Euskara, la lingua degli “Indiani d’Europa”

di Gianni Sartori

Osservo che spesso si attribuisce all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese del 1789 la quasi totale responsabilità della repressione linguistica e culturale subita dalle “nazioni senza Stato”. Anche nel caso dei baschi. Quasi che l’ancienne regime invece le tutelasse e salvaguardasse la loro integrità. In realtà la faccenda mi sembra un tantino più complessa.

A mio modesto avviso, quello che traspare è una sostanziale continuità. Quale che sia il “blocco dominante al potere”, lo Stato mantiene il controllo esercitato nei confronti dei “sottoposti” (sia sulle classi subalterne che sui popoli minorizzati) con ogni mezzo ritenuto necessario.

Come sentenziava Luigi XIV sul letto di morte: “Lo Stato rimane”. Non solo dopo la morte di un monarca assoluto. Anche dopo una rivoluzione. Soprattutto se va troppo per le lunghe e degenera in guerra. Senza dare risposte e soluzioni adeguate alle aspirazioni di giustizia e libertà da cui, presumibilmente, era stata innescata.

Per restare nellEsagono – cioè in Francia – pensiamo alla dura repressione della ribellione dei Bonnets rouges in Bretagna (scoppiata per le nuove tasse, ma che en passant aveva fornito l’occasione per l’incendio di vari castelli e l’uccisione dei proprietari) per mano di Luigi XIV. Pensiamo allo sterminio di donne basche accusate di stregoneria in Lapurdi (regione considerata “sediziosa”) alla fine del XVI secolo: oltre tremila “streghe”, circa il 12% della popolazione di allora. L’inviato del re, il visconte di Lancres (tutto fuorché un illuminista o un “giacobino” ante litteram) individuò nella “stregoneria” una probabile fonte di disordini. Agì quindi di conseguenza spedendo le povere donne (al massimo erboriste e depositarie di saperi tradizionali, comunque “soggetti antagonisti”) sul rogo.

Successivamente, nel XVII secolo, scoppiò una rivolta in Zuberoa. Era la risposta dei Baschi a Luigi XIV che aveva arbitrariamente concesso la proprietà della provincia al Conte di Treville. La ribellione era guidata da un certo Matalas, poi fatto decapitare. Appare evidente che anche l’aristocrazia si dava da fare.

Quanto alla specifica, mirata repressione linguistica operata dallo Stato francese in Iparralde, non ebbe inizio di punto in bianco con il 1789. C’erano molti precedenti.

Nel 1539 Francesco I firmò un’ordinanza che imponeva ai tribunali l’uso esclusivo del francese. Il primo passo in un’epoca in cui Iparralde godeva ancora di una certa relativa autonomia e conservava in parte le sue istituzioni tradizionali.

Circa un secolo dopo la nascita dell’Accademia della Lingua rappresentò un ulteriore passaggio nel fare della lingua francese l’elemento unificante del territorio.

Poi, con la rivoluzione del 1789, il colpo di grazia.

Non fu di lunga durata l’entusiasmo suscitato in Ipar E. H. (ma pare anche in Hego E.H., soprattutto nelle zone costiere) nelle classi emergenti basche che videro nella Rivoluzione una possibilità di cambiamento e di progresso economico.

L’imposizione del francese a tutte le nazionalità presenti nell’Esagono determinò una sorta di messa al bando dell’euskara (oltre che del bretone, del corso ecc).

L’obiettivo era salvaguardare unità e coesione dello Stato francese. Ma questo avveniva a spese dei popoli minorizzati, delle Nazioni senza Stato.

Andiamo con ordine.

Quando, dopo le prime sollevazioni a Parigi, il re Luigi XVI convocò i tre Stati Generali, i baschi di Iparralde protestarono perché, come in Lapurdi, clero, nobili e borghesia non si erano mai riuniti.

Dopo che Lapurdi, Zuberoa e Nafarroa Beherea (Bassa Navarra) vennero riconosciute come circoscrizioni autonome, ogni herrialde (regione) inviò i suoi rappresentanti convinti che le nuove istituzioni rivoluzionarie avrebbero ripristinato le libertà storiche basche.

