Economia e risorse minerarie in Nicaragua

Storie incredibili (eppur vere) di miniere ed estrattivismo

di Bái Qiú’ēn

Y aunque mi amo me mate / a la mina no voy. / ¡Yo no quiero morirme / en un socavón! (Quilapayún, 1969)

Io faccio il minatore non arrivo alla pensione. / È fatalità, è fatalità. / Per un crollo, un’esplosione a quarant’anni son già dei fu. / È fatalità, è fatalità. / Devo prendere o lasciare, muoio prima per campare (Paolo Ciarchi-Dario Fo, 1972).

I.

Stando ai dati macroeconomici forniti dalla Banca Mondiale, si stima che la situazione economica del Nicaragua nel 2021 sia ormai tornata ai livelli pre-2018 e che il PIL reale sia cresciuto del 10,3% (tra il 2007 e il 2017 la media era del 4,5%). Ottima notizia dopo tre anni consecutivi non proprio allegri, senza alcun dubbio. Anche se riteniamo che, in un Paese che si dichiara socialista, più che il capitalistico PIL dovrebbe essere calcolata la «felicità interna lorda», come in Buthan, la nazione più felice del continente asiatico e l’ottava del mondo pur essendo al 160° posto nella graduatoria del PIL. Poiché l’individuo – oltre ai bisogni di tipo materiale – ha necessità di carattere etico-spirituale, la «felicità interna lorda» misura il miglioramento degli standard di vita, comprendendo il benessere interiore, i valori culturali, la protezione dell’ambiente ecc. Ma sono passati i tempi in cui sulla facciata del ministero dell’Interno spiccava la scritta cubitale «Sentinella dell’allegria del popolo».

In Nicaragua, restando alla realtà attuale, i settori con la maggiore crescita accumulata durante l’anno sono stati l’estrazione mineraria (40,6%), l’edilizia (35,5%), il commercio (16,1%), l’industria manifatturiera (13,7%), gli hotel e ristoranti (10,5%).

Tale recupero è attribuibile a vari fattori positivi concomitanti, soprattutto la crescita degli investimenti privati ​​stranieri e delle esportazioni sostenute da prezzi favorevoli delle materie prime. Oltre a questi due elementi, si è verificato un notevole aumento dei consumi interni privati, ​​stimolati dal forte afflusso di rimesse dei migranti.

Nel discorso di insediamento per il quarto mandato presidenziale consecutivo, Daniel aveva affermato che il Paese «sta avanzando nella sua crescita economica. Si deve continuare a lottare, ovviamente. Il nostro obiettivo è dare continuità ai buoni progressi che abbiamo avuto fino all’aprile ‘18. Borrón y cuenta nueva. Andiamo avanti, cari hermanos nicaraguensi, costruendo la pace per combattere la povertà» (10 gennaio 2022).

Stando ai dati ufficiali dell’ente statale INIDE (Instituto Nacional de Información y Desarrollo) il tasso di povertà che nel 2009 era del 42,5%, alla fine del 2021 era del 14,6%, calcolato su coloro che hanno un ingresso giornaliero inferiore a US$ 3,2 (US$ 100 mensili). Non è secondario il fatto che nel 2019, prima della pandemia, questa percentuale fosse del 13,5%, un punto in meno. Per quanto il risultato sia comunque rilevante e incoraggiante, resta un milione di persone che si arrabatta alla meno peggio per sopravvivere. E non è che gli altri stiano molto meglio: il Prodotto interno lordo pro-capite nel 2021 era di US$ 2.250 (187,5 al mese). Con 210 multimilionari in dollari sull’altro piatto della bilancia: lo 0,003% della popolazione. Nel 2007 risultavano meno di 190 e tutti assai più poveri.

Per quanto in modo approssimativo, il PIL del Nicaragua si basa per il 35% sulle esportazioni, una percentuale simile è stimata per l’economia informale e circa il 20% proviene dalle suddette rimesse. Il restante 10% corrisponde ai prestiti interni e internazionali. Le stesse cifre del Banco Central evidenziano però che il 45% della forza-lavoro si trova in una condizione di subempleo, ossia lavora un giorno sì e uno no.

Il 30 marzo 2022 Leonardo Ovidio Reyes Ramírez, presidente del Banco Central del Nicaragua dal febbraio del 2014, ha presentato il documento Evolución de la Inversión Extranjera Directa (IED). Ossia le cifre degli investimenti stranieri. I numeri della IED sono decisamente incoraggianti: 1.471 milioni di dollari, equivalenti a oltre il 10% del PIL. Una boccata di ossigeno, essendo una quantità di denaro doppia rispetto al 2020.

