Ecuador: la voce profetica di Leónidas Proaño

di David Lifodi

 

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Chissà cosa penserebbe Leónidas Proaño, el Obispo de los indios, nel vedere le comunità indigene dell’Ecuador  messe in disparte, se non prese deliberatamente di mira, dal presidente Rafael Correa, che pure ha costruito la sua immagine all’insegna del buen vivir e di una Costituzione in teoria all’avanguardia, ma applicata poco e in maniera controversa? Senza dubbio il vescovo si schiererebbe a fianco di quelle comunità indigene e contadine sfruttate, allora come ora, dall’oligarchia e dalle imprese multinazionali.

Vescovo di Riobamba dal marzo 1954, Proaño è stato una voce profetica della Teologia della Liberazione latinoamericana, ma soprattutto spina nel fianco della parte più conservatrice della Chiesa, che ha cercato di ostacolarlo in ogni modo. Busco luchadores de la paz y de la vida, amava ripetere Proaño, che mise in discussione lo huasipungo (il sistema che dava il diritto ai contadini che lavoravano la terra nei latifondi di ottenere una parte minima della stessa, ma non un salario retribuito), lo sfruttamento delle comunità indigene e si batté per allontanare  i prelati di Riobamba più vicini ai terratenientes. Definito con disprezzo el cura rojo, Proaño si impegnò per alfabetizzare le comunità indigene e sostenere la lotta per la terra dei campesinos. È per questo che, a tanti anni dalla sua morte, avvenuta il 31 agosto 1988 a Quito, il vescovo di Riobamba Julio Parrilla ha deciso, senza aver consultato i fedeli, di far sparire il celebre murale El Cristo del poncho (realizzato da Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace nel 1980) dalla cattedrale della città per trasferirlo altrove. Lo scopo è quello di far cadere l’oblio su Proaño, sul suo lavoro pastorale e sul suo pensiero politico. Il murale ha un forte significato politico e per questo la Chiesa ha cercato di spostarlo in un’altra località, irritando non solo Esquivel, ma anche i fedeli di Riobamba. Nel murale è rappresentato un  Cristo che offre il pane e i pesci alla presenza di alcuni tra i più valorosi lottatori sociali latinoamericani, dalle Madres de la Plaza de Mayo ai sacerdoti Enrique Angelelli, Carlos Mugica e Lucho Espinal, vittime delle dittature argentina e boliviana. In pochi hanno creduto alla scusa fornita da Parrilla, secondo il quale era necessario spostare l’opera per sottoporla ad un lavoro di restauro, di cui peraltro non è stato mai informato l’Instituto Nacional del Patrimonio Cultural. Inoltre, il murale rappresenta un omaggio a quelle comunità indigene dell’Ecuador per le quali Proaño si è sempre impegnato, sostenendone attivamente gli ideali sociali e spirituali. Precursore dei congressi di Medellín e Puebla, dove emersero con forza i principi della Teologia della Liberazione, Proaño nel 1985 è stato proposto come candidato al Premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore della giustizia sociale e a buon diritto figura accanto al cardinale brasiliano Paulo Arns, a Helder Cámara e a tutti quei sacerdoti che hanno fatto della riforma agraria e della condivisione delle battaglie delle comunità indigene e contadine la loro bandiera. Non è un caso che proprio i due religiosi brasiliani, assieme a monsignor Romero e a Pedro Casaldáliga, facciano parte del murale che Parrilla ha mostrato volontà di sfrattare. Proaño, che nel 1976, assieme ad Esquivel e ad altri sacerdoti, fu condotto in carcere con l’accusa di sovversione dalla dittatura ecuadoriana, era inviso sia alla Chiesa sia alla politica per aver fondato, anni prima, il Centro de Estudios y Acción Social, destinato a promuovere le cooperative agricole nella zona del Chimborazo, per  aver sostenuto l’idea di quella “pastorale d’insieme” cara a Helder Cámara, ma soprattutto per la celebre lettera del giugno 1966 in cui rivendicava il ruolo dell’associazionismo politico e sindacale e una maggiore giustizia per la classi popolari. Del resto, Proaño si trovava ad agire in un contesto sociale caratterizzato da razzismo ed esclusione sociale. Ad esempio la Costituzione di allora, che imponeva la religione cattolica come “di Stato”, indicava i parroci come i “tutori dell’abietta e miserevole razza indigena” e gli stessi indios erano costretti ad offrire il loro raccolto al parroco e a pagare loro le decime prima di ogni confessione.

È stato anche grazie a Proaño se le comunità indigene dell’Ecuador hanno cominciato a rivendicare i loro diritti e a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica e sociale del paese. A non essersene ancora accorto solo il presidente Correa, che predica bene e razzola male preferendo lo sviluppo minerario alla tutela di indigeni e campesinos.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

Un commento

  • Stefano Mortola

    Sono stato 35 anni fa per due anni a Riobamba ed ero ammirato del tatto dimostrato dal monsignor Proano nel trattare il mondo campesino nelle riunioni del suo “frente di solidariedad “. Parto dopodomani per altri tre mesi a Riobamba: spero di non veder distrutto o accantonato tutto il suo gran lavoro.

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