Ma il 4 agosto 1789 i deputati eletti nell’Assemblea Nazionale, eliminando i privilegi della nobiltà e del clero, abolirono anche i fueros di Iparralde in quanto “privilegi della monarchia” (i fueros venivano considerati accordi stretti direttamente con il sovrano).

Il 12 gennaio 1790 la Francia veniva divisa in dipartimenti e Iparralde formalmente scompariva in quanto integrata nel dipartimento dei Bassi Pirenei, insieme al Bearn (nonostante l’opposizione congiunta dei deputati baschi e bearnesi). Invano un deputato di Lapurdi aveva tentato di ottenere un nuovo ordinamento amministrativo presentando il progetto di un dipartimento basco.

Vennero cambiati i nomi di molti paesi: Arbona in Constante; Kambo in La Montagna; Itsasu in Union; Donibane Lohizune in Chavin-Dragon; Sempere in Beaugard; Urt in Liberté; Ustaritze in Marat; Sara in la Colomba; Mirafranga in Tricolore; Boigorri in Termopoli; Garazi in France; Donapaleu in Monte Bidouze; Baiona in Porto della Montagna…

I rappresentanti baschi finirono per abbandonare l’Assemblea Nazionale.

Altre norme e consuetudini vennero abolite negli anni successivi. L’abolizione del mayoragzo determinò la frammentazione delle fattorie e quindi la vendita delle terre che vennero acquistate dalla borghesia locale. Poi toccò alle terre comunali.

Le massicce diserzioni dall’esercito di giovani baschi (ora sottoposti alla leva obbligatoria) vennero punite dalla Francia con la deportazione nelle Lande di circa 4mila abitanti di Sara, Itsasu, Ezpeleta, Ainhoa, Kambo…Si trattava soprattutto di persone anziane, donne e bambini. Secondo lo storico basco Inaki Egana “la metà non sopravvisse al penoso viaggio”.

Insieme ad alcuni suoi complici, uno dei maggiori responsabili della deportazione, Jean Berouet, venne ucciso da un gruppo di giovani baschi a Ustaritze nel 1797.

Con il senno di poi, un’occasione irreparabilmente persa per entrambi: per i Baschi innanzitutto, ma forse anche per la Francia rivoluzionaria che non seppe (o non volle) coniugare i Diritti dell’Uomo e del Cittadino con i Diritti dei Popoli. Diciamo che all’epoca mancava un antesignano di Emilio Lussu o di Lelio Basso.

Se poi guardiamo a Hego Euskal Herria (Paese basco provvisoriamente sotto amministrazione spagnola) le cose andarono anche peggio, sempre per opera della “monarchia tradizionale” (organica e cattolica, la stessa vagheggiata da Francisco Franco).

Dai massacri di eretici (veri o presunti, in realtà più che altro dissidenti) dell’Inquisizione dopo l’invasione della Navarra da parte di quel che rimaneva dei “re cattolici” (il solo Ferdinando, a quel punto Isabella era già defunta) alle stragi operate nel dopoguerra (quella civile, dopo il 1939) dal cattolicissimo Franco…

Fino, si parva licet, alla bassa manovalanza neofascista italica operante nei vari squadroni della morte antibaschi (ATE, BVE, GAL) in batteria con elementi dei Guerrilleros de Cristo Rey (cattolici ultratradizionalisti, legati ai servizi segreti spagnoli).

 

UNO SGUARDO SUL MONDO

Con la fine dell’impero coloniale francese (ma non della “politica d’Oltremare”, vedi il rilancio del neocolonialismo, gli interventi militari ecc) si è in parte assistito alla rinascita di lingue che in passato venivano schiacciate dall’omologazione alla lingua e alla cultura esportata dalla metropoli.

Sia in Asia che in Africa, le lingue tradizionali in precedenza erano considerate quantomeno un modo poco colto di esprimersi (anche da una parte della popolazione locale) mentre contemporaneamente si celebrava la grandeur francese.