Ce ne rallegriamo e magari fosse assai di più, poiché il progresso del Paese ci sta a cuore.

Naturalmente, la solita sproloquiante del mezzogiorno non ha potuto evitare di dire la sua: «Oggi ha presentato ottimi numeri di risultati degli Investimenti diretti esteri nel nostro Paese registrati lo scorso anno 2021: 1.470 milioni di córdobas» (30 marzo 2022). Forse Rosario crede che, come il balboa di Panamá, il córdoba equivalga al dollaro. Per sua fortuna, in Nicaragua non ci sono giornalisti locali che le possano chiedere quanto costa un chilo di pane o un litro di latte.

I settori economici con i flussi netti di investimento più elevati sono stati l’estrazione mineraria e l’energia con 466,5 milioni di dollari (38,2% del totale), l’industria manifatturiera con 263,4 milioni (21,6%), le comunicazioni con 174,8 milioni (14,3%), il commercio e i servizi con 146,4 milioni di dollari (12%).

I primi sei Paesi dell’elenco con i rispettivi investimenti in milioni di dollari, però, stupiscono un po’:

 

Paese investitore

US$

Stati Uniti d’America

444.300

Canada

213.800

Panamá

185.200

Messico

167.500

Spagna

108.000

Costa Rica

41.800

 

Gli investimenti statunitensi sono passati dai 263 milioni di dollari nel 2020 ai 444, con 180 milioni in più. Rappresentando un terzo del totale.

Una perfetta contraddizione con la situazione dei rapporti politici tra i due Paesi. Però, la stessa cosa si può dire per il Canada, la Spagna e il confinante Costa Rica. Nel documento presentato dal ministro, neppure si accenna alla Russia o alla Cina. Ragionateci sopra…

In compenso, se osserviamo con attenzione verso quali Paesi si dirigono le esportazioni nicaraguensi (US$ 3.594 milioni al 31 dicembre 2021), la meraviglia aumenta. In base ai dati relativi al primo bimestre di questo 2022 forniti sempre dal Banco Central, negli Stati Uniti d’America si esportano i seguenti prodotti per un corrispettivo valore in migliaia di dollari:

 

Prodotto

Tot. export

Export in USA

%

Oro

148.835

141.731

95,22

Caffè

121.135

56.620

46,74

Carne bovina

114.089

52.105

45,67

Sigari e simili

5.126

4.232

82,55

Aragoste

3.954

2.920

73,84

Pesce fresco

3.145

3.074

97,74

Pane e biscotti

97

95

97,93

 

Abbiamo elencato sette dei venti prodotti maggiormente esportati dal Nicaragua. In pratica, sia tutto l’oro sia tutto il pesce fresco arrivano in Gringolandia. Mentre dei restanti ne acquistano dal 45% all’97%. Ovviamente non hanno alcuna necessità di importare merci come i maní, le arachidi, essendo loro stessi tra i massimi produttori mondiali. Lo stesso vale per le bibite e altri generi.

In base ai dati forniti dal «potente vicino del Nord», la bilancia commerciale degli Stati Uniti rispetto al Nicaragua è in netto deficit: importa assai più di ciò che esporta. Per reciprocità, quella del Nicaragua con gli USA è in notevole attivo.

Appare evidente che, al di là di ogni facile retorica, il Nicaragua sia il più importante partner commerciale degli Stati Uniti nell’area del CAFTA-DR. Esportando verso «el enemigo de la humanidad» un terzo della sua produzione complessiva. Soprattutto l’oro, prodotto di prima necessità per le famiglie operaie statunitensi, specialmente quelle che vivono ad Harlem…

Al momento, il governo di Washington sta ancora valutando se e come sospendere il Nicaragua dal trattato di libero commercio CAFTA-DR che, ammesso sia possibile, comporta comunque tempi biblici. L’unico provvedimento che per ora è allo studio, è il blocco della quota aggiuntiva di zucchero da importare in questo 2022. Decisione che incide minimamente sul commercio complessivo tra i due Paesi, per quanto gli USA acquistino oltre un decimo della produzione esportata. Più che altro questa misura economica, se attuata, colpisce direttamente gli industriali produttori, a partire dall’Ingenio San Antonio della famiglia Pellas, la più ricca del Nicaragua e da sempre nemica della rivoluzione.

Ancora il Banco Central informa che le rimesse degli emigranti hanno raggiunto nel 2021 i 2,147 miliardi di dollari (quasi equivalenti alle entrate previste nella finanziaria per il 2022), dei quali 1,370 dai nicaraguensi che vivono e lavorano più o meno in regola negli Stati Uniti. Oltre la metà.

