Eritrea, il passato italiano…

… che non passa

di Alem Woldezghi (*)

Il divieto delle unioni miste fu il segnale inequivocabile di una svolta nella politica di «razza» del colonialismo italiano: ebbe la doppia funzione di mantenere la «purezza italiana» e di evitare ogni promiscuità.

Il meticciato era, dall’inizio dell’impresa coloniale, una realtà di fatto. Ma quando il fascismo proclamò l’impero divenne metafora della promiscuità che avvelena la «razza». La lotta contro il meticciato fu l’affermazione definitiva della supremazia razziale del colonizzatore sul colonizzato.

Ho scelto di usare i termini «meticciato» e «meticci», pur consapevole della connotazione negativa che per taluni possono assumere. Di tutte le parole utilizzate dai testi fascisti per indicare i figli nati da relazioni miste, queste mi sembrano comunque le più “neutre”. Inoltre proprio il fatto che il meticciato sia utilizzato anche in senso metaforico e non solo «biologico» mi ha indotto a questa scelta.

Nella seconda metà degli anni Trenta l’unione fra un italiano e una nativa eritrea – appartenente cioè a una «razza» che sedicenti scienziati avevano «dimostrato inferiore» – è considerato un crimine. Antropologi e legislatori demonizzano le unioni miste, soprattutto per gli effetti devastanti sulla prole, destinata secondo i cosiddetti biologi eugenisti dell’epoca a ereditare i caratteri fisici e psicologici della madre piuttosto che del padre (l’unione di una bianca con un nero non era ipotizzabile).

Si intrecciano in questo passaggio storico il mito della «venere nera» e la criminalizzazione fascista. La metafora sessuale della conquista e del possesso del continente sostiene il colonialismo italiano lungo tutto il suo corso: non a caso la canzonetta «Faccetta nera» accompagna – con lusinghe e promesse – la marcia dei soldati italiani nel 1935 verso la conquista dell’Etiopia.

L’esistenza di una massa ingombrante di meticci, per lo più abbandonati [la cui identità è anche giuridicamente problematica oscillando, nella giurisprudenza del tempo, fra quella del cittadino italiano e del suddito coloniale] costituisce un problema sin dall’epoca liberale, tanto che già nel 1905 si pensa di arginarlo con misure che consentano il riconoscimento di paternità anche al di fuori del matrimonio.

Nel 1935, alla vigilia della guerra all’Etiopia, il rapporto fra meticci e italiani in Eritrea è quasi di 1 a 3. Dimostra anche la violenza con cui hanno operato i militari italiani dall’inizio dell’impresa coloniale: donne usate come schiave domestiche e sessuali, tirate a sorte fra gli ufficiali. Uno sfruttamento sessuale che riempie i sifilocomi [dove all’epoca si recludevano le persone malate di sifilide, all’epoca pressoché incurabile]. Violenze di genere commesse già dai primi anni del colonialismo.

Come logica filiazione della politica imperial-razzista, inizia la demonizzazione del meticciato che vede impegnata tutta la stampa di regime: il meticcio viene dipinto come essere inferiore, tarato da forme di degenerazione e perversione sia morale che intellettuale.

L’unione con le indigene, secondo la pubblicistica sia colta che popolare, produrrebbe effetti devastanti per la purezza e l’integrità della razza «superiore», attraverso una progenie degenerata, «geneticamente predisposta» all’ozio, all’asocialità, alla sfrenatezza sessuale, tarata dal punto di vista fisico, psicologico e morale.

In relazione alla categoria di identità, il progetto coloniale italiano ha avuto duplice valenza. Prima si è delineato come possibile soluzione per arginare il fenomeno migratorio. Poi, con il progetto imperialista di Mussolini, si è affermato come strumento in grado di risolvere una volta per tutte anche la questione razziale. Proprio questo aspetto ha reso particolare – e spesso più feroce – l’impresa coloniale, nel resto del tutto simile a quelle delle altre nazioni europee. Non dunque, come continua a sostenere ancor oggi una vecchia posizione assolutoria, «italiani, brava gente». Tutt’altro: date le condizioni sociali e culturali (per il fallimento della unificazione italiana anche in termini economici e politici) il colonialismo italiano pre-fascista e fascista si è servito del razzismo – fino agli esiti più feroci dell’apartheid e degli eccidi di massa dei colonizzati – anche per dare agli italiani un’identità in cui riconoscersi.

