Elogio del Pensiero Inclinato

Vivere ai tempi della “Sedia per visite brevissime”

di Marina Mannucci

«Et pourtant la terre s’emeut»

Michel Serres, Le contrat naturel, 1999

Bruno Munari (Milano, 1907-1998) progettista, designer e scrittore, nel 1942 pubblica il libro Macchine inutili, lavoro con il quale esordisce nel gruppo futurista lombardo degli anni Trenta. Gli oggetti descritti in questo libro sono inutili perché non fanno economizzare tempo e denaro, non producono niente di commerciabile, non sono efficienti, né veloci: «Non sono altro che oggetti mobili colorati, appositamente studiati per ottenere quella determinata varietà di accostamenti, di movimenti, di forme e di colori. Oggetti da guardare come si guarda un complesso mobile di nubi dopo essere stati sette ore nell’interno di un’officina di macchine utili».1 Potremmo definirli manufatti che producono tempo; il tempo necessario per apprezzare ciò che si ha davanti. Nel 1945 Munari inventa per l’azienda Zanotta2 una sedia per visite brevissime, un oggetto d’arte con struttura in noce lucidato a cera, colore naturale con intarsi, sedile in alluminio anodizzato inclinato a 45°. Ogni serie è caratterizzata da un diverso colore del sedile. Ne vengono prodotti solo nove esemplari, tutti firmati da Munari.

«Quando gli ospiti sono senza sorriso. Se la vita corre veloce, se il tempo accelera l’esistenza, se la frenesia ruba il tempo. Allora il sedile sarà inclinato, la seduta più corta, lo schienale più alto: la sedia sarà per visite brevissime»

Bruno Munari

Progettata per impedire all’ospite di sedersi, questa sedia si trasforma in oggetto adatto per sostenersi se messa in un contesto diverso da quello per cui è nata; usata come piano d’appoggio per parlare al telefono, diventa infatti idonea e funzionale3

ed è quanto mai attuale in tempi in cui è necessario rispettare misure di distanziamento sociale e limitarsi a incontri tracciabili, fugaci e distaccati. Alla luce dei rapporti intensi di collaborazione che Munari ebbe con lo scrittore Gianni Rodari, grande studioso dell’importanza delle «armi dell’allegria», si può supporre che se entrambi fossero ancora fra noi ci rivolgerebbero un ironico invito a trascorrere giornate passeggiando per i luoghi regolati da nuove modalità sociali, con la nostra sedia sottobraccio e canticchiando le filastrocche scritte dall’illustre poeta del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita: «La galleria è una notte per gioco, è corta corta corta e dura poco. Che piccola notte scura scura: non si fa in tempo ad aver paura!».4

L’utilizzo di una raffinata musicalità mescolata a una sottile vena ironica e umoristica nelle opere di Rodari sono un continuo stimolo alla riflessione, la sua inventiva verbale (l’antiombrello, lo stemperino, la trimucca) è un didattica della fantasia che attraverso il motto «Tutti gli usi della parola a tutti» inneggia alla «fantasia al potere» per conservare la visionaria libertà dei bambini.

Bruno Munari e Gianni Rodari hanno in comune l’uso dell’ironia e della immaginazione e nei loro laboratori didattici si ispirano alla “pedagogia attiva”. Per Rodari la scrittura è testimonianza di libertà, per Munari il segno è invenzione efficace, libera e irriverente nei confronti delle convenzioni e tutto viene proposto sotto forma di gioco in cui la creatività svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo autonomo del pensiero.

Di Munari, Marco Belpoliti scrive che «[…] usa l’ironia, ma non nel senso postmoderno del termine, bensì moderno: vuole smascherare le convenzioni, non per irriderle o smontarle, piuttosto per spiazzarle, senza mai negarle. […] Più vicino a Cage che non a Duchamp, anche se con quest’ultimo condivide l’idea di spiazzamento linguistico. La cosa più importante che ha fatto Munari è stato separare la definizione di artista da quella di designer, in modo secco, questo per farci capire che in realtà le cose sono più complesse di così e che lui è stato, e ancora rimane, l’esempio più eclatante di un artista che è anche designer, designer che è anche artista. A suo modo, naturalmente, alla Munari: con la fantasia della creatività».5