Nel 1990 i nicaraguensi censiti negli Stati Uniti erano 202.658, nel 2012 erano 405.601. Nel 2017 erano entrati 263mila nuovi migranti. Dal 2018 a oggi si è perso il conto, sebbene qualcuno parli di almeno sessantamila nicaraguensi entrati regolarmente o clandestinamente nel solo 2021. Facendo un conto teorico, se fossero mezzo milione, ciascuno di loro nel 2021 avrebbe spedito alle proprie famiglie US$ 230 ogni mese.

Sia come sia, il totale delle rimesse dei migranti corrisponde a circa il 16% del PIL. Quelle provenienti dagli USA è circa il 10%.

Di fronte a questi dati ufficiali, ci arrendiamo alla evidenza: che lo si voglia o meno, il Nicaragua dipende economicamente da Gringolandia.

La domanda del millennio, di fronte a questa realtà, è: può la Russia di Putin sostituire Gringolandia?

Stando sempre ai dati ufficiali, nello stesso 2021 il Nicaragua ha importato dalla Russia merci per un valore di US$ 31,5 milioni (grano, farina e autobus) e ha esportato per US$ 13 milioni (zucchero di canna, arachidi non tostate, carne bovina e caffè oro). Non occorre essere degli economisti per comprendere che è decisamente in deficit la bilancia dei pagamenti di Managua rispetto a Mosca.

Non sono noti investimenti russi in Nicaragua. Se esistono, rientrano nel segreto di Stato, come la stazione satellitare inaugurata nell’aprile del 2017 da Roscosmos nella laguna di Nejapa (Managua). Sul laboratorio Mechnikov è meglio stendere un velo pietoso e parlarne il meno possibile, per non infierire inutilmente.

Nel corso degli anni la Russia ha donato al Nicaragua farina, grano, olio, autobus e vaccini anti-Covid. Non è noto il valore complessivo dal 2007 a oggi. Genericamente, il 24 ottobre 2021 Daniel aveva affermato che «Con la Federazione Russa, a partire dal 2007, ha iniziato a svilupparsi una intensa collaborazione, dagli alimenti di base come il grano, nel campo dell’istruzione, della scienza, della tecnologia».

Sempre nel 2121, tramite la statale Roseximbank, Volodia Putin ha prestato al Nicaragua US$ 19 milioni, per acquistare… gli autobus KAVZ-4238-61 prodotti in Russia, con relativi pezzi di ricambio. Nella sostanza, glieli ha fatti pagare a rate in sette anni.

Con l’attuale situazione di conflitto bellico, non pare possibile un incremento dei rapporti commerciali, degli investimenti, dei prestiti e delle donazioni. Soprattutto nel campo dell’assistenza militare che, come Daniel aveva ricordato nella stessa occasione, «ci hanno fornito un contributo inestimabile nel campo della difesa del nostro Paese, per avere gli strumenti e difendere la pace e la sovranità». Nel corso degli anni, l’esercito del Nicaragua ha infatti ricevuto parecchi armamenti russi, compresa una cinquantina di carrarmati T-72B1, versione modernizzata del T-72. Come donazione, secondo le fonti ufficiali. Un paio furono “esposti” al pubblico nell’agosto del 2016, lungo il malecón.

Per ciò che concerne la quantità di migranti nicaraguensi in Russia e le loro rimesse non abbiamo dati disponibili.

Se da un lato l’aggressione all’Ucraina ha portato un aumento del valore dell’oro, primo prodotto di esportazione del Nicaragua come entrate nell’ultimo biennio, in compenso lo stesso effetto lo hanno subìto la benzina, il gas per cucinare, la farina, il riso, il grano… che il Nicaragua è costretto a importare per fare fronte alle proprie necessità.

Per quanto riguarda il recentissimo rapporto diplomatico con la Repubblica Popolare Cinese, eccettuata una rilevante donazione di vaccini in cambio dell’edificio dove era l’ambasciata di Taiwan, non risulta altro. Qualche propagandista nostrano, ottimista oltre ogni limite, ha parlato della ambiziosa «nuova via della seta» (internazionalmente nota come Belt and Road Initiative) nella quale entrerebbe pure il Nicaragua, in base agli accordi già sottoscritti da Laureano e Cao Jianming. Rendendo di fatto inutili le azioni del governo gringo.