I coloni disillusi coltivano la propria nostalgia per il «posto al sole» mentre i figli amareggiati di coloni e ascari si trovano bloccati in una metropoli di cui hanno servito il progetto imperiale con coraggio e fedeltà. Ma è arrivato il momento di guardare la storia oltre le immagini costruite, oltre le vestigia dell’impero passato e le sue icone presenti. Nelle colonie le donne erano i soggetti-oggetti della propaganda ufficiale coloniale che prometteva un paradiso di piaceri carnali. Una storia… non conclusa. A tutt’oggi oltre 300 italo-eritrei stanno cercando di ottenere la cittadinanza italiana. Il dato è riferito dal «Comitato di studi per la cittadinanza agli italo-eritrei», fondato nel 1997 da alcuni frati cappuccini, molti dei quali italo-eritrei. Il loro status come membri emarginati dalla società italiana mostra la falsità della retorica contemporanea su uguaglianza e multi- cultuturalismo. Abili guardiani continuano a rimandare l’accoglienza degli «italiani neri» e a fornire lusinghe di «appartenenza» espresse in termini che fanno rivivere il ruolo di «servitori fedeli» dell’impero. Ma civiltà che l’Italia ha portato in Africa era consentire al soldato di rubare, stuprare e assassinare in nome della Patria. Molti dibattiti italiani di oggi sugli extra-comunitari fanno da eco alle antiche paure coloniali dei «frutti dell’impero».

Vorrei sottolineare la necessità di collocare i crimini sessuali del fascismo nell’intreccio fra politiche razziali e politiche sessuali, anche per comprenderne a fondo la connessione coi crimini razzisti di cui il colonialismo mussoliniano ha espresso punte estreme di atrocità.

Nella letteratura coloniale e nel dibattito successivo c’è un’altra questione su cui domina il silenzio, quella degli ascari. Un vuoto riconducibile al più generale problema della rimozione coloniale dalla memoria storica dell’Italia repubblicana in quanto associata, un poco grossolanamente, con il fascismo. Infatti la fine ingloriosa della dittatura, conclusasi con una disfatta militare che ebbe inizio proprio con la perdita delle colonie, comportò una associazione pressoché assiomatica tra fascismo e colonialismo. Il silenzio storiografico determinò un meccanismo paradossale che ha visto, da un lato, l’improvviso invisibilità dell’Africa e dei trascorsi coloniali nel dibattito culturale della prima Italia repubblicana e, dall’altro, ha confinato a lungo la trasmissione della memoria storica del colonialismo italiano in Italia a una sopravvivenza semi-clandestina nei circuiti spesso informali di una sospetta nostalgia. I bollettini di associazioni di reduci e di vecchi colonialisti [o «asmarini», come amano vezzosamente definirsi], la memorialistica pubblicata da protagonisti diretti delle vicende militari e i tentativi di raccogliere in modo amatoriale la documentazione sugli ascari compiuti da ex-colonialisti o loro simpatizzanti sono stati fino ad anni recenti le uniche produzioni che abbiano tentato di trasmettere memoria. Questo tipo di letteratura oltre a riproporre i consueti stereotipi sugli ascari consolidatisi in epoca coloniale ha sviluppato un complesso discorso sul «tradimento» dell’Italia dovuto al mancato adempimento del proprio dovere storico nei confronti delle ex-colonie. In questo tipo di analisi lo stereotipo dell’ascaro «fedele servitore della bandiera italiana» viene arricchito di una nuova valenza simbolica incorporando l’immagine massima del tradimento ordito dall’Italia repubblicana verso sudditi «leali e devoti» che, nel caso degli ascari, avevano versato il proprio sangue o conseguito gravi menomazioni per una nazione che poi indegnamente volta le spalle, quasi negandone l’esistenza. La profondità temporale e l’estensione geografica di questo silenzio pongono seri interrogativi allo storico che è chiamato a spiegare le ragioni profonde che lo hanno determinato ed in parte continuano a determinarlo.

Il tributo di vita e di sangue offerto dagli ascari eritrei è stato elevatissimo: in realtà l’intero peso dell’espansione in Aoi [Africa orientale italiana] è stato portato dalle truppe indigene. Un terribile contributo: circa 60 mila uomini trasformati in carne da cannone.

(*) Alem Woldezghi è nato nel 1949 ad Addi Techelesan [Asmara] in Eritrea. In gioventù ha militato nelle file dell’ Eplf, l’Eritrean People Liberation Front, movimento politico-militare impegnato nella lotta di liberazione del popolo eritreo dall’occupazione etiopica che è durata fino al 1993, anno in cui l’Eritrea è diventata indipendente. Woldezghi è arrivato in Italia nel 1973 con lo status di rifugiato politico, attualmente risiede con la famiglia a Reggio Emilia. Ho recuperato questo suo articolo nel dibattito (che vorrei proseguisse) sul colonialismo italiano aperto – anzi riaperto – domenica qui in blog. L’articolo di Woldezghi è uscito (nel 2007) sul sito del settimanale «Carta» con il titolo con il titolo: «Eritrea: il passato italiano che non passa», l’occhiello «Un dramma alle radici del colonialismo che contamina i dibattiti dell’oggi» e il sotto-titolo «Il meticciato come minaccia alla politica razziale e la questione degli ascari» (db)

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