Estrema destra in Europa

“Il panorama dell’estrema destra europea: populismi e destre estreme a Est e a Ovest”

un dossier di Saverio Ferrari (*)

In Europa Populismo, nazionalismo, estremismo di destra e neonazismo, per quanto continuino a rappresentare fenomeni specifici e distinti, tendono sempre più ad accavallarsi e sovrapporsi, mescolandosi l’uno nell’altro.

Lo studioso francese Pierre Milza, docente di storia contemporanea all’Institut d’études politique di Parigi, in un lungo e articolato lavoro di scavo sull’estrema destra di qualche anno fa, ha sostenuto come il «pericolo principale che minaccia le nostre democrazie liberali», sia attualmente rappresentato dalle destre nazional-populiste. «Numerosi di loro», ha teso a puntualizzare, riferendosi in particolare ai leader, «vengono da movimenti neofascisti e neonazionalisti del secondo dopoguerra», e mirano «a far entrare nella testa delle popolazioni delle idee già veicolate più di un secolo fa», dalla «criminalizzazione dell’immigrato all’arroccamento sull’identità, declinate etnicamente o culturalmente». Un fenomeno politico – ha concluso – «che per ampiezza sorpassa di gran lunga gli occasionali sfondamenti dell’ultradestra dopo il naufragio della coalizione hitleriana»1.

Il panorama, in questi ultimi anni si è ulteriormente aggravato, con un dato: l’onda è cresciuta trasversalmente da Est a Ovest.

DENTRO E SUI CONFINI DELL’UNIONE EUROPEA

Le ultime elezioni europee, nel giugno 2009, hanno fotografato la forte crescita delle destre populiste e radicali.

In Inghilterra il British national party, apertamente fascista, ha raggiunto il 6,2%, eleggendo per la prima volta nella sua storia due deputati; in Olanda, la formazione ferocemente anti-islamica di Geert Wilders, il Partito per la libertà (Pvv), ha raggiunto il 17%; in Austria i due gruppi anti-immigrati, il Partito della libertà dell’Austria (Fpo) e l’Alleanza per l’avvenire dell’Austria (Bzo), hanno totalizzato complessivamente più del 17%. In Belgio il Vlaams belang (Interesse fiammingo) ha raggiunto il 10,9%, in Danimarca il Dansk folkeparti (Partito del popolo) il 14,8%, in Grecia i razzisti del Laos (acronimo di Unione popolare ortodossa) il 7,2%, mentre il Francia il Front national di Le Pen si è attestato al 6,3%, per poi schizzare al 10% nelle regionali del 2010. In Svezia, Sverigedemokraterna (Democrazia svedese) è passata dal 3,3% delle europee al 5,7% delle politiche del settembre 2010.

Fuori dai confini dell’Unione europea, nella vicina Svizzera, nelle legislative del 2007 il vecchio partito agrario dell’Unione democratica di centro ha raccolto il 28,9%, flettendo solo di qualche punto nel 2011 (25,9%). Un successo analogo a quello raggiunto all’estremo nord del continente, in Norvegia, dal Partito del progresso (Fremskrittspartiet), che nelle elezioni del settembre 2009 è cresciuto di oltre sette punti, fermandosi al 22,1% dei voti.

La situazione non migliora guardando a Est. L’ungherese Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore), ultranazionalista, antirom e antisemita, prima ha conquistato il 14,8% nelle elezioni per il Parlamento europeo, poi il 16,7% in quelle politiche, dietro ai conservatori del Fidesz (Alleanza dei giovani democratici-Unione civica ungherese), che hanno eletto con il 52% Viktor Orban, il loro leader, alla guida del governo; in Romania il Partito della grande Romania (che ha in odio gli ungheresi della Transilvania e ambirebbe a inglobare la Moldova) si è fermato all’8,6%; in Bulgaria Ataka (Attacco unione nazionale), ostile alla minoranza turca e contrario all’ingresso nella Nato e nella Ue, all’11,96%; in Slovacchia il Partito nazionale (Sns), che addebita agli ungheresi la responsabilità di una dominazione durata 150 anni, al 5,56%.

In un’inchiesta, apparsa nel gennaio 2011 su «Le Monde diplomatique», curata dallo storico e giornalista Dominique Vidal, si faceva rilevare come dal 2009, comprendendo anche le consultazioni elettorali successive alle europee, le formazioni della destra populista e razzista avessero totalizzato più del 10% dei consensi in ben 11 stati: Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Ungheria, Italia, Lituania, Norvegia, Olanda e Svizzera2.