Il che può pure far piacere, ma occorre ricordare che dall’epoca di Deng Xiaoping alla Cina interessano soprattutto gli affari, più che le faccende politiche. Tant’è che da sempre intrattiene ottimi rapporti economico-commerciali sia con regimi dittatoriali di destra sia con governi di sinistra: per non parlare del vecchio Cile di Pinochet, oggi il Brasile di Bolsonaro è il primo partner commerciale di Pechino nel continente e interi pezzi dell’Amazzonia sono distrutti per fare posto all’agricoltura intensiva di prodotti da esportare nel grande Paese asiatico.

Il più realista ministro delle Finanze e del Credito Pubblico, Iván Adolfo Acosta Montalván, il 25 gennaio 2022 ha dichiarato che gli investimenti del colosso asiatico arriveranno presto nel Paese, ma non ha specificato una data esatta né un periodo approssimativo dell’anno: nello specifico, il dragone asiatico «ha deciso di finanziare progetti privati, ossia banche private e investimenti privati, ​​che possono essere società cinesi, nicaraguensi o cinesi-nicaraguensi», ha aggiunto. Augurandosi pure la rapida sottoscrizione di un trattato di libero commercio.

Facciamo notare che il ministro parla di soggetti «privati», siano essi banche, società o investimenti. Sarà la via nicaraguense al socialismo su basi capitalistiche?

Per il momento Changbao Xu, gerente generale della compagnia Skyrizon S.A. (e proprietario del ristorante Sabor Chino inaugurato il 30 ottobre 2021 nel malecón di Managua, dove si può gustare la specialità della casa: El pato laqueado de Pekín), secondo alcune fonti avrebbe chiesto di importare in Cina l’intera produzione sia di carne bovina sia di caffè. Dopo l’oro, sono le due merci maggiormente esportate lo scorso anno, rispettivamente per un valore di US$ 735 milioni e di US$ 513 milioni.

Per quanto la solita Rosario abbia annunciato il 28 aprile scorso che la Cina è intenzionata a finanziare un progetto di US$ 60 milioni per la costruzione di case (senza specificare se come donazione o come prestito), Pechino non si fa mancare la possibilità di fare affari con gli stessi Stati Uniti: la Santa Rita Mining, compagnia cinese operante a Rosita dall’ottobre del 2018 con una concessione cinquantennale, esporta nel potente vicino del Nord quasi tutto l’oro che estrae dal secondo Paese più povero del continente.

La povertà e le diseguaglianze sono purtroppo ancora notevoli in Nicaragua, per cui la strada per debellarle è ancora assai lunga e non è detto che i cinesi preferiscano sedersi sull’argine del fiume e attendere pazientemente che passino i resti dell’Europa e della Russia. Senza dubbio più appetibili rispetto a ciò che può offrire un piccolo e misero Paese del Centroamerica. Peraltro sempre più auto-isolato, dopo la scelta di requisire gli uffici a Managua dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) e ritirare i propri rappresentanti da questo «diabolico strumento» dell’imperialismo yanque (24 aprile 2022: Pasqua), con il quale, però, gli affari procedono a gonfie vele. Come se potesse esistere un imperialismo politico cattivo slegato e opposto da quello economico buono.

Non sappiamo cosa potrà avvenire nel prossimo futuro, però nel volgere di pochi mesi due mosse del Buon governo stanno mettendo a rischio l’unica possibilità concreta di ottenere i prestiti necessari allo sviluppo del Paese finora concessi senza problemi dal BCIE (Banco Central de Integración Económica). Dal 1992 ne fa parte pure Taiwan, cacciata senza tanti complimenti e sostituita dalla Repubblica popolare cinese nel dicembre 2021, e dal 2000 esiste uno stretto accordo di collaborazione tra questo istituto finanziario multinazionale e l’OEA.

Che Putin possa rimpiazzare questa eventuale mancanza nel pieno di un conflitto bellico e con le banche impossibilitate a operare a livello internazionale è alquanto improbabile, per cui l’unica speranza è Xi Jinping.

II.

Prima di affrontare a grandi linee il tema dell’estrazione in Nicaragua, che si realizza per la maggior parte in miniere a cielo aperto nelle quali le imprese multinazionali statunitensi hanno investito i loro milioni di dollari nel 2021, riteniamo necessario ricordare che il 14 dicembre 1927 Sandino scrisse che «non riconosciamo valido qualsiasi atto o contratto celebrato da un cittadino o da uno straniero che incida sul patrimonio nazionale, il quale deve essere sacro e rispettato». In una lettera al colonnello guerrigliero Guadalupe Rivera, negli stessi giorni aggiunse: «le bustarelle hanno fatto precipitare la Nazione e il popolo nella più spaventosa miseria, ed è per questo che noi difendiamo con tutto il cuore la nostra sovranità, dovendo porre un freno su così tante macchinazioni, le quali beneficiano solamente un determinato gruppo o alcune persone».

