Edgar Morin: di Marx, di Mad Max, di prassi e fantasmi

«L’azione è costantemente minacciata dal fallimento. O piuttosto non è altro che una sequela di fallimenti interrotti da una riuscita […] Vi sono dunque scommesse, cadute, tentativi, errori. Fallimenti, follie. Il mondo della politica non è come quello del pensiero che cancella le sue ipotesi, che tace i suoi sogni e i suoi deliri […] E’ il mondo del triplo rischio: materiale, etico e dialettico». E poche righe dopo: «La politica è la più barbara di tutte le arti».

Riprendo queste frasi dal secondo capitolo di Pro e contro Marx, appena tradotto da Erickson (104 pagine per 10 euri) di Edgar Morin con il sottotitolo «Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi».

Il secondo capitolo si intitola “La dialettica e l’azione” e riprende un saggio del 1958 che Morin ha rivisto e attualizzato per questo libro. Piccole modifiche… Sono rimasto davvero-davvero impressionato a scoprire che gli articoli e i saggi qui riuniti risalgano perlopiù a 50 anni or sono. Il più recente – si fa per dire – è del 1993 ma è stato ripubblicato, pari pari, nel 2007 a dimostrare che Morin sa guardare lontano, che il suo articolato rapporto con Marx resta così profondo da non temere le svolte (meglio: i terremoti) della storia. E’ corretto dunque quello che Morin scrive nella prefazione del gennaio 2010: «Di fatto per tutta la vita, in tutta la mia opera, sono restato fedele alla prospettiva marxiana della mia adolescenza ed è proprio questa “fedeltà” che […] mi ha spinto a “superare” Marx nel senso hegeliano del termine (superare conservando)».

Sono ben pochi – e perlopiù eretici come Cornelius Castoriadis – i marxisti con i quali si confronta Edgar Morin mentre ricorda i nostri debiti («mi baso più su Eraclito, Montaigne, Pascal, Shakespeare») e invita a fare i conti con le novità (Einstein e Foucault soprattutto).

Sin dalla prefazione Morin ci invita a rifiutare il generico “uomo”. In primo luogo «abbandonando il maschile» ma concependo l’essere umano «in modo trinitario, cioè inseparabilmente individuo-società-specie». L’homo non è soltanto sapiens (cioè razionale), faber (produttore e creatore), oeconomicus (spinto cioè dall’interesse materiale) ma anche ludens (mosso dal gioco, dal puro piacere) e demens (delirante). E su quest’uomo demens – insensato distruttore anche del pianeta, l’unica casa che ha – Morin torna più volte, in particolare per invitarci a vedere l’essere umano «complesso, multiplo che porta in sé un cosmo di sogni e di fantasmi» (pagina 76) e «farla finita con il mito unilaterale di homo sapiens per considerare la complessità indissociabile dell’homo sapiens-demens» (pag 90).

Ancora nel secondo capitolo, Morin polemizza con i marxisti dogmatici e ricorda che «le sintesi, nella vita, sono provvisorie e parziali […] La dialettica procede a strappi, con uno sforzo che ricomincia di continuo». E’ uno dei passaggi decisivi del libro anche per la capacità di Morin nel mettere a confronto il reale e l’immaginario – cito dal terzo capitolo: «c’è sempre una parte di magia di cui abbiamo bisogno» – e nel ricordare che «per essere veramente realisti bisogna essere un po’ utopisti». Pagine che hanno una doppia valenza visto che sono state scritte da chi non si è mai nascosto dietro le presunte necessità della storia con la S maiuscola per giustificare anche gli orrori di Stalin (e infatti il paragrafo si intitola «si comincia con l’essere “realisti”, si finisce per essere bestie»).

Non ci sono risposte facili, pronte una volta per tutte. «Non c’è uomo totale. Le nostre contraddizioni e i nostri limiti non possono essere soppressi. Essi ci spingono al contrario a trasformarci trasformando il mondo». Ed è ragionando sulla prassi – «se si pensa troppo non si agisce più, se si agisce troppo non si pensa più eccetera» – che Morin arriva al concetto con cui ho aperto questa mia recensione-riflessione. Ovviamente non mi provo a riassumere tutti i passaggi in poche righe; invito a leggere questo libro, a entusiasmarsi e magari – se non si conosce il Morin più recente – a fare i conti con le altre sue opere, con il “metodo” che è andato elaborando.

Il quinto capitolo – «Alla ricerca dei fondamenti perduti» del 1993 ma “attualizzato” al 2010 – ci piomba nella barbarie dell’oggi, nella sparizione dei “grandi progetti” (sostituiti dai sondaggi, ironizza Morin), nelle grandi possibilità e grandi inquietudini collegaste alle neuroscienze, in un mondo dove «si pensa sia normale distruggere le eccedenze agricole europee mentre la fame colpisce un quarto dell’umanità» e dove «chiamiamo realismo l’assenza di pensiero». Sono 15 le sfide individuate da Morin per il nuovo secolo e, a fine libro, propone «4 finalità» concrete per salvare «la patria terrena». Il «nodo gordiano» infatti è un pianeta che si unifica mentre tutto «diviene sempre più frammentato», mentre «l’incomprensione non fa che accrescersi». Una nuova barbarie tecnica si allea a quelle antiche e – se non invertiamo la rotta- ci aspetta «nel migliore dei casi il Medio Evo planetario, nel peggiore Mad Max». Il nemico è il «pensiero chiuso» nella variante della «tecnoscienza burocratizzata» e del «pensiero sempre più locale». Ci occorre un pensare in grado di «cogliere la multidimensionalità della realtà» e magari anche un altro sguardo che, come suggerì Shakespeare, sia capace di «fragore e furore».

Oggi – «nel mezzo di un combattimento formidabile fra solidarietà e barbarie» – quale Marx? Una conclusione è difficile da riassumere ma quel sotto-titolo («ritrovare Marx sotto le macerie dei marxismi») è la linea-guida; come precisa alla fine della prefazione «per me Marx è “multipresente” ma mai dominante […] Sempre più convinto che si debba sia conservare Marx sia criticarlo, sia criticarlo che conservarlo».

Morin ritrova oggi un altro Marx che «restava in ombra» quando «il totalitarismo detto comunista mi sembrava divenuto il pericolo maggiore per l’umanità». E’ il Marx «pensatore della mondializzazione […] di un capitalismo che crea non solo un prodotto per il consumatore ma un consumatore per il prodotto». Scrive Morin di avere «integrato la visione critica di Marx in una visione della navicella spaziale Terra trascinata via da quattro motori uniti e incontrollati: la scienza, la tecnica, l’economia, il profitto». Quello che Morin ama è il Marx “universalista” ma «con una aggiunta capitale: il mio rifiuto dell’universalismo astratto, cieco nei confronti delle differenze e delle diversità».

Redazione
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4 commenti

  • Bello, fantastico, inarrivabile, Morin raggiunge punte degne del miglior Bradbury mischiato con Cannavò e Berardi. Bene: e adesso come ci togliamo il nano dalle scatole?

  • ginodicostanzo

    Non conosco l’autore, non sono un grande conoscitore di Marx, anche se un po’ l’ho frequentato: ne amo il metodo e l’analisi storico-economica, che credo insuperata. Ho sempre pensato che nell’uomo ci sia tutto, tutto il peggio e tutto il meglio. Credo che questa visione mi accomuni con l’autore recensito – homo sapiens/demens – così come la consapevolezza che “l’andare avanti” non ha bisogno necessariamente della linea retta per procedere… Mi sembrano quasi ovvietà.
    Bisogna essere sempre un po’ utopisti per essere realisti? Con me si sfonda una porta aperta! Raccolgo e ribatto con le parole di Eduardo Galeano:
    “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.”
    (…) «se si pensa troppo non si agisce più, se si agisce troppo non si pensa più eccetera» (…)
    Come non essere d’accordo? Quest’approccio mi sembra a dir poco adeguato e corretto.
    (…)magari anche un altro sguardo che, come suggerì Shakespeare, sia capace di «fragore e furore».(…)
    Con altre parole lo sosteneva anche Machiavelli. Anche qui mi ci ritrovo. Le lotte attuali non dovrebbero trascurare alcuna forma, conservando flessibilità e mutevolezza per adeguarsi agli attacchi, brutali e non, di un camaleontico potere. Il recupero di Marx è operazione culturale fondamentale in questi tempi di barbarie. Non sono sicurissimo che Marx fosse così cieco di fronte alle diversità, dal momento che era anche un grande studioso di antropologia, ma potrei sbagliare.
    Secondo me è il momento di rivitalizzare la lotta di classe, anche se la composizione delle classi sociali ha subito un processo osmotico con appiattimento verso il basso. E l’internazionalismo è sempre stato un pilastro di qualsiasi rivendicazione sociale, senza dimenticare le peculiarità locali. La rovina dell’ecosistema, della nostra astronave, forse è una consapevolezza che ai tempi di Marx era impossibile nei termini odierni, anche se persino Giacomo Leopardi, un paio di secoli fa, scrisse qualcosa a riguardo di nuove fabbriche e inquinamento… Le grandi menti non hanno confini.
    Grazie

  • ginodicostanzo

    Il nano è un sintomo, purtroppo è solo un sintomo, per quanto fastidioso…

  • Questa recensione è uscita, in forma molto ridotta, su “Liberazione” di oggi (6 febbraio 2010). Ne sono ovviamente contento anche se nell’occhiello c’è un piccolo errore: i saggi di Morin risalgono “perlopiù a 50 anni fa” (come scrivo nel mio pezzo) e dunque non sono tutti “vecchi di mezzo secolo fa”. Piccolo errore, in ogn caso è giusto evidenziare che sono scritti “sempre attualissimi”, Nel frattenpo lo stesso editore, cioè Erickson, ha tradotto un’altra antologia di Edgar Morin, “La mia sinistra”: sin dalle prime pagine mi ha catturato, ne farò la recensione prima possibile. Sempre correndo e un po’ ansimando, fra un treno e l’alto, fra un lavoro e l’altro… (db)

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