IL NEMICO ESTERNO

Le situazioni, da paese a paese, sono spesso molto diverse. Diversa anche l’incidenza della crisi economica sulle realtà nazionali. Simile, invece, la scelta da parte dei partiti o movimenti qui citati di scagliarsi, in primo luogo, contro un nemico esterno, di volta in volta identificato nei rom, nei gay, negli ebrei, nei musulmani o negli stranieri in genere. Un’“invasione” contro la quale riscoprire e rilanciare presunti valori patriottici attraverso un acceso nazionalismo o velleità separatiste. Un unico fenomeno con mille sfaccettature.

I processi di globalizzazione hanno accompagnato l’ascesa di queste tendenze, già presenti in nuce da alcuni decenni sotto forma di piccole o ininfluenti formazioni politiche. La comparsa in Europa dei primi partiti della destra populista data infatti fin dagli anni Settanta: il Front national di Le Pen in Francia (1972), il Partito del progresso in Norvegia (1973) o il Vlaams blok in Belgio (1978).

La loro progressione, prima lenta poi accelerata, è avvenuta in un quadro che è andato rapidamente trasformandosi, segnato da nuovi rapporti economici e finanziari come da profondi cambiamenti tecnologici, con l’introduzione di un’instabilità generale, di insicurezza e paura. Ampi sono stati i settori che si sono ritrovati scoperti di fronte alla nuova realtà sociale.

Alcuni mutamenti epocali, come il crollo dell’Unione sovietica, le migrazioni dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale, l’11 settembre 2001, le catastrofi ecologiche, hanno a loro volta consentito di far incrociare e legare fra loro sentimenti nazionalistici e razzisti, in un quadro politico europeo segnato dalla crisi dei tradizionali partiti e il manifestarsi di una forte mobilità elettorale calamitata in maniera significativa da chi garantiva, di fronte al caos, soluzioni come la chiusura delle frontiere e la riappropriazione del territorio. In molti paesi a far da collante anche il senso di rabbia per una grandezza venuta meno.

Tanti e diversi, in conclusione, i populismi, ma sempre tutti nati in contrapposizione ai governi e alle autorità esistenti.

LO SPOSTAMENTO A DESTRA DEI PARTITI CONSERVATORI

In questo contesto, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è anche prodotto il progressivo spostamento a destra dei partiti aderenti al Ppe, ovvero al Partito popolare europeo-Federazione dei partiti cristiano democratici, formazione transnazionale nata nel 1976 sulla base del Gruppo democratico cristiano al Parlamento europeo. L’originaria matrice cristiano democratica fu messa in discussione, prima con l’ingresso nel 1983 di Nuova democrazia (Nea demokratia), partito greco ultraconservatore, e qualche anno dopo, nell’aprile 1991, con l’apertura formale del Ppe ai conservatori britannici (Conservative party) e danesi (Konservative folkeparti). Seguì, tra il 1992 e il 1993, l’ingresso dei conservatori svedesi del Moderata samling e dei finlandesi del Kansallinen kokoomus.

Già intorno al 1993, il processo di trasformazione del Ppe, poteva dirsi avviato.

Nel 1994 avrebbe dovuto entrarvi il partito italiano vincitore delle elezioni politiche in quello stesso anno, cioé Forza Italia. Dopo un iniziale rifiuto da parte del Ppe, a causa degli accordi politici ed elettorali con Alleanza nazionale, dati i trascorsi neofascisti di questo partito, i suoi deputati vennero accolti nel giugno 1998 all’interno del gruppo parlamentare europeo. L’ammissione ufficiale al Ppe si concretizzerà definitivamente nel dicembre 1999, nonostante l’opposizione del Partito popolare italiano e di altre formazioni democristiane (belghe, olandesi, lussemburghesi, irlandesi, greche, catalane e basche), costituitesi in un raggruppamento interno allo stesso Ppe denominato “Gruppo di azione Atene”.

Grazie infine alla nascita del Popolo della libertà nel 2009 (partito subito ammesso nel Ppe), a seguito della fusione di Forza Italia e Alleanza nazionale, anche alcune vecchie figure della storia del neofascismo italiano, un tempo appartenute all’Msi e poi ad An, entrarono a far parte della famiglia popolare europea.

Il Ppe, il maggior partito rappresentato in ciascuna delle istituzione dell’Unione europea (Commissione, Consiglio e Parlamento), a conclusione di questo percorso si presenta oggi con un assetto fortemente sbilanciato a destra. Si pensi alla presenza al suo interno del Fidesz ungherese, guidato dal premier Viktor Orban, nominato nel 2009 alla vicepresidenza dello stesso Ppe.

TRE MODELLI: IL FRONT NATIONAL, LA LEGA NORD E IL PARTITO PER LA LIBERTÀ

Il Front national in Francia, La Lega nord in Italia e il Partito per la libertà in Olanda rappresentano oggi tre diverse facce del variegato universo delle destre populiste e radicali europee.