Dal 2007 al 2020 le concessioni minerarie sono aumentate del 310%, passando da 83 a 258, portando il Paese tra i dieci maggiori esportatori di oro. I dati ufficiali forniti dal Ministerio de Energia y Minas relativi al periodo compreso tra il 2014 e il giugno del 2021, dicono che si sono concesse 274 licenze per l’estrazione mineraria su una superficie complessiva di 988.325 ettari, ossia circa kmq 10.000 (come la Basilicata). Altre 120 concessioni erano in corso di valutazione e interessavano una superficie di ulteriori 1.927.842 ettari. Equivalenti in totale a kmq 30mila: come paragone, la superficie della Lombardia non arriva a kmq 24mila.

Il titolare di PRONicaragua, agenzia statale che promuove gli investimenti stranieri nel Paese, ha più volte affermato che la superficie complessiva disponibile per questa attività economica è di 6.412.036 ettari. Corrispondente al 49,18% del territorio nazionale (Lombardia+Emilia-Romagna+Toscana). Parole di Laureano Ortega Murillo, colpito da un’improvvisa febbre dell’oro in un periodo storico in cui il cosiddetto «nazionalismo delle risorse minerarie» si sta espandendo in Paesi come Cile, Perú, Messico e Argentina (ma pure in Africa e in Asia). L’idea di fondo di questa linea politica è che la minería sia un bene economico appartenente alla società nel suo insieme, per cui il concessionario di un giacimento non può trattarlo come se fosse di sua proprietà per soddisfare il proprio esclusivo interesse particolare.

La febbre dell’oro in Nicaragua risale ai tempi antichi e chi ha viaggiato in quel Paese ha probabilmente fatto una visita al vulcano Popogatepe, meglio noto come Masaya, nell’omonimo parco nazionale. È uno dei più attivi del Paese e affacciarsi alla caldera è uno spettacolo indimenticabile. I precolombiani lo veneravano, ritenendolo il segno della furia degli Dei, e il 13 aprile 1538 il frate Blas del Castillo scese nel cratere Nindirí ritenendo che la lava incandescente fosse oro puro allo stato liquido. Si legò strettamente l’abito da domenicano, incrociò la stola sul petto e si coprì la testa con un elmo di metallo dei conquistadores: dotato solo di un martello, una fiaschetta di vino e una croce di legno, entrò in un grande cesto e iniziò a pregare mentre i suoi tre aiutanti lo calavano nel cratere. Inutile raccontare come andò a finire.

Storia vera o leggenda, non lo sappiamo, per quanto il cronista Gonzalo Fernández de Oviedo sia solitamente attendibile (Historia general y natural de las Indias, sec. XVI). Ma conosciamo altre vicende più recenti, legate a quello che gli aztechi chiamavano teocuitatl: lo sterco giallo degli Dei.

Dopo la negativa esperienza della nazionalizzazione mineraria negli anni Ottanta, sapendo di non disporre delle capacità tecniche né delle conoscenze adeguate, dal 2007 in poi il Buon governo del Nicaragua ha preferito implementare una politica estrattivista (predatoria) con concessioni a svariate imprese straniere. Ipotizzando pure la possibilità di accordare loro metà del territorio nazionale. Per dirla tutta, è una “eredità” strategica per lo sviluppo (?) raccomandata negli anni Novanta del secolo scorso dalla Banca Mondiale ai vari governi latinoamericani. Tanto che durante la presidenza di Arnoldo Alemán fu approvata la Ley especial sobre exploración y explotación de minas (n. 387, del 26 giugno 2001), nella sostanza disattesa dai governi neoliberisti che hanno governato fino al 2006, ma applicata in modo pedissequo in nome del fantomatico Pueblo Presidente. Forse, una delle poche leggi rispettate, ma agendo esattamente al contrario del «nazionalismo delle risorse minerarie» e della sbandierata difesa della sovranità nazionale.

Come ciliegina sulla torta, Laureano ha aggiunto che «Data l’importanza dell’attività mineraria per lo sviluppo economico del Nicaragua, lo Stato garantisce la stabilità fiscale agli investimenti nazionali ed esteri» (Guía del Inversionista 2021). Tra esenzioni, oneri detraibili o deducibili e quant’altro, ciò che resta in Nicaragua è circa il 3-4% dei profitti delle compagnie minerarie. Agevolazioni rientranti nel cosiddetto accordo di «dialogo e consenso» che il Buon governo di Daniel ha intrattenuto e in buona parte ancora intrattiene con il grande capitale sia nazionale sia straniero.

Solo per dovere di cronaca, le imprese minerarie sono esonerate da qualsiasi analisi sull’impatto ambientale. E il 44% delle concessioni in vigore si trovano all’interno di riserve forestali, come quella di Río San Juan, uno degli ecosistemi con la maggiore biodiversità in tutto il Centro America: la riserva di biosfera Indio-Maíz che bruciò per dieci giorni all’inizio dell’aprile 2018.

Le compagnie più importanti sono: Calibre Mining, HEMCO, Plantel Los Ángeles, Mako Mining e Condor Gold. Tutte aderenti alla Caminic (Cámara minera de Nicaragua), organizzazione padronale «senza fini di lucro» fondata nel 1995, che raggruppa una cinquantina di imprese.

Nel settembre-ottobre del 2015 nella miniera El Limón (departamento di León) si verificò una protesta dei lavoratori proseguita per quasi un mese, in quanto l’impresa B2Gold non aveva alcuna intenzione di sottostare al contratto collettivo. Dopo il licenziamento di tre lavoratori, questi minatori chiesero l’interessamento di Rosario per dirimere la questione. Poiché la vicepresidenta non aveva alcuna voglia di mettersi gli abiti della sindacalista, al suo posto inviò la polizia, la quale agì assai duramente, sparando lacrimogeni e arrestando alcuni manifestanti come in qualunque Paese occidentale non socialista cristiano e solidale. In un comunicato ufficiale del 16 ottobre la Policía Nacional definì «gruppi vandalici» i lavoratori.

Nel maggio precedente accadde sostanzialmente un evento simile, a Bonanza, con l’arresto di una trentina di manifestanti. Il comunicato ufficiale affermò che «La Polizia Nazionale, in ottemperanza ai propri doveri costituzionali, ha provveduto a ristabilire l’ordine, venendo aggredita con oggetti contundenti e armi da fuoco». Parole ascoltate più volte pure nel nostro Paese, non socialista cristiano e solidale.

In varie altre località del Paese, nel corso degli anni si sono verificate proteste da parte degli abitanti, obbligati a trasferirsi in altre località in quanto le loro abitazioni erano incluse nelle nuove aree concesse dal Buon governo alle imprese minerarie. Una delle tante fu quella della comunità Santa Cruz de la India a Santa Rosa del Peñón (León) nel 2016-‘17: trecento case con 2.300 persone. Inutile dire che nel dicembre del 2020 il gerente dell’impresa Condor Gold dichiarò alla stampa che ormai aveva acquistato il 95% di quelle abitazioni e, avendo a disposizione 50 milioni di dollari per la costruzione del nuovo impianto, si prevedeva l’inizio delle attività nei primi mesi del 2022. Con il termine «acquistato», in realtà intendeva «espropriato» dal Buon governo.

Prima di tornare all’argomento principale, è necessario ricordare che le tutte espropriazioni per pubblica utilità si effettuano in base alla Legge n. 229 del 3 marzo 1976, quando il presidente era Anastasio Somoza Debayle. Sia per le terre destinate al tracciato del Canale interoceanico, sia per le abitazioni a La India, sia per la sede dell’OEA a Managua.

L’infima aliquota fiscale, frutto dei privilegi di cui dispongono le imprese minerarie, ha come diretto risultato che ogni anno lo Stato del Nicaragua perde una notevole quantità di risorse economiche che potrebbero essere utilmente investite nell’espansione e nel miglioramento dei beni pubblici strategici per lo sviluppo del Paese. Le stesse Amministrazioni comunali si trovano in una situazione del tutto assurda, poiché ignorano totalmente l’ammontare dei profitti ottenuti dalle società minerarie e, pertanto, non sanno quale sia l’effettivo ammontare che a esse corrisponde versare per la concessione.

I dati ufficiali disponibili per il periodo 2007-2020 sono indicativi: il valore dell’oro esportato equivale a US$ 4.558 milioni, mentre le imposte pagate come diritti di estrazione equivalgono a US$ 130 milioni in quattordici anni. Centesimo più, centesimo meno (fonte: Ministerio de Energía y Minas). Vale la pena aggiungere che le imprese estrattive operanti nel Paese hanno di recente dichiarato la loro volontà di raddoppiare le esportazioni. Il che significa: i loro profitti.

Nei rispettivi siti web, le società minerarie Calibre Mining, Mineros, Mako e Condor Gold mettono in evidenza le opportunità che il Buon governo del Nicaragua offre per consolidare i loro progetti: un contesto politico favorevole, leggi che tutelano gli investimenti, vantaggi fiscali, rimpatrio di capitali e un ampio potenziale esplorativo. In Nicaragua hanno trovato letteralmente la gallina dalle uova d’oro.