Ma torniamo alla nostra sedia inclinata a 45° che ci rimanda al concetto di squilibrio, caratteristica / tradizione riscontrabile in molti eroi dell’antichità che avevano difficoltà a camminare dritti. Una storia millenaria dimostra che in alcune parti del corpo è necessaria una qualche forma di squilibrio, perché lo squilibrio può essere favorevole all’avanzata. Nella Cabala ebraica la claudicanza può assumere il significato di un rinvio alla perfettibilità: lo zoppicare, metafora del vacillare e del dubbio critico, è alla base dello studio e dell’apprendimento per cui è necessario muoversi. Per la Cabala la claudicanza rappresenta la prova iniziatica per eccellenza, necessaria per lottare e non piegarsi.

Nel libro Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente (traduzione di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, 2016) Michel Serres, filosofo, epistemologo e scrittore francese da poco scomparso, riprende questa tradizione antica teorizzando che, pensare l’innovazione, significa aiutare la nascita di un mondo nuovo e ciò comporta fare i conti con la propria vulnerabilità e saper uscire dal cammino previsto, biforcare. Saranno gli zoppi e i mancini, eroi di un’età dolce, riconfigurata dal digitale, a costruire il nuovo mondo, andando oltre le regole, perché è lo stesso “sistema complesso” di cui facciamo parte a sollecitare un pensiero inventivo asimmetrico: «Quando Léon Brillouin definì l’informazione come un’eccezione rarissima all’entropia; quando Pierre Curie lanciò, per la prima volta, l’idea di asimmetria; quando Louis Pasteur meditò sui cristalli enantiomorfi; quando, prima di loro, Lucrezio descrisse il clinamen, l’inclinazione, la biforcazione, la nanoramificazione, la rottura di simmetria a livello degli elementi primi, come costitutivi delle cose, non schematizzavano, non riassumevano, non addolcivano forse delle antiche figure, il corpo di quei mitici avventurieri, sempre distanti dall’equilibrio, mancini, essi stessi biforcanti dalle loro membra?».6

Di inclinazione tratta anche il libro della filosofa Adriana Cavarero, «Inclinazioni. Critica della rettitudine»7 che definisce la parola una postura spaziale obliqua; termine “innocuo”, se usato nell’ambito dello studio dello spazio e delle figure, ma fonte di sospetto nella filosofia moderna, dove prevale un pensiero che pone al centro della scena un io in posizione dritta e verticale. L’approccio storico-filosofico della Cavarero intenzionalmente non rettilineo, utilizza sollecitazioni raccolte in ambito letterario, filosofico e artistico per riflettere sulla postura del soggetto a partire dal pensiero di Kant: «Le parole di Arendt hanno il merito di ricordarci che il significato della parola inclinazione rimanda a un immaginario geometrico, ma soprattutto di ribadire ancora una volta che, nel teatro filosofico, al centro della scena c’è un io in posizione dritta e verticale. […] A cominciare da Platone, l’inclinazione è, per i filosofi, perpetua fonte di apprensione che si rinnova in ogni epoca e che nella modernità, con l’ingresso dell’io libero e autonomo celebrato da Kant, assume un peso particolare»8. Secondo la concezione moderna dell’io, il tema della postura obliqua, oltre a un’analisi di ordine morale, rimanda anche a una questione ontologica: «Un io inclinato, sporto all’esterno, non è più dritto, ossia pende rispetto all’asse verticale su cui si regge e che lo rende un soggetto autonomo e indipendente perché bilanciato su se stesso. Ciò spiega perché i filosofi abbiano l’ossessione di controllare e disciplinare, al limite, di eliminare le inclinazioni. […] L’inclinazione materna, in quanto postura legata allo scenario della natalità, può diventare lo schematismo fondamentale, il gesto disegnatore di una nuova geometria posturale che non solo piega sull’altro il soggetto ma evidenzia il loro rapporto come strutturalmente asimmetrico»9. Cavarero identifica nella necessità di riconoscere le qualità dell’inclinazione una possibile strada per licenziare il pensiero patriarcale: «Il che non significa, ovviamente, che tutte le relazioni asimmetriche che accadono dentro questa nuova geometria ricalchino lo sbilanciamento radicale del rapporto fra madre ed infante. […] Significa tuttavia che, in questa ontologia relazionale del vulnerabile geometricamente intesa, la centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e dei suoi sogni di autonomia, appare molto improbabile. Schemi basati sulla verticalità e la simmetria risultano, qui, in sostanza, un’anomalia; e l’idea di “un soggetto che si sorregge da solo, che cerca di riassemblare la propria vaneggiata interezza, a costo di negare la propria vulnerabilità, la propria dipendenza, il proprio essere esposto”, risulta un patetico abbaglio».10