Il Front national, una delle maggiori e più longeve formazioni presenti sul continente, si costituì nel 1972 prendendo a proprio esempio il Movimento sociale italiano, adottando addirittura in suo onore lo stesso simbolo (una fiamma tricolore con i colori della bandiera francese al posto di quella italiana). Il suo nucleo fondante, costituito dal gruppo filonazista di Ordre nouveau, si identificò nell’immediato con il primo gruppo dirigente. Ben quattro membri della segreteria su cinque, non a caso, provenivano dal governo collaborazionista di Vichy.

Punto di raccolta di tutte le anime più estreme della destra francese, dai tradizionalisti agli integralisti cattolici, dai nostalgici agli antisemiti, il Fn si è sempre caratterizzato per il suo forte nazionalismo. Sfruttando il malcontento indotto dalle profonde trasformazioni della società transalpina, ha costruito le sue fortune elettorali accusando l’immigrazione di tutti i mali, dall’aumento della disoccupazione e della precarietà lavorativa alla crescita della criminalità. Sua la parola d’ordine “Prima i francesi” per l’accesso al lavoro e ai servizi. Da qui anche la difesa dell’identità e dell’indipendenza in campo internazionale, con il rifiuto dell’Unione europea.

Il suo massimo risultato fu raggiunto nelle presidenziali del 2002, con il 17,79% dei voti. Nell’occasione, il suo presidente Jean-Marie Le Pen, scavalcando il candidato dei socialisti, arrivò al ballottaggio con Chirac.

I toni, con il recente passaggio della leadership del Fronte da Jean-Marie Le Pen alla figlia Marine, si sono fatti più moderati, continuando comunque a esprimere posizioni assai nette riguardo l’uscita della Francia dalla Nato e dall’euro. La strategia sembra ora essere rivolta, anche in vista delle presidenziali di aprile, alla conquista di maggiori quote di consenso presso i giovani (dove già nel 2002 il Fn era il primo partito), gli impiegati e gli operai delle periferie. L’iniziativa del Fn si concentra soprattutto nelle zone urbane e nei grandi agglomerati, un tempo terreno delle sinistre, presso le classi medie e il proletariato, attaccando i politicanti, la mondializzazione e gli immigrati, accaparratori di lavoro e responsabili dell’insicurezza e del degrado.

Differente in Italia il caso della Lega, il più vecchio partito della cosiddetta seconda Repubblica (oltre venticinque anni di vita a partire dalle origini, quando si chiamava Lega lombarda), da collocare, invece, nel solco di coloro che si sono costituti ex novo, non derivando da precedenti esperienze.

Due i passaggi cruciali nel suo percorso evolutivo. Il primo, alla fine degli anni Ottanta, con la decisione di puntare più che sulle iniziali ipotesi di federalismo etnocentrico sul federalismo socioeconomico, relegando anche i dialetti in secondo piano come possibili elementi di divisione politica e non di forza. Da questa stessa impostazione la nascita, nel 1991, della Lega nord come federazione di più soggetti (dalla Lega lombarda alla Liga veneta, da Piemont autonomista all’Union ligure e ad altri movimenti). Su queste basi anche lo sviluppo successivo, pur con diverse oscillazioni, tra improbabili parlamenti del nord e spinte secessioniste (come nel 1996), sempre comunque nell’orizzonte di un progetto di tipo indipendentista.

Il secondo passaggio si consumò nel marzo 2002, ad Assago, al quarto congresso, quando la Lega virò decisamente nella direzione di una nuova identità, schierandosi a difesa della «razza padana» e, in nome dell’«opposizione alla società multirazziale», contro «l’invasione extracomunitaria», individuata come causa della «corruzione dei costumi e delle tradizioni», nonché veicolo di «criminalità» e «malattie».

Nel suo intervento conclusivo Umberto Bossi parlò apertamente dell’immigrazione come di una «invasione programmata per scardinare la società» paragonandola a «un’orda» in grado di «sommergere l’occidente decadente». Si assunsero nuovi riferimenti, pescando nelle teorie di Alain de Benoist sul “differenzialismo etnico”, e si abbandonarono, unitamente a un certo rozzo anticlericalismo, alcune originarie ritualità neopagane.

La Lega in questa fase assunse tutti i tratti (analisi, contenuti, linguaggi) tipici delle destre radicali, arrivando a condividere con esse anche una certa visione cospirativa della storia, intesa sempre come il risultato di manovre e intrighi oscuri. Si scagliò contro l’Illuminismo, il Risorgimento (addebitato alle logge massoniche) e la Rivoluzione francese con il suo portato di diritti formali di uguaglianza. Tutto ciò senza il corredo di riferimenti al passato regime fascista, anche se con alcune evidenti concessioni, in particolare sul piano delle simbologie.

Negli anni successivi, tra il giugno 2002 e il dicembre 2003, la Lega sviluppò rapporti intensi con le realtà dell’estrema destra, in particolare con Forza nuova. Numerose le iniziative, con convegni e comizi in comune. Il 2 aprile 2004 l’Osservatorio europeo dei fenomeni razzisti e xenofobi (Eumc), un organismo costituitosi nel 1997 nell’ambito del Parlamento europeo, non a caso la incluse nello stesso gruppo ideologico delle forze di estrema destra.

Ciò che va certamente colto nella Lega è il senso di marcia di destra, xenofobo e razzista, incentrato sul falso mito della Padania. Un mito totalmente inventato, basato su nessuna vera nazionalità, che si allarga o si restringe a seconda dei successi elettorali della stessa Lega. Un mito in cui Partito e Nazione tendono a coincidere.

In questo modo si sono artatamente posti i confini di una comunità che si vorrebbe mossa da comuni interessi, a prescindere da ogni divisione sociale e di classe, in lotta contro l’oppressione centralista. Nello stesso ambito l’esaltazione delle presunte virtù della sua popolazione autoctona, in particolare la laboriosità e l’onestà, spesso incarnata dai piccoli produttori.

Da questa costruzione mitica sono poi discesi atti concreti, in una spirale tesa a salvaguardare i “padani” da ogni tipo di contaminazione, razziale e sociale, ovvero: la politica di allontanamento degli immigrati, anche comunitari; le impronte da prendere ai bimbi rom; i respingimenti in mare, la sistematica persecuzione dei poveri (le proposte di rimpatrio per chi non ha reddito e dimore adeguate, ma anche misure odiose contro l’accattonaggio). Nelle zone amministrate dalla Lega il tentativo è stato ed è quello di instaurare un vero e proprio regime d’apartheid: dall’obbligo per i non residenti di esibire il certificato penale, alle borse di studio e ai bonus bebè per i soli cittadini italiani, all’esclusione in generale degli stranieri dai contributi sociali. Una sorta di welfare differenzialista.

Di segno diverso l’esperienza in Olanda del Partito per la libertà (Pvv), guidato da Geert Wilders, ex membro del Partito liberale, che ha animato una destra populista e nazionalista, che concentra il suo sforzo massimo contro l’Islam e l’incapacità – a suo dire – dei musulmani di integrarsi, ma con accenti progressisti sul piano sociale. Geert Wilders rivendica apertamente l’eredità di Pim Fortuyn, balzato nel 2001 alle cronache come leader politico xenofobo e islamofobico, omosessuale dichiarato, assassinato nel maggio 2002 alla vigilia delle elezioni politiche, che nel proprio programma si pronunciava a favore dell’eutanasia, dei matrimoni omosessuali e per la liberalizzazione delle droghe. Salito agli onori delle cronache per aver realizzato nel 2008 un film anti-Corano, Wilders è anche finito sotto processo per incitamento all’odio razziale. Una realtà per molti versi non assimilabile a molti altri movimenti dell’estrema destra europea.

NAZIONALISTI, ETNOREGIONALISTI E ISLAMOFOBICI

Se il nazionalismo rappresenta un tratto distintivo della gran parte delle formazioni di estrema destra, da Ovest a Est, si pensi alle compagini bulgare, ungheresi, rumene, russe o a quelle della ex Jugoslavia, tutte tese alla realizzazione di un “grande Stato” senza la presenza al suo interno di minoranze etniche (e perché no degli ebrei), diverso il modello leghista che potremmo includere nell’area degli etnoregionalisti. All’interno di questa stessa famiglia, insieme alla Lega, vanno certamente annoverati sia i belgi del Vlaams belang sia gli svizzeri dell’Unione democratica di centro.

Il Vlaams belang fu fondato nel 2004 come diretta continuazione del Vlaams blok (Blocco fiammingo), costituitosi nel 1978, dopo il suo autoscioglimento a causa di una condanna per razzismo e xenofobia emessa dalla Corte di cassazione belga. Suo lo slogan “Belgie barst” (Belgio crepa). Nel 2007 il Vlaams belang ha ottenuto il 21% dei voti nelle Fiandre (pari al 12% su scala nazionale), divenendo il primo partito operaio fiammingo. Nel suo programma, marcatamente regionalista e assai critico verso l’Unione europea, l’obiettivo principale è rappresentato dall’indipendenza delle Fiandre.

L’Unione democratica di centro, fondata in Svizzera nel 1971, sotto la guida di Christoph Blocher, ha invece assunto posizioni sempre più radicali a partire dalla fine degli anni Settanta, collocandosi su un versante apertamente xenofobo, prendendo di mira immigrati e rifugiati.

