto di scegliere per sé una vita breve di imprese gloriose piuttosto che una lunga vita di sicurezza oscura (…); ma (…) noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali. Perché non abbiamo questo diritto e perché abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora né «in sé» ha bisogno di esistere, e comunque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi perché. Jonas suggerisce il dubbio che sia impossibile senza la fede in una religione, quantomeno nel senso della religiosità di un Thomas Mann, dichiarata in una lettera al filologo e studioso del mito Károly Kerény: religione «come contrapposizione alla trascuratezza e all’incuria, religione come attenzione, ponderazione, riflessione, coscienziosità, contegno prudente e sollecito, perfino come metus e, per finire, attenta sensibilità verso i moti dello spirito universale».

Tuttavia, a onta delle difficoltà, chi oserebbe proclamare un assioma contrario, cioè che qualcuno abbia, o che tutti insieme abbiamo il diritto di distruggere il mondo o di preparare per i nostri posteri una condizione di vita disumana in vista dell’egoismo della generazione alla quale apparteniamo o, ancor peggio, in vista dell’egoismo dei potenti che godono della loro potenza nella generazione alla quale appartengono?

Sarebbe, questa, una massima generalizzabile? Non c’è alcuna ragione per restringere alla sola contemporaneità il criterio morale di giustizia di cui parla la massima kantiana.

 

(*) ripreso da «Contro la crisi» con questa nota: Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky, «Diritti per forza» (Einaudi: pagg. 144, euro 12) chew è nelle librerie dal 21 marzo. – Pubblicato in accordo con Reiser Literary Agency.

LA VIGNETTA – scelta dalla redazioone della “bottega” – è di MAURO BIANI.

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