Se pur in altro ambito di indagine filosofica, la necessità di una continua negoziazione con la norma e con i valori dominanti viene affrontata anche da Rosi Braidotti, docente di studi di genere a Utrecht, filosofa e femminista,11 che dichiara di non avere accolto «ben volentieri gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico. Interpreto la svolta postumana come una felice opportunità di decidere insieme chi e cosa vogliamo divenire».12 In merito ai limiti dell’umanesimo, l’analisi di Braidotti include anche le contraddizioni, messe in luce dal femminismo, che pongono al centro dell’universo, tendenzialmente, un uomo di sesso maschile, europeo, eterosessuale e di razza bianca che poco include le alterità (umane e non) e le minoranze. Da qui la necessità di trovare nuove soluzioni ancora una volta spostando il punto di vista, per pensare a «nuovi schemi sociali, etici e discorsivi della formazione del soggetto per affrontare i profondi cambiamenti cui andiamo incontro», rafforzando l’«interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi i non umani e gli “altri della terra”, attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo eurocentrato».13 Braidotti sostiene che «L’umanesimo, sta di fronte a noi con la sua autorevolezza oggi aumentata dalle nuove forze gravitazionali del senso: l’eurocentrismo è un sistema normativo ed egemonico, tutti gli umanesimi sono stati imperialisti, e questo paradigma eurocentrico implica una dialettica binaria tra il sé e l’altro. Vi è quindi l’urgenza di progettare ulteriori schemi sociali, etici e discorsivi della formazione del soggetto per affrontare i profondi cambiamenti cui andiamo incontro».14

Il tema delle implicazioni a seguito dei profondi cambiamenti intervenuti nell’ esistenza contemporanea all’interno della polis è stato ampiamente affrontato nella «lectio magistralis» dal titolo Esistenza15 tenuta a Carpi nel settembre del 2019 – all’interno del programma del Festival della Filosofia di Modena – da Donatella Di Cesare, filosofa, saggista e docente di Filosofia teoretica alla Università “La Sapienza” di Roma. Di Cesare definisce lo stato attuale del mondo un supermarket planetario: «Questo mondo del tardocapitalismo è quello della catastrofe ecologica imminente, di cui troppo spesso si dimentica la responsabilità: l’incandescente sovranità del capitale. Così è ormai più facile figurarsi la fine del mondo che immaginarsi la fine del capitalismo. […] Qui domina una exofobia, una paura abissale, un freddo panico per ciò che è esterno, per ciò che è oltre e altro. Si resta all’interno, accettando una chiusura spaziale che è anche una prigione temporale. Mancanza di sensibilità, privazione di memoria, riduzione delle facoltà percettive, impossibilità di riflessione caratterizzano il sonnambulismo di massa. […] Scontato è il ripiegamento sul proprio ego, in un egoismo divenuto ormai extra-morale, fomentato dal modello dell’incorporazione dettata dal consumo. […] Mentre esistere significa emergere da sé, protendersi fuori, il suo esistere è diventato uno sconsolato in-sistere, che grava sul proprio centro. […] Il presunto soggetto sovrano ha finito per soccombere alla exofobia contemporanea proiettando il negativo all’esterno, in una visione torva e minacciosa, accettata supinamente».16 Di Cesare descrive il concetto di exofobia come la paura per tutto ciò che è fuori, l’avversione per ciò che è oltre e altro, l’orrore per l’esterno e l’estraneo, la conseguenza di una reazione negativa a una politica ridotta a polizia preventiva. Questa fobia è il risultato della pulsione di chi vorrebbe restare immune, scongiurando ogni mutamento e chiudendo la porta all’altro, bandito perché potrebbe infettare. E con l’altro non si intende solo lo straniero, chi viene da fuori, ma anche chi va fuori: «D’altronde nel mondo dell’indifferenza postimmunitaria, della voracità bulimica, della pienezza di sé, non può esserci ospitalità. Perché l’ospitalità è interruzione del sé. Qui però i calcoli non hanno funzionato: non si è previsto che la negazione dell’altro sarebbe stata anche autonegazione. Così si è messa in moto una spirale di autodistruttività. Abitare è un sinonimo di esistere, nel senso di stare al mondo. Purché il mondo non venga considerato un container. È questo, appunto, il caso del supermarket planetario, un universo sempre più inabitabile. […] Rendere il mondo abitabile vuol dire opporre alla exofobia una exofilia, un’amicizia per l’esterno, anche e proprio là dove sembra essere più estraneo, dove intimorisce e spaventa. La polizia preventiva del sé che pretenderebbe di essere stanziale e iperprotetto porta al naufragio. Solo la traumatica leva dell’altro può far uscire dalla narcosi dello stordimento».17

