Epifanie e altre notturne incursioni – di Mark Adin

Nella mia formazione ci fu un tratto di strada: mi collegava alla scuola elementare per un centinaio di passi, che percorrevo quattro volte al giorno. In quel breve tragitto, il caso mi ha regalato uno degli incontri più straordinari.

Quel suono – “Lotteria di Monzaaaaaaa!” – proveniva da una  cassa di legno pitturata in verde, di misura appena sufficiente per contenere la cosa, e la cosa era forse persona, che ci stava seduta, avvolta in scialli, sciarpe, coperte, strati successivi di lane vecchie e infeltrite, a metà fra un Touareg e una cipolla, lasciando scoperto il viso rotondo  privo di espressione. Passando davanti al baracchino si udiva la voce, impersonale e di genere indecifrabile, emettere un verso, un grido lacero e arrugginito, un barrito sommesso.

Si sa, la Fortuna è stata annunciata nei secoli da esseri vicini a mondi ultraterreni, i quali sapevano attingere, in virtù della loro natura, vaticinii e presagi. Dunque di che stupirsi, davanti a simili creature. Un cucciolo di uomo, che misura le prime esperienze del Mondo, non può che restarne affascinato, come un esploratore che ode lo strepito dell’uccello, il ruggito della fiera, il frusciare del serpente, il galoppo dello gnu, la risata della iena. Ma c’è ancora di più nello stupore provato nel bird-watching dell’ippogrifo, nell’udire il nitrito dell’unicorno o il muggito del minotauro: c’è la presenza del Mito.

Ecco: qualcosa di aggiuntivo, alla sonorità vocale della natura terrena, si ritrova nella voce proveniente dall’altro mondo. Di questo stesso impasto era fatto il bramito proveniente dal casotto di legno verde, al cui interno stava asserragliato l’uomo che, dopo fugaci ripetute osservazioni, si rivelò essere forse donna, traendo altro mistero da queste metamorfosi, da questa labilità di genere.

Sulla piccola ribalta, appena sporgente dalla sagoma del parallelepipedo, erano appoggiati, aperti a raggiera, alcuni biglietti della lotteria, fermati da un ferro di cavallo, lucidissimo del  continuo contatto con le dita degli acquirenti, che non mancavano di adempiere il consumato e irrinunciabile rito di ingraziarsi la sorte. Altri fruscianti biglietti erano appesi ai lati dello sportello, e garrivano al vento come bandiere tibetane, sulle quali la scrittura di brevi preghiere viene fecondata dal soffio di Eolo. Il faccione strascicava il mantra, ora col flebile timbro della trombetta di carnevale, ora con la potenza del basso-tuba, ora con un belato caprino. “Lotteriadimonzaaaaaa…”

L’ermafrodito, ai miei affamatissimi sensi, si rivelava il mistero dei misteri soprattutto per l’inafferrabilità del suo sguardo. La creatura portava occhiali dalla montatura di plastica – una stanghetta visibilmente riparata con nastro adesivo – recante dietro a una lente una presa di cotone idrofilo, lercio e ingiallito, a riparare una delle orbite, probabilmente vuota. Il cotone appariva compresso tra il viso e la lente, conferendo all’aspetto ulteriore, indicibile, mostruosità.

L’occhio visibile, tuttavia, non era, come tutti gli occhi umani, rivelatore di una qualche attività almeno sensoriale, se non cerebrale: era qualcosa più simile a un fanale di bicicletta, che illumina fioco e in modo insufficiente un percorso. Ben poca vita risiedeva in quello sguardo perennemente fisso, vitreo, dalla pupilla ferma e ingrigita.

Una mano, la cui pelle squamosa, esito di stratificazioni di eczemi, pareva quella del “mostro della palude”, emergeva dal nulla e porgeva al frettoloso acquirente il tagliando, pescato su richiesta da uno dei fascicoli dal diverso numero di serie. Accompagnava il gesto con un “Buona fortunaaaaa…” dalle più diverse sfumature sonore, ma sempre venato di una pacatezza innaturale, quasi un congelamento dello stesso augurio, una sospensione della sua validità.

Non avrei saputo stimarne l’età, del resto che ne sa l’uomo comune, di quanti anni possa avere un leone marino, una tartaruga, una scolopendra? Il tempo, noto paradosso, è diversamente applicabile alla diversità delle  persone.

Non ricordo con esattezza il momento in cui la casetta verde sparì. Me ne accorsi quando, probabilmente, era già svanita da un pezzo. Restò, unica traccia del minuscolo chiosco – botteghino, un segno sul marmo della pavimentazione dei portici, come una delle ombre sui muri di Hiroshima, che fu prima dell’esplosione atomica un uomo o una donna, la cui sagoma venne proiettata e impressa come su un negativo fotografico divenendo pura traccia semantica. Così fu per il bozzolo verde.

Anche da noi scoppiò forse un’atomica? Oggi mi rendo conto che sì, è deflagrata un’atomica culturale, dalla potenza distruttiva incalcolabile, che ha dato origine a mutazioni genetiche: oggi siamo tutti carini, tutti ugualmente sorridenti sulle affollatissime spiagge. Palestrati, depilati, abbronzati, pettinati, attutiti. L’omologazione al bello ci nasconde la diversità, la grazia ineffabile e necessaria della mostruosità, ci separa in modo sistematico da chi è toccato e trasformato dagli dei, da chi viene dolcemente oppure violentemente rapito dagli angeli; siamo repellenti al puzzo dei clochard, confiniamo in nuovi manicomi la libertà scritta dalla follia, assassiniamo i sogni. Siamo belli, sì, ma ci assomigliamo tutti.

Ancora mi rifugio nella notte, benedetto dall’insonnia, inseguito da un incubo urlante tutta la sua indisponibilità a farsi ridurre, accolto dal buio notturno che è ancora  l’amico migliore del mistero di vivere, attratto inguaribilmente dall’infezione della poesia della tenebra.

Alcune creature spaventose, nel sogno agostano davvero terrificante, mi ripetono l’ invito a cui intendo resistere: “Hic mane!”, ripetono le sgraziate sirene del male, “Hic mane!”.

Nel cuore della notte, novello Van Helsing, apro il frigo ed estraggo un ghiacciolo al lampone. I demoni, a malincuore loro, scompaiono. Perché il ghiacciolo risolve, catalizza le energie positive e placa le Furie dell’Oltremondo. E, naturalmente, rinfresca.

Mark Adin

Redazione
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Un commento

  • Marco Pacifici

    …pero’…la schiera furiosa…colei che ghermisce gli infami…La Fred Vargas mi ha dato un’idea…una splendida idea… E non son Dèmoni… o forse i Dèmoni sono nostri compag ni di strada.

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