Etnopsichiatria nel servizio pubblico…

recensione a «Il bianco e il nero» (*)

«I bolognesi ci guardano come animali». Così si sfoga Malik, un pakistano di 26 anni, quando arriva al centro di etno-psichiatria Georges Devereux di Bologna. Qui troverà aiuto perché è evidente che Malik (nome di fantasia) sta male. Siamo in una delle storie attraversate da «Il bianco e il nero»: titolo un po’ banale ma il sotto-titolo («esperienze di etno-psichiatria nel servizio pubblico») aiuta a capire. Ne sono autori Alberto Merini, Luca Malaffo e Federica Salvatori, lo pubblica Clueb e costa 16 euri per 240 pagine.

Abbiamo gli strumenti (e in primo luogo la voglia) per capire la sofferenza di chi viene da culture e storie assai diverse dalla nostra? Questa è la prima domanda, quella giusta, che i tre autori si pongono. Rispondono – con la coscienza dei loro limiti – che ci hanno provato: «in quanto psicoterapeuti crediamo soprattutto alla relazione, alla parola, all’ascolto». Se i risultati danno loro ragione, se ciò riescono a fare i conti con uno star male “alieno” non è questione di “bravura”: in una breve nota fanno capire che il problema è opposto, che spesso si fallisce perché «molti colleghi hanno una sorta di frettolosa indisponibilità nei confronti dei problemi dei migranti». Come del resto era accaduto in passato verso un altro tipo di “alieni”, i contadini egli operai che i servizi e i saperi sanitari pre-68 letteralmente ignoravano (nel doppio significato di questo verbo).

Talvolta il primo problema dell’etno-psichiatria è la lingua: potrebbe essere d’aiuto un traduttore o una traduttrice ma esiste anche un problema di privacy (specie rispetto a comunità di migranti ovviamente ristrette e magari chi traduce ne fa parte). Poi occorre un minimo di competenza sulla specifica cultura di quel paziente. Perché capita spesso di incontrare persone che hanno una ben diversa idea del tempo e della cura. Per costruire il dialogo occorre dunque «avere reciprocamente saggiato la possibilità di fidarsi». Anche perché molti migranti non hanno un luogo dove «essere accolti», spesso neanche vengono «riconosciuti» come esseri umani: sono solo forza-lavoro o, nel tempo della paura indotta, un problema di ordine pubblico.

Per tornare alla frase di Malik, forse non è sempre chiaro a chi leggerà questo bel libro che oltre al dolore del ragazzo pakistano esistono almeno altre due questioni: la sua è, in parte, mania di persecuzione ma lui è… perseguitato davvero perché molti bolognesi guardano gli immigrati come bestie e ovviamente non si rendono conto che il problema (una canzonetta la definirebbe «la leggera follia»?) è loro – nostro insomma, di noi nativi – e non di chi è visto come un animale.

Storie molto diverse ma tutte esemplari. L’argentino Josè messo a confronto con l’italiano Alberto (sarà mica uno dei tre autori?); Malik e il sorprendente senegalese Khamab così dotato di humor e auto-stima da spiazzare i medici che di lui conoscono vicende piene di «eccitamento, delirio, confusione»; ed ecco Rachida «di nobile fierezza», Indra che su crede «abitata dagli spiriti» e Aminata dove addirittura i terapeuti faranno i conti con il vudù. I nomi sono sempre fasulli per tutelare la privacy ma la verità delle vicende è evidente.

Spesso la domanda «chi sono io?» diventa esplosiva – e innesca il disagio psichico – perché molte persone migranti, anche ben integrate, devono faticosamente mediare fra il loro «io» della società d’origine e la persona diversa che (con sofferenza o piacere oppure con un mix di entrambi) sono diventate in una società con regole e tradizioni diverse. Presto ci saranno altre forme di disagio: a esempio per i cosidetti G2 – i figli di immigrati, definiti “seconda generazione – il conflitto sarà fra le richieste culturali-emotive pressanti dei coetanei con i quali crescono e quelle opposte tradizionali-nostalgiche delle famiglie e/o delle cosiddette comunità.