Indirettamente l’esempio del cosiddetto “terzo mondo” con le sue lotte di liberazione (Algeria, Vietnam, colonie portoghesi…) fornì, se non un modello, sicuramente una indicazione per le lotte di liberazione in Europa, dai Paesi baschi alla Corsica.

ETA si richiamava esplicitamente all’esempio del FLN (Algeria) e Yves Stella, uno dei fondatori del FLNC in Corsica, parlava della sua lunga esperienza in Africa da cui trasse la convinzione che era possibile combattere per salvaguardare la propria cultura e lingua (identità o appartenenza che dir si voglia).

In ogni caso, alla fine del XX secolo la situazione in Iparralde (Euskadi Nord) per quanto grave, non era altrettanto drammatica di quella che si registrava in Hegoalde (Euskadi Sud). Anche a vent’anni dalla sua fine, la dittatura franchista durata un quarantennio aveva lasciato segni indelebili.

Questa la situazione su quanti utilizzavano l’euskara in Hego Euskal Herria alla fine del secolo scorso: Bizkaia 17%; Alava 7%; Gipuzkoa 44% (un’ipotesi: la vicinanza alla frontiera di Gipuzkoa consentì la fuga in Iparralde e in Francia a un numero maggiore di cittadini baschi nel 1939; col tempo molti rientrarono e presumibilmente i loro figli erano cresciuti parlando anche euskara); Navarra11%.

Nello stesso periodo in Ipar Euskal Herria (paesi baschi “francesi”, per convenzione) la situazione era questa: Lapurdi 24%; Bassa Navarra 72%: Zuberoa 70%.

Appariva evidente che complessivamente il basco si era meglio conservato al Nord (se pur segnato dalle rappresaglie giacobine) rispetto al Sud (che aveva invece “goduto” della Tradizione clerico-fascista).

Naturalmente, se in Iparralde non si sono registrati arretramenti, gran parte del merito va all’impegno sociale, all’insegnamento, all’attività di associazioni e volontari.

A conti fatti, in Hegoalde (“Paesi baschi “spagnoli”, tanto per intenderci) alla fine del secolo scorso il 67% della popolazione parlava solamente il castigliano, mentre il basco come lingua di comunicazione era utilizzata da nemmeno il 10%. Drammatico!

E questo nonostante l’esistenza di una radio e di una televisione basche (ETB, anche se i programmi erano soprattutto “per giovani”: giochi, sport, cartoni animati…) e della possibilità di corsi in euskara all’Università.

Tra le cause, ovviamente la dura repressione fascista (al limite del genocidio culturale, e non solo).

Va anche considerato il “peso linguistico” (espressione che prendo in prestito) delle varie istituzioni (esercito compreso) e dell’amministrazione.

Altro fattore,il tentativo franchista (riuscito solo in parte: molti figli di immigrati si integrarono nella lotta dei baschi per la libertà, vedi il Txiki) di trasformare i caratteri etnico-culturali della nazione basca attraverso una immigrazione massiccia nelle aree industriali basche.

Per quanto riguarda i giornali, se l’euskara era ed è presente sulla stampa lo si deve alle iniziative sociali degli abertzale, non certo a quelle della Comunità autonoma.

A grandi linee possiamo calcolare che attualmente esistono circa un milione (su tre milioni di abitanti) di basco-parlanti.

Oltre che dalla prevalente presenza delle lingue francese e spagnola (scontata), a suo tempo qualche ulteriore difficoltà sorse con l’introduzione dell’euskera batua (unificato).

Fermo restando che vanno sempre tenute in considerazione le difficoltà inerenti alla forzata “tripartizione” del paese basco, possiamo affermare che dalla fine del secolo scorso in Hego Euskal Herria si va evidenziando una certa “normalizzazione” linguistica.

Quasi una istituzionalizzazione (paragonabile a quella dei Paisos Catalans).