Alcuni anni fa, quando era ancora il socio maggioritario della HEMCO Nicaragua, l’ingegnere minerario gringo Randy Martin dichiarò che «Noi [il governo e le compagnie minerarie] lavoriamo insieme. Se c’è un problema, noi ci sediamo e lo risolviamo, questo fa una grande differenza. Puoi parlare con qualunque compagnia mineraria in America Centrale, questo è di gran lunga il posto migliore in cui operare» (2012). Inutile dire che tutti i dirigenti delle varie compagnie minerarie negano con forza qualunque versamento di tangenti. Le loro parole sono assai simili a quelle di parecchi imprenditori italiani nella primavera-estate del 1992.

Senza pensare a quanto oro hanno saccheggiato gli spagnoli nel periodo coloniale, una sola compagnia transnazionale operante a Siuna dal 1939 al 1978 aveva estratto quasi un milione e mezzo di once (circa kg 43mila). Nella relazione annuale 1942 de La Luz Mines Limited, la compagnia mineraria che operava a Siuna, si legge che «i suoi manager sono lieti di registrare le relazioni reciprocamente piacevoli e cordiali che esistono tra la Società e il governo del Nicaragua e il suo stimatissimo Presidente e rispettato Anastasio Somoza» (p. 3). Negli anni Quaranta del secolo scorso le esportazioni minerarie rappresentavano oltre il 60% delle esportazioni. Nel 2007 si erano esportate 100mila once di oro (kg 2.835). Negli anni del Buon governo, nel 2019 kg 11.447, nel 2020 kg 12.150, nel 2021 kg 14.174. Per un totale in soli tre anni di kg 37.771.

Pure un cieco nota la rilevante differenza tra la quantità esportata nel 2007 e quella del 2021. La maggior parte verso gli Stati Uniti, il nemico yanque che monopolizza le decisioni politiche dell’OEA.

Il mestiere del minatore è il meglio retribuito, con un salario minimo di oltre US$ 500 mensili. Però, sulla totalità di coloro che rischiano quotidianamente la loro vita (circa 25mila), solo il 20% risulta essere assunto in regola, con tanto di versamenti all’INSS (fonte: Banco Central de Nicaragua). Dal 1990 a oggi, questo settore non ha generato alcuna variazione significativa nell’occupazione di manodopera regolare, stando ai registri dell’INSS. Però, la quantità di materiale aurifero estratto ha subìto un innegabile incremento.

Per fare fronte a una situazione economica non molto allegra, per quanto sia propagandata come meravigliosa e ineguagliabile dai soliti propagandisti, in troppi decidono di trasformarsi in minatori “indipendenti” o “artigianali”, scavando nelle gallerie chiuse perché insicure e andando a incrementare l’economia informale. Altrimenti denominata «economia creativa» da Rosario Murillo. Tanto per non farsi mancare nessun incarico in famiglia, la coordinatrice della Comisión nacional de economía creativa è nientemeno che Camila Antonia Ortega Murillo.

Tornando ai minatori informali, denominati comunemente güiriseros, sono migliaia di persone, uomini e donne, ma pure ragazzini, spesso emigrati da altre zone del Paese per cercare di sopravvivere rischiando ogni minuto la propria esistenza, vendendo il poco che trovano alle compagnie minerarie. Si calcola che siano circa 32mila. Nel maggio del 2021 il presidente della padronale Caminic, l’ing. Sergio Javier Murillo, dichiarò che l’attività di questi disperati «contribuisce in modo significativo, circa il 25%, alle esportazioni del Nicaragua».

Per la cronaca, è tutto legale, in base alle leggi socialiste del Nicaragua, tanto che alcuni versano le quote all’INSS (poche centinaia). Non solo: fin dal 2012 esiste il documento intitolato Plan de ordenamiento de la minería artesanal, redatto dalla colombiana HEMCO (appartenente al gruppo Mineros) operante del 1995 a Bonanza e promosso dal Ministerio de Energía y Minas. Sempre per la cronaca, questo Piano pensato dagli industriali minerari è oggi parte integrante del Plan Nacional de Lucha contra la Pobreza 2022-2026  presentato il 1° luglio 2021 (pp. 51-52). Se qualche lettore ha voglia di ridere… questo è il socialismo modello Rosario, scritto dagli industriali.

Siamo certi che i nostri lettori abbiano sentito parlare della vecchia miniera a cielo aperto di San Albino. Fu quella che Sandino occupò all’inizio della lotta per la sovranità del Nicaragua, essendo gestita dalla compagnia mineraria dello statunitense Charles Butter: «e il Nicaragua, la mia Patria, riceverà le tasse che in diritto e giustizia gli corrispondono, con le quali avremmo un reddito sufficiente per coprire tutto il nostro territorio con le ferrovie ed educare il nostro popolo nel vero ambiente di una democrazia effettiva» (1° luglio 1927).