L’Udc è oggi il primo partito svizzero, con il 25,9% dei voti conquistati nel 2011, nell’elezione del Consiglio nazionale (la Camera bassa del parlamento). Dopo essere riuscito a far approvare, tramite referendum, nel 2006 (con quasi il 70% dei suffragi), due nuove leggi che restringono fortemente il diritto d’asilo e d’immigrazione, e nel 2009 il divieto alla costruzione di nuovi minareti (con il 58% dei consensi), continua a schierarsi contro l’ingresso della Svizzera nell’Onu e l’adesione all’Unione europea.

Affine, invece, per molti versi all’esperienza del Partito per la libertà olandese, va considerata la galassia dei partiti del Nord Europa che non punta ad attaccare i diritti individuali ma la politica di gestione del welfare, ponendo al primo posto la tutela degli autoctoni. In Danimarca, questa famiglia del populismo europeo è senza dubbio rappresentata dal Partito del popolo (12,3% alle politiche del 2011), in Norvegia dal Partito del progresso, nato come movimento di protesta antitasse, in Svezia da Democrazia svedese (le cui radici affondavano però nel neofascismo prima della svolta moderata attuata verso la fine degli anni Novanta) e in Finlandia dal Partito dei veri finlandesi (al 19% nel 2011). Comune a tutte queste formazioni il rifiuto della società multiculturale, una forte islamofobia e un accentuato odio nei confronti degli immigrati, la difesa dell’identità nazionale e l’opposizione all’Ue. Un populismo che potremmo definire più di “prosperità che di crisi.

LA DERIVA UNGHERESE

Per l’Ungheria non è azzardato parlare oggi di pericolosa deriva autoritaria, se non di incipiente processo di fascistizzazione.

Da quando, nell’aprile 2010, il premier nazionalconservatore Viktor Orban e il suo partito il Fidesz sono arrivati al governo del Paese, in una progressiva escalation è stata prima varata una nuova costituzione che ha cancellato ogni riferimento alla repubblica, sostituita da espliciti richiami religiosi, poi approvate leggi liberticide con l’intento di sottomettere la magistratura, la produzione artistica, l’insegnamento universitario e la stampa al controllo del governo (con relativa epurazione dei dipendenti della radio e della televisione di Stato e chiusura delle emittenti di opposizione). Nella stessa carta costituzionale si sono etichettati i partiti comunisti e i loro successori come «organizzazioni criminali». Si è anche stabilito, sempre per legge, che l’embrione è un essere umano sin dall’inizio della gravidanza. Non solo, che i matrimoni possono aver luogo solo tra un uomo e una donna.

È stato anche introdotto «il lavoro utile obbligatorio» (koezmunka) per i disoccupati, in stragrande maggioranza di etnia rom, costretti per non perdere i minimi sussidi di povertà a prestare lavoro manuale, otto ore al giorno, con indosso magliette di riconoscimento, a favore dello Stato. Un progetto che potrebbe arrivare a coinvolgere fino a 300mila persone in tutta l’Ungheria.

Da rilevare, in questo contesto, la forte crescita, anche elettorale (il 16,7% alle ultime politiche) del Movimento per un’Ungheria migliore (Jobbik), proveniente da circoli radicali preesistenti, divenuto partito nel 2003, che ha dato vita a veri e propri gruppi paramilitari (come la Guardia Magiara, Magyar Gàrda), protagonisti di marce di intimidazione nonché di diversi episodi di pogrom contro i rom. Di impronta antisemita, come tutta l’estrema destra ungherese, dal Partito della giustizia e della vita, fondato nel 1993 (conquistò nel 1998 il 5,5% alle elezioni politiche, entrando nella coalizione di governo), al Movimento degli ungaristi, il cui leader, Albert Szabo fu condannato nel 1997 per aver definito l’olocausto «un bluff ebreo», Jobbik, formalmente all’opposizione, dichiara di battersi contro le «congiure massoniche e sioniste», ispirandosi alle Croci frecciate, ossia alle milizie di Ferenc Szalasi, salito al potere nel 1944 sotto l’egida degli occupanti nazisti.

Emblematica della situazione ungherese i funerali, nel settembre scorso, di Sandor Kepiro, ex ufficiale della Csendorség (la Gendarmeria al tempo della dittatura di Horthy), accusato dal Centro Simon Wiesenthal della strage di Novi Sad, nell’allora Jugoslavia occupata dall’Asse, dell’uccisione di almeno 1200 tra ebrei e sospetti partigiani. A dargli l’ultimo saluto 500 persone. Tra loro veterani della Gendarmeria, giovani con l’uniforme nera della Magyar Gàrda, ma anche alcuni deputati. Il tutto con grandi onori, in forma pubblica.

L’EX BLOCCO SOVIETICO

All’Est la svolta si ebbe negli anni Novanta, a seguito della caduta del Muro di Berlino.

Ciò che va sottolineato in quest’area geografica è il fatto che le destre radicali e populiste traggano alcuni dei loro caratteri peculiari dal passato pre-sovietico. Nel ventre dei recenti nazionalismi si sono sviluppate reazioni covate per decenni contro l’imperialismo russo o nei confronti di precedenti dominazioni (tartare e islamiche)come è avvenuto in Polonia, Slovacchia e Romania.

Diverso il caso russo, dove nel recupero, spesso mitologico, di un antico passato, ci si è dati riferimenti provenienti non solo dalla lontana epoca di Pietro il Grande, ma più recentemente anche da quella staliniana, valutata positivamente in termini di grandezza imperiale e militare3.

Si pensi all’identità del principale partito populista russo, il Partito liberal democtratico (Pld), fondato nel 1990 da Vladimir Zhirinovskij, caratterizzatosi, a onta del nome, per il suo profilo ultranazionalista e razzista. Pur avendo più volte elogiato Adolf Hitler, il Pld auspica, infatti, un ritorno all’Urss, con tanto di riannessione delle repubbliche sovietiche e abolizione del sistema federale. Nelle politiche del 2003 il Partito liberal democratico conquistò l’11,7% dei consensi, con sette milioni di voti e 37 seggi. Nel 2007 confermò la sua presenza alla Duma, raggiungendo i 40 seggi e risultando l’unica formazione di destra con una presenza parlamentare. Nelle recenti elezioni del dicembre 2011, con l’11,68% ha ancora guadagnato consensi, aumentando di 16 unità la propria rappresentanza.

Tra gli alleati di Zhirinovskij anche il Partito nazional bolscevico, fondato nel 1993 dallo scrittore Eduard Limonov, le cui bandiere, in un mix incomprensibile a noi occidentali, riproducono in un cerchio bianco su sfondo rosso una falce e martello. Una realtà ambigua e confusa, tra misticismo, fascismo e nostalgia per l’Unione sovietica. Una tendenza con cui, non a caso, nei primi anni Novanta, cercarono di interfacciarsi alcuni settori del neofascismo europeo. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il Fronte nazional bolscevico e il cosiddetto Partito Eurasia, fautore di un’alleanza strategica tra russi, europei e stati mediorientali (in primo luogo l’Iran), in chiave antiamericana, formatosi nel 2002 per iniziativa di Aleksandr Dugin, il traduttore in Russia delle opere del principale teorico neonazista italiano, Julius Evola.

NEOFASCISTI E NEONAZISTI

Il quadro delle organizzazioni apertamente neonazifasciste in Europa si presenta oggi frammentato in una miriade di sigle, gruppi e associazioni. Un lungo elenco quasi impossibile da dettagliare, con una vita politica all’insegna di un alto tasso di litigiosità, rapidi declini e continue scomposizioni.

Ciò che va rilevato in questo agglomerato è il fatto che il suo potenziale spazio politico ed elettorale sia stato occupato, quasi in ogni paese europeo, dalla maggior capacità di attrazione delle formazioni della destra populista, anche di quelle che, tra mille ambiguità, inizialmente costituitesi come raggruppamenti nostalgici del passato, hanno in seguito attenuato questa loro caratteristica. Si pensi al Front national in Francia, al partito di Haider in Austria o a Democrazia svedese. Fanno eccezione, esibendo un proprio autonomo insediamento elettorale, il British national party in Gran Bretagna, l’Npd (Nationaldemokratische Partei Deutschlands) in Germania (dopo la riunificazione è entrato in alcuni parlamenti regionali) e lo Jobbik ungherese, quest’ultimo diventato una sorta di modello da seguire con il suo mix di radicalismo populista e ideologia nazifascista.

I tentativi, nel corso degli anni, di unire o coordinare quest’area sono tutti rapidamente falliti. Ci provò nel 1998 Le Pen, promotore di Euronat, nelle intenzioni il riferimento per chi voleva battersi per una “Europa delle nazioni”, ma senza successo. Già l’anno successivo il progetto naufragò miseramente, dopo l’iniziale adesione di Forza nuova, del Partito nazionalista slovacco (Slovenská národná strana), del Vlaams blok belga, del Fronte ellenico e della spagnola Democracia nacional. L’esperimento fu ritentato nel 2005, sempre da Le Pen. Nell’occasione vi aderirono la Fiamma tricolore, la Nuova destra olandese, il British national party, ancora Democracia nacional e un piccolo gruppo svedese.