NON è esistita comunque una politica linguistica comune in quanto non esiste uno stato basco (e tantomeno uno stato basco unitario).

Sostanzialmente si può parlare di TRE politiche linguistiche diverse a seconda delle diverse realtà sia giuridiche che socio-linguistiche in cui versa E.H.

Nelle tre Vascongadas l’euskara ha conquistato terreno da un paio di decenni.

E’ adottato dai mezzi di comunicazione, nell’amministrazione, nell’insegnamento e dalla fine degli anni novanta anche in ambito lavorativo, in particolare nei servizi.

Fino a qualche anno fa la situazione peggiore era quella della Navarra, linguisticamente divisa in tre zone principali: il nord in cui si parla il basco, Pamplona e dintorni da considerare “zona mista” e il sud dove è assai carente (anche a livello istituzionale).

E lo sbandierato bilinguismo? Non è sempre una garanzia, anzi. Come spesso succede (vedi in Irlanda tra inglese e gaelico) la lingua più forte finisce con divorare l’altra.

In base all’articolo 3 della Costituzione spagnola, tutti i cittadini (baschi compresi) avrebbero il dovere di conoscere il castigliano. Invece il basco rimane un “diritto”.

Formalmente nelle Vascongadas i ragazzi delle scuole medie dovrebbero conoscere il basco, ma tale norma non viene applicata adeguatamente.

Da quanto mi era stato riferito, negli ultimi decenni sono rimasti in vigore tre modelli di insegnamento.

Nel primo con tutte le materie in castigliano, il basco è seconda lingua.

In un altro l’insegnamento è bilingue.

Nell’ultimo troviamo tutte le materie in euskara e il castigliano come seconda lingua. E questo, sostengono gli indipendentisti abertzale, sembra l’unico che garantisce veramente l’apprendimento della lingua.

In Navarra esiste (per decine di migliaia, oltre centomila alunni) la scolarizzazione del primo tipo, ma a quanto sembra i bambini non imparano l’euskara.

Dalla prima metà degli anni novanta (1993) si sono applicati due tipi di insegnamento:

1) quello della scuola pubblica che dipendeva dal governo regionale basco

2) e quello della scuola privata (per esempio le scuole gestite dal clero o i collegi francesi, anche tedeschi, riservati in genere ai ragazzi di famiglie ricche).

Questo all’epoca aveva comportato la chiusura di molte scuole basche (le ikastolas) che dovevano scegliere tra scuola pubblica e scuola privata. Ne era derivata una lacerazione, una divisione.

E’ probabile che le ikastolas, in quanto spina nel fianco del governo basco (in senso buono: di stimolo, di pressione) siano state elegantemente e volutamente mandate in crisi (sempre secondo gli abertzale).

O forse il governo basco considerava la normalizzazione linguistica ormai conquistata.

Parlando di ikastolas, ricordo che contemporaneamente (in sintonia) all’operazione contro il giornale in lingua basca Egunkaria (*) nel 2003 – con l’arresto di una decina di redattori, alcuni sottoposti a tortura, chiusura del giornale e del suo sito internet per presunta relazione con ETA – vennero perquisiti anche gli uffici della Federazione delle Ikastolas. Una grande quantità di materiale pedagogico, contabile e culturale venne sequestrato e inviato a Madrid.

Tornando al 1993, questi in sintesi furono i modelli scolastici imposti a E. H. dallo Stato spagnolo. E’ da allora che l’euskara diventa, da lingua della Resistenza, uno strumento di mobilità sociale per tutti quei settori (funzionari, impiegati pubblici, telecronisti, presentatori televisivi…), soggetti che non si erano mai particolarmente distinti nella lotta per l’autodeterminazione (**).

NOTE

(*) Egunkaria era l’unico quotidiano pubblicato integralmente in euskara per sei giorni a settimana) e distribuito in tutte e sette le province basche: sia in Hego E.H. che in Ipar E.H. dunque.

(**) Analogia evidente con il gaelico: a Dublino lo imparavano i funzionari statali per fare carