Eros e Thanatos in Aldo Palazzolo

di Giovanni Carbone

Aldo Palazzolo, dalla Siracusa matrigna, è fra i testimoni più importanti del nostro tempo avendo immortalato i più grandi protagonisti del mondo della cultura contemporanea. Personaggi illustri (tra gli altri Patty Smith, Adonis, Giulio Andreotti, Gesualdo Bufalino, Rudol’f Nureev, Sinopoli) ma anche dettagli sorprendenti e inconsueti che racchiudono storie, segreti, interessanti sempre.

Immagini che inquietano profondamente e spesso, quasi sempre anzi, seducono. Nel 1989 il critico Peter Weiermair lo segnala fra i ritrattisti più importanti al mondo allestendo l’esposizione e il catalogo per “Il ritratto nella Fotografia Contemporanea” con artisti come Andy Warhol, Robert Mapplethorpe, Annie Leibovitz, Bruce Weber, Mary Ellen Mark, Cleg & Guttman, Lynn Davis, Thomas Ruff. Ha esposto in manifestazioni di prestigio internazionale: da Arles, dov’è presente nel 1992 con una grande personale, alla Biennale di Venezia, ai festival di fotografia di Amsterdam, Liegi, Montpellier etc. Dal ’90 in poi vira verso una ricerca personalissima che lega l’elaborazione della foto alla riflessione sulla luce e sull’alchimia e che denomina “Liquid Light”. È stato fotografo di scena nel film “Il Garofano Rosso” ed ha curato le scenografie degli spettacoli “Change de Peu” a Geneve e “Le vecchie e il mare” dal testo del poeta greco Jannis Rytsos a Catania e Genova. Autore dei video-ritratti dedicati a Manlio Sgalambro, filosofo catanese, ed Enzo Sellerio, fotografo e fondatore dell’omonima casa editrice palermitana.

Difficile parlare della sua opera completa, troppo vasta, ricca delle suggestioni di esplorazioni vertiginose, delle magie delle camere oscure, scarse propensioni per i pixel.

Val la pena soffermarvisi a spizzichi e bocconi, per esempio con la sua ricerca su Eros e Thanatos.

In principio fu l’Eros (La Genesi)

Se v’è poco dubbio che tutto ebbe inizio dall’Eros, qualsiasi ripopolamento naturale e umano, la ricerca di questo è divenuta ossessione e non fluida riscoperta dell’essenza stessa dei viventi – ivi compreso il genere umano – gesto semplice e naturale. Al contrario, l’Eros, o viene definitivamente derubricato a pratica immorale, lì dove è stata la fonte cui si sono abbeverati poeti ed artisti d’ogni epoca e luogo, oppure sostituita dall’esasperazione del motto assai poco aulico del “persi per persi meglio perversi”, in definitiva, surrogandone il ruolo di riscoperta minimalista della sua essenza primordiale ed istintiva, delicata poesia di sensi, ad una kermesse di sovrastrutture, tacchi a spillo compresi. Nelle sue immagini della serie dei marmi, Aldo Palazzolo, invece, si rivolge nuovamente ad un Eros genetico, a quell’essenza perduta e sepolta dalla mondanità corrotta delle sovrastrutture, lo ritrova nella semplice e vertiginosa nudità delle forme. Continua, dunque, in una sorta di staffetta ideale, l’opera di recupero della materia primordiale, della forma nascosta, in parte già denudata degli eccessi materici di cave pregiate, da grandi estrattori di poesia umana dai blocchi di marmo.