Con l’ingresso nella Ue di Bulgaria e Romania, con i rispettivi parlamentari di Ataka e Romania mare (Partito della grande Romania), nel gennaio 2007 Euronat riuscì anche a dar vita a Strasburgo a un gruppo parlamentare autonomo denominato Identità, Tradizione e Sovranità (Its). Anche in questo caso il tutto si arenò, già nel novembre successivo, a causa delle dichiarazioni offensive di Alessandra Mussolini (eletta con Alternativa sociale) nei confronti del popolo rumeno a seguito dell’omicidio a Roma di una donna italiana da parte di un rom con passaporto rumeno. I cinque deputati di Romania mare abbandonarono l’Its privando il gruppo parlamentare del numero necessario per continuare a esistere.

Non miglior fortuna ha incontrato il Fronte nazionale europeo (European national front), costituitosi nel 2002 su iniziativa di Blas Pinar e della Falange spagnola. A questa coordinamento, oltre alla Falange, aderirono Forza nuova, l’Npd tedesco, la rumena Noua Dreapata e la greca Alleanza patriottica. Da qualche anno ha praticamente cessato di esistere.

Va inoltre segnalato l’ormai pluridecennale fenomeno delle bande naziskin, non legate necessariamente a partiti o a organizzazioni politiche, protagoniste, da Est a Ovest, di una innumerevole catena di aggressioni e omicidi contro immigrati, gay, rom e militanti politici della sinistra, con picchi elevati di violenza in Germania (solo poche settimane fa il tabloid «Bild», citando fonti delle forze di sicurezza, ha parlato di 607 feriti nel 2011), ma soprattutto in Russia, dove in questi anni si sono registrati centinaia di attacchi, spesso mortali, ai danni di immigrati asiatici e caucasici.

Alcune reti, da Blood and honour ad Hammerskin, un network di origine statunitense formatosi verso la metà degli anni Ottanta, presente con diverse sezioni sul territorio europeo, hanno svolto un lavoro spesso sotterraneo di raccordo e moltiplicazione di queste esperienze, favorendo la penetrazione di neonazisti in misura massiccia all’interno delle tifoserie ultras negli stadi di mezza Europa.

IL CASO ITALIANO

Da sottolineare in questo ampio e variegato quadro europeo la specificità del caso italiano, in cui le destre istituzionali, nella loro gran parte, non sono assimilabili alle formazioni conservatrici di stampo europeo, prive come sono di una effettiva cultura democratica. Prova ne sono gli accordi elettorali e politici stretti con formazioni dichiaratamente neofasciste o la riabilitazione, anche con l’intestazione di piazze o vie, di caduti fascisti parificati a quelli partigiani. Scelte attuate prima da Forza Italia e Alleanza nazionale, ora dal Pdl con l’apporto sempre decisivo della Lega nord.

La recente scissione di Futuro e libertà non solo non ha mutato questa realtà, ma l’ha ribadita evidenziando il fallimento sostanziale dei tentativi di evoluzione democratica della destra italiana, a partire dalla trasformazione dell’Msi in Alleanza nazionale.

Tanto più grave se si considerano le direttrici di sviluppo di ampi settori dell’estrema destra, intenzionate, da un lato, a rinverdire le gesta del primo movimento fascista (si veda Casa Pound), dall’altro, a evolversi verso il neonazismo. La tendenza, in questo secondo caso, è all’assunzione in forme sempre più esplicite di riferimenti storici, mitologie e simbologie tratte dalla storia del Terzo Reich. Non un fatto astratto, ma una nuova identità destinata inevitabilmente a produrre conseguenze, riversandosi in una società a composizione sempre più multietnica e socialmente complessa.

Ci riferiamo alla rivalutazione operata da Forza nuova di alcune formazioni collaborazioniste dei nazisti negli anni Quaranta: parliamo della Guardia di ferro rumena e delle Croci frecciate ungheresi. Tramite il sito web di Forza nuova è anche possibile acquistare gadget e magliette con l’effige di Cornelius Codreanu, il fondatore della Guardia di ferro, rintracciare le spille della divisione delle Waffen-SS belghe o visionare le bandiere dell’organizzazione con il segno runico del «gancio» o «dente del lupo», utilizzato nel secondo conflitto mondiale dalla Das Reich e dalla Nederland, due tra le principali divisioni di combattenti SS.

Ci riferiamo anche all’esaltazione di criminali di guerra come Leon Degrelle, ex generale delle Waffen-SS, ma soprattutto al rilancio di alcune teorie circa la cospirazione dei circoli finanziari e massonici all’origine dell’attuale crisi economica. Tornano a comparire in Italia sui blog del radicalismo di destra termini come «plutocrazia», accompagnati dalla pubblicazione delle vignette nazionalsocialiste degli anni Trenta, con i banchieri e i mercanti con il naso adunco in procinto di spartirsi il mondo.