In base alla Legge n. 1207 del 23 febbraio 1983 questo territorio è Patrimonio Histórico Nacional e, stando all’art. 1, «Il governo rivoluzionario promuoverà opere di conservazione […] e svilupperà musei per preservare i valori storici che questi luoghi rappresentano». Non solo: in base all’art. 4 «Tali immobili sono assegnati al Ministero della cultura per conferirgli l’uso previsto dalla presente legge». Dal 2019 il Buon governo di Daniel ha concesso alla canadese Mako Mining Corp di poter estrarre minerali per dieci anni (rinnovabile per altri venti) da questa miniera ritenuta tra quelle di più alta qualità a livello mondiale (su un territorio di kmq 188: come il comune di Milano). Il Buon governo non avuto dubbi tra un patrimonio Histórico Nacional buono solo per il turismo e un utilizzo assai più redditizio. (Qualcuno ricorda la questione delle concessioni per la trivellazione nella Val d’Orcia, patrimonio dell’umanità, alla ricerca di idrocarburi?)

Nel 2004 il governo neoliberista di Churruco Bolaños aveva concesso la possibilità di estrarre oro dalla miniera Tajo El Pavón a Rancho Grande (Matagalpa). La mobilitazione della popolazione proseguita fino al 2015, aveva impedito che ciò avvenisse. Nel suo quotidiano sproloquio del 12 ottobre 2015, arrampicandosi un po’ sul classico specchio, Rosario aveva comunicato la sospensione della concessione, ma aveva pure aggiunto che «Esistono progetti che rappresentano enormi benefici per il Paese, e quello che deve essere valutato e tenuto bene in considerazione è qualsiasi rischio e, attenuare, mitigare e far sì che abbia anche il sostegno delle maggioranze, affinché il progetto rappresenti un profitto assoluto… Voglio dire utile, intendo benefici, per tutte le famiglie».

Il 28 luglio 2020, però, lo stesso Buon governo in carica ha concesso alla Calibre Mining Corp i diritti di sfruttamento a Rancho Grande, su una superficie di circa kmq 32 (come il comune di Monza). Chissà a quali benefici e a quali famiglie si riferiva Rosario cinque anni prima? Mah, però, forse, chissà, può darsi, ossia, volevo dire… profitto assoluto, beneficio, utile… mi sono un po’ incartata e si è fatto tardi… scusa Laureano, che ora segna il tuo Rolex Day-Date President Platinum Ice Blue Roman 118206?

Tralasciamo, solo per ragioni di spazio, gli enormi e irreparabili disastri ambientali, i quali fanno parte di un altro capitolo della storia. Vale però la pena ricordare che la ONG «Centro Alexander von Humboldt» operante dall’aprile del 1990 per la difesa dell’ambiente contro le mire neoliberiste, in varie occasioni ha denunciato a livello tecnico-scientifico i danni dell’estrazione mineraria al sistema agroforestale. Nel gennaio del 2021 aveva presentato il rapporto Estado del arte minería en Nicaragua 2020 sull’impatto dell’industria mineraria nel Paese. Il 17 marzo di questo 2022 gli è stata annullata la personería jurídica, in base alla Legge n. 147 del 19 marzo 1992 relativa alle ONG e alla Legge n. 977 del 20 agosto 2019 contro il lavaggio di denaro, il finanziamento al terrorismo e la proliferazione di armi di distruzione di massa. Ogni commento è solo una perdita di tempo.

Per la cronaca, il 28 gennaio scorso, giorno successivo al suo insediamento, la neo-presidenta dell’Honduras Xiomara Castro aveva dichiarato che «Saranno annullatati tutti i permessi di sfruttamento estrattivista, dannosi per lo Stato, che minacciano le risorse naturali, la salute pubblica e limitano l’accesso all’acqua come diritto umano». Al tempo stesso, in un comunicato ufficiale si dichiarava «todo el territorio hondureño libre de minería a cielo abierto».

Ci sarebbe piaciuto essere un chayul per osservare i salti e le grida di gioia di Rosario, mentre pensava a quante altre compagnie minerarie potranno entrare a breve in Nicaragua per sfruttarne le risorse in nome del Pueblo Presidente.

In conclusione, una domanda sorge spontanea: per chi sono i benefici di questa attività economica sempre più incentivata a livello di scelta politica dal Buon governo del Nicaragua?

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