Palazzolo, come è aduso fare, non scatta per scattare, non ha tempo da sottrarre alle pigrizie del Sud, va giustappunto all’essenza, interrogando i marmi circa il pensiero di quei creatori che li hanno liberati, secondo modalità e prassi michelangiolesche, dall’involucro di materia morta, restituendoli alla vita, ed in questo compie ed esalta nel contempo il gesto erotico definitivo e vertiginoso che solo può essere nella scoperta. Interrogando i marmi, con l’occhio “obiettivo” del ricercatore, deduce, e forse scopre al di là d’ogni ragionevole dubbio, il nucleo fondante del pensiero antico che ha generato quella vita di pietra. Una vita che, oltre il pensiero della forma minimale da cui si è generata, viene poi occultata da sovrastrutture, appunto, come certi vini del sud, serviti allungati con la gazzosa perché troppo difficili da buttar giù per corpo ed eccessiva adesione organolettica a terre aspre. Palazzolo dunque “denuda” il dettaglio primigenio, individua in quello il nucleo generatore dell’opera, lo libera da ciò che non serve del tutto d’intorno cui fu imprigionato dal “benpensantismo” che ad ogni epoca il – per definizione – declinante impero impone alle donne e agli uomini, perché non riscoprano in sé, nella propria viva carne, ciò solo di cui hanno veramente bisogno. Poi ce lo rende, in forme inequivocabili, annullando distanze temporali ed aggiungendo il vuoto d’intorno che non crea equivoci, che proietta in una dimensione immaginifica e sorprendentemente condivisa chi si trova al cospetto di quell’immagine.

Thanatos, ovvero de profundis per l’altro inizio.

È nel gesto intriso di pietas della Veronica a ricoprire il corpo martoriato del Cristo che si cela il primo scatto fotografico, il primo sviluppo. Nella concretizzazione di quel sogno d’una immortalità donata nell’imprimersi d’un volto, d’una immagine che prende vita nella camera oscura del tempo, in fin dei conti v’è tutta la tecnica più evoluta, oltre la volontà del gesto; altro che megapixel e photoshop, è invece un atto istintivo che procrastina la narrazione del ritratto all’infinito, come in un click, il click definitivo. Ma il desiderio profondo di sopravvivere a se stessi, prolungando il proprio corpo al di là d’ogni ragionevole barriera temporale, è anche altro, appartiene agli uomini d’ogni epoca, non nasce per caso e conto terzi; la volontà di esorcizzare la caducità d’una esistenza in forme biochimiche sostituendola con l’essenza della pietrificazione che, scarnificando il bio, salva l’immagine e con essa la volontà d’aggrapparvisi in eterno, è cosa da pazzi, ma anche assai diffusa, dai faraoni a Faust, dai corredi funebri a Dorian Gray. “Che fine ha fatto Baby Jane?” è invece roba da giorni nostri, da maquillagé dovuti e ricercati, perché si nasconda la cosa più vera che ci appartiene e che, in definitiva, è che ci apparteniamo per poco più di uno sbadiglio. Palazzolo, che nemmeno nei più audaci voli pindalici riesce a rassomigliare alla Veronica, quando scende nella cripta dei Cappuccini di Savoca, comunque fa quella semplice operazione di chiudere il cerchio, illustra l’illustrazione, amplifica e mette il Re Nudo, denuncia la pazzia di conquista dell’eterno, mostrandoci il volto tumefatto e scarnificato del tentativo fallito.

Chiude il cerchio, in un giro ampio che dura millenni, dal lenzuolo della Veronica, che voleva in realtà nascondere l’orrore del martirio per preservare la bellezza della memoria, ottenendo però l’opposto paradossale, sino al martirio post-portem, alla tecnica brutale che precede alla tragica consapevolezza della morte dell’immortalità. E la pazzia d’essere eterni è del Re, dell’Imperatore, del capo in quanto tale, il miserabile non vi aspira, prende quel che c’è, non vuole un monumento alla sua sciagura, non vuol diventare un Prometeo incatenato, gode delle pause in cui l’aquila è lontana semmai, e non banchetta con la sua carne viva; s’approfitta di quel che viene, pretende al massimo poco più, serene esistenze ad esempio, anche brevi s’è il caso, altro che vite eterne. Ed è dunque un cerchio chiuso, il tempo dell’immortalità, un cerchio che è la dimensione di ciò che si può spezzare, proprio come quelli incisi sulla sabbia da Archimede, a due passi da dove Palazzolo è nato, ucciso dalla barbarie per essersi distratto in una formula geometrica, per essere rimasto in contemplazione del giro perfetto. Il cerchio chiuso, dunque, la metafora di come le cose degli uomini possano essere mirabilie poetiche, maraviglie ed armonie in forme perfette, frutto esclusivo della ricerca del bello, ma che poi si trasfigurano nel potere e nel possesso, e nella conseguente maledizione di portarseli dietro per sempre, in un’orgia di devastazione e di corruzione che quel cerchio spezza, definitivamente, nel semplice tempo d’un battito di ciglia.

 

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