LUPI SOLITARI

La strage dello scorso 22 luglio a Oslo e sull’isola di Utoya, in Norvegia, 77 vittime, perpetrata da Anders Behring Breivik, ha profondamente scosso l’opinione pubblica democratica in ogni parte d’Europa. Il giornalista e scrittore Stieg Larsson, scomparso nel 2004, autore di Uomini che odiano le donne e fondatore della rivista «Expo», osservatore attento del fenomeno neonazista in Scandinavia, già nel luglio 1999, in un’intervista al quotidiano francese «Liberation», sottolineava come l’evolversi dell’estrema destra nel Nord Europa si stesse allineando al modello statunitense, con l’azione di individui isolati e di piccoli gruppi non centralizzati, avendo come obiettivo principale la società multiculturale e la democrazia con i suoi rappresentanti.

Tornano alla mente i trascorsi sanguinosi degli ultimi due decenni negli Usa: dall’autobomba di Oklahoma City del 1996 (168 morti e 680 feriti) all’attentato ai giochi olimpici di Atlanta (sempre nel 1996), all’assassinio nel 2009 del ginecologo abortista George Tiller (a Wichita nel Kansas). Ma anche l’incendio nel 2010 della moschea di Murfreesboro (Tennessee).

In Italia, a Firenze, il 13 dicembre scorso, un militante di Casa Pound, Giancarlo Casseri, sparando “nel mucchio” ha assassinato due ambulanti senegalesi, ferendone gravemente un terzo. Come per Breivk si è sbrigativamente derubricato l’avvenimento come il frutto della pura follia. Ma queste due figure non sono cresciute isolate, lontane dal radicalismo di destra. Hanno solo portato alle estreme conseguenze la cultura xenofoba e fascista a cui avevano aderito, ritenendo fosse giunto il momento dello scontro. Due “lupi solitari”.

Anche la scoperta in Germania, mesi fa, di una cellula terroristica denominata «Clandestinità nazionalsocialista», in rapporti con l’Npd, responsabile tra il 2000 e il 2007 di ben dieci delitti, di cui nove a sfondo razziale, in maggior parte piccoli commercianti di origine turca, ci dice di queste tendenze. Una vicenda inquietante, stante le notizie emerse dalle indagini circa le protezioni godute dalla cellula da parte di alcuni ambienti delle forze di sicurezza.

UN PERICOLO PER LA DEMOCRAZIA

In uno studio della fondazione Friedrich Ebert sul razzismo e l’intolleranza in Europa, pubblicato nel marzo scorso, alla domanda posta sull’influenza degli ebrei nei rispettivi paesi, emergeva l’assenso del 19,7% dei tedeschi, del 21,2% degli italiani, del 27,7% dei francesi, del 49,9% dei polacchi e del 69,2% degli ungheresi.

Dati su cui riflettere.

Nel passaggio epocale verso società sempre più multiculturali, dentro agli sviluppi dell’attuale crisi capitalistica, va colto sia l’inquietante riemergere dei miti complottisti e delle antiche ossessioni sulla purezza della razza e del sangue che pensavamo esserci lasciati alle spalle, sia il pericolo per la convivenza civile e democratica rappresentato dalle attuali destre populiste e radicali, da Est a Ovest. Nel loro insieme, per quanto multiformi e differenti, veicolo di oscurantismo, violenza e razzismo.

Note

 

  1. Milza, Pierre, Europa estrema. Il radicalismo di destra dal 1945 ad oggi, Roma, Carocci Editore, 2003.

  1. Vidal, Dominique, Le estreme destre alla riscossa, in «Le Monde diplomatique», gennaio 2011.

  1. Scaliati Giuseppe, La destra radicale in Europa. Tra svolte ideologiche e nuovi sviluppi, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2008.

    (*) Questo è il testo della relazione di Saverio Ferrari al convegno di Punto Rosso, sabato 10 marzo a Milano. Da anni Ferrari è il più attento studioso italiano delle “nuove” destre: le sue ricerche e le sue pubblicazioni sono preziose dunque (un triste “dunque”) vengono quasi sempre ignorate dai media presunti grandi di questa Italia che si vorrebbe insieme post-fascista e post antifascista ma resta più che altro stronza. In blog trovate (Milano, laboratorio neofascista) la mia recensione al suo ultimo libro, «Fascisti a Milano» (152 pagine per 14 euri) uscito, pochi mesi fa, con il sottotitolo «Da Ordine nuovo a Cuore nero» nelle edizioni Bfs, ovvero la Biblioteca Franco Serantini. (db)

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