Eliopausa

di Riccardo Dal Ferro (*)Più ti guardo e meno mi convinci.
Ti guardo tronfio e sereno, eppure so che sei così insicuro e irrequieto. Potranno chiamarti pure “sistema”, ma io so che sei un caos spuntato per caso dal niente. Sei proprio come gli uomini: immenso e angusto, splendente e inutile. Sei impossibile, come tutte le cose reali. Io che ti osservo so che c’è poco da immaginare, quando la tua fantasia è così vasta. Io sono solo un pezzo di ferro lanciato lontano, ma ti racconto per come t’ho visto.

corona solareTi osservo la corona, infuocata e dorata, e guardo tutti gli altri abitanti del cosmo invidiartela e preparare il piano perfetto per sottrartela. Ti guardo esplodere, ma forse è una risata; ti osservo bruciare, ma probabilmente stai piangendo.

mercurioPoco più in là c’è il sasso maledetto, il figlio abbronzato, il nano bollente. Ti ruota attorno cercando in tutti i modi d’allontanarsi per sentire un po’ di frescura, ma le orbite sono ferree e lui è destinato a tuffarsi nella pancia d’incendio, a urlare e sbraitare mentre la roccia viene consumata dal fuoco.

venerePoco dopo, eccola lì, con il nome che compete a ogni donna bellissima e caustica, affascinante e pericolosa. Ti danza intorno con malcelata provocazione, verdeggiante e ingannatrice, attirando lo sguardo dei poeti sognanti e attendendo il primo incauto visitatore per consumarne le carni, l’animo, l’amore. Dea solforica, acida dominatrice dei cieli, allontanati da me.

terraLa palla a macchie terracquee la conosciamo bene, s’è cantata in ogni ode dell’uomo e viene tranquillamente dimenticata persino dal sottoscritto, mentre da fuori appare come un gioco di variopinta tranquillità e al suo interno si scatena l’inferno seminascosto da nuvole stupende. Lì dentro s’è scritta la Divina Commedia e persino l’Odissea nello spazio. Eppure è così piccola e insignificante. Non so se chiamarla “casa”.

marteEcco le sabbie scarlatte della solitudine deludente, quel piccolo possibile gemello del terzo pianeta. I venti spazzano i canyon e le montagne non fanno eco ad alcuna vita urlante, come avremmo potuto sperare. C’è solo un piccolo robot incagliato da tempi immemori, che ha percorso quella mezza unità astronomica per atterrare nel mezzo del niente. Non c’è casa lassù, oppure laggiù, dipende da che punto la si guardi.

gioveIl gigante successivo, ubriaco e senza scettro, rutta con i suoi venti a millemila chilometri orari. La pancia piena di delusioni, se ne sta laggiù, stella mancata e invidiosa. La sua forza gravitazionale sconvolge ogni giorno le vuote terre che lo circondano, i suoi satelliti lo cantano come unico sovrano, ma lui non ha occhi che per la stella centrale, per quel trono che non ha mai avuto. Lo osserva, beve un po’ di spazio siderale, s’ubriaca e cerca l’oblio nel fondo di bicchieri che non esistono. Laggiù, nel buio del suo piccolo regno di niente, serberà il rancore di non poter emanare luce ma solo ombra, astro nascente e mai nato, imploso in quel gigante mai troppo gigante, tiranno del vuoto universale.

saturnoCon quegli anelli che a me parevano una collana, grande almeno come la sua spaventosa futilità, ci sei tu, immenso ornamento del cosmo. Dimmi, che te ne fai della bellezza, quando a osservarti ci sono soltanto occhi robotici e immaginazioni umane? Chi mai t’avrà visto? Dove sta lo specchio dentro cui t’osservi? Ti sei mai visto, così grande e bello, così gigante e inutile? Non rispondi? Lascerai intentato il tuo fascino, non colto il tuo potere, e continuerai a ruotarti intorno, Narciso dello spazio siderale. Dimenticata da tutti, la tua scia di polvere preziosa verrà raccolta da occhi indiscreti e classificata come vanità.

uranoE poi quel disco storto, quell’abominio cosmico che ruota a pancia in su, come se ridesse a crepapelle, rotolando sul piano orbitale senza badare al silenzio circostante. Lo vedete? Il pazzo dell’universo, la rolling stone del cosmo, con quel colore tra il grigio, l’azzurro e il verde, indeciso sul volto da prendere, tutto diverso da come potrebbe essere, storto e divertente, che s’è trascinato inspiegabilmente pure quei satelliti sbronzi che lo seguono, ridendo anch’essi dell’insensatezza del mondo. Equatore e poli squinternati, quel coglioncello rotondo e imperfetto è la presa in giro a tutti gli altri, rigidamente fermi sulla loro asse verticale. Un giorno lo aspetteranno fuori di casa e lo picchieranno, così avrà smesso una volta per tutte d’irridere l’universo.

nettunoIl gigante blu, che par placido e quieto nel suo ruotare stoico e scettico, è un subbuglio interno di dimensioni macroscopiche. Le sue domande esistenziali gli vorticano dentro, ma i dubbi degli altri gli rimbalzano contro. La stella lontana non è dissimile da qualsiasi altro punto lucente dello spazio siderale, e lui si sente così solo laggiù da non desiderare altro che la solitudine. Silenzioso e scontroso, non vuole compagnia, attende solo l’apocalisse, qualunque sia la forma in cui essa si presenterà. Nel frattempo, lui passeggia quieto, e s’incazza come una bestia quando gli altri oggetti stupidi e rumorosi incrociano la sua orbita. A volte, il gigante blu si trova a pregare di scontrarsi, durante uno di quegli incroci. Chiude gli occhi, non bada al semaforo rosso e spera, spera che il botto sia forte a sufficienza da sconquassare quella quiete insopportabile.

plutoneE poi il sasso lontano, ghiacciato e maleducato, che attraversa tutta l’orbita in maniera eccentrica, con quel suo abito stralunato, con quel passo da dandy mancato, con tutta la boria di chi non ha nulla di cui andar fiero. Eppure, è così anonimo e stolto, pensano tutti gli altri. Cos’avrà mai di così nobile da portare in giro? Eppure lui se ne passeggia senza badare alle regole, quasi scontrandosi con gli altri giganti più spaventosi di lui. Il sasso eccentrico li osserva, passa dritto senza rivolger loro parola, se la ride sotto i baffi di ghiaccio e neve, continua a camminare come se la gravità non fosse una forza così importante.

VoyagerAlla fine di tutto, altri sassi, altre forme, altri nomi poco importanti. Poi, un vuoto come nemmeno l’animo umano può eguagliare. Un vuoto così placido e mortale da essere desiderato da ogni vita intelligente. Ora c’è soltanto il niente per i prossimi duecento anni. Chissà se avrò qualche cosa da leggere.
Arrivederci e grazie per tutto il Sole.

(*) ripreso da http://riccardodalferro.com; Riccardo Dal Ferro è «autore di racconti, provocatore di storie, schiavo della narrazione, vittima dei personaggi»

 

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