«gli atomi cadono in linea retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, essi deviano impercettibilmente la loro traiettoria in modo appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell’equilibrio»

Lucrezio, De rerum natura

LE IMMAGINI – scelte dalla “bottega e riprese dalla rete – SONO DI JACEK YERKA.

NOTE

1

 Nel luglio 1937, la rivista “La Lettura” pubblica lo scritto di Munari: Che cosa sono le macchine inutili e perché.

2

 Fondata a Nova Milanese nel 1954 da Aurelio Zanotta, l’azienda Zanotta sperimenta, crea soluzioni inedite per fare cultura e non solo prodotti, punta su un design fatto d’idee e non soltanto di materia. Prerogativa che mantiene dai tempi del Design Radicale a oggi. La progettazione dei prodotti è realizzata con la collaborazione di architetti e designer di fama internazionale, come Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Gae Aulenti, Marco Zanuso, Ettore Sottsass, Joe Colombo, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Carlo Mollino, Gabriele Mucchi, Piero Bottoni, De Pas-D’Urbino-Lomazzi, Enzo Mari, Bruno Munari, Alfredo Häberli, Roberto Barbieri, Ross Lovegrove, Ludovica+Roberto Palomba, Ora Ïto, Noé Duchaufour-Lawrance, Atelier Oï, Damian Williamson, Lievore Altherr Molina, Vicente Garcia & Alessandra Cumini. Riccardo Dalisi la defininisce come «esempio di alta competenza specialistica e di apertura a tutto campo verso l’arte e le diversità dei linguaggi».

3

 Si veda https://www.ocula.it/files/OCULA-FluxCollege-RUSSO-Sedia-per-visite-brevissime-di-bruno-munari.pdf.

4

 Gianni Rodari, La galleria. In Filastrocche in cielo e in terra, Torino, Einaudi, 1960.

5

 Marco Belpoliti, Bruno Munari. Creatività, 24 ottobre 2016, in «Doppiozero», https://www.doppiozero.com/materiali/bruno-munari-creativita.

6

 Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, traduzione Chiara Tartarini, Torino, Bollati Boringhieri, 2016.

7

 Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013.

8

 Ibid.

9

 Ibid.

10

 Ontologia dell’inclinazione, in https://www.unipa.it/dipartimenti/cultureesocieta/.content/documenti/relazioni-summer-school/Cavarero.pdf.

11

 Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi, 2014.

12

 Ibid.

13

 Ibid.

14

 Ibid.

15

 Si veda l’estratto, dal titolo Un’esistenza per sonnambuli, in «il manifesto», 14 settembre 2019.

16

 Ibid.

17

 Ibid.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Articolo prezioso ed ecomiabile che sottoscrivo in toto: Garrincha, favolosa ala destra carioca degli anni ’60, aveva nel suo repertorio una irresistibile finta, cui tutti i difensori abboccavano, dovuta in parte dall’aver una gamba piu’ corta, conseguenza e postumo di una poliomielite superata. Grande. Anche se mori ancora giovane, povero e in disgrazia.

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