«Il bianco e il nero» è importante per capire il disagio di chi oggi migra qui. Spesso i tre autori ci ricordano che questo dolore somiglia al totale spaesamento dei nostri emigrati. Se a scuola l’ora di storia avesse un senso bisognerebbe leggere «L’orda» di Gianantonio Stella e/o vedere «Pane e cioccolata» di Franco Brusati. In ogni modo, fra una protagonista nigeriana, uno argentino e un’altra dello Sri Lanka, si parla anche di noi, dell’intreccio di culture (razionali e non) che continua a generare confusione. Tanto per citare un solo esempio, ricordato dagli autori: gli operai aretini si fanno dare i farmaci dai medici ma poi li sottopongono a una «veggente», un frullato di superstizione e scienza assai più diffuso di quel che si voglia credere.

Questo libro è a un tempo molto riuscito eppure un’occasione persa. Riuscitissimo perché riesce a far capire questioni anche complesse a un pubblico di profane/i. Ma è anche qua e là noioso, troppo tecnico, poco curato (alcuni materiali vengono da relazioni in convegni e non sono stati minimamente rivisti). Gli autori e/o l’editore avrebbero dovuto osare di più: forse partire dalle storie che sono rivelatrici ma anche belle da leggere mettendo tutto il resto in nota. Un po’ come Oliver Sacks in «L’uomo che scambiò sua moglie con un cappello». Abbiamo bisogno di libri del genere che siano comprensibili a tutte/i, non solo alle poche persone che leggono saggistica. Secondo me Merini, Malaffo e Salvatori avrebbero i materiali per un libro popolare. Consiglio loro di cercare il tempo, il coraggio e l’editore giusto per tentare il gran salto.

 

(*) care e cari

la piccola redazione del blog si riposa un pochino: dal 23 dicembre al 6 gennaio (date forse un po’ banali) non sono previsti i soliti tre “pezzi” al giorno. Ma ovviamente chi di noi vorrà potrà postare qualcosa che appare urgente. Forse lo farò anche io. Ma intanto, per non lasciare troppo bianco in blog, ho recuperato dal mio archivio una quindicina di miei articoli (del 2006-7-8) che non mi sembrano troppo invecchiati e li posto, uno al giorno senza un particolare ordine di data o di argomento: questa recensione per esempio è uscita il 19 luglio 2009 sul quotidiano «Liberazione». In un’altra occasione ho fatto una lunga (e, secondo me, bellissima) chiacchierata con Alberto Merini: quando la ritrovo … metterla in blog è tutt’uno.

Dal 7 gennaio in blog si torna allo schema abituale. Restano gli appuntamenti fissi: il lunedì Mark Adin (ore 12); martedì fantascienza (io e Fabrizio Melodia); il mercoledì appaltato a Miglieruolo; il giovedì le finestre di David; venerdì Rom Vunner, in possibile alternanza con Maia Cosmica; sabato «narrativa e dintorni» con un racconto o una poesia, le vigne(-tte) di Energu e altro; domenica la neuro-poesia di Pabuda ma anche Alexik. Tutti i giorni molto altro, a partire dalla (da noi amatissima) Maria G. Di Rienzo e dalle urgenze.

C’è una novità nella quale vorremmo coinvolgere… chi se la sente. L’idea è di partire dall’11 gennaio con una «scor-data» al giorno; speriamo di farcela. Se siete da poco nel blog e non sapete cosa sono le «scor-date» … fate prima a leggerne qualcuna che io a spiegarlo. Oppure prendete un libro meraviglioso come pochi: «I figli dei giorni» di Eduardo Galeano, tradotto da Sperling & Kuperf pochi mesi fa (e recensito in blog). Ovviamente una «scor-data» al giorno (e ben fatta) è davvero un impegno gravoso. Perciò cercheremo di dividerci i post fra la redazione e un po’ di esterne/esterni. Se qualcuna/o si candida ad aiutarci e/o ha proposte GRAZIE in anticipo e si faccia sentire (su pkdick@fastmail.it) così ne parliamo.

Mi fermo qui.

Abrazos y rebeldia per un 2013 di intelligenza, dignità e sovversione. (db)

 

 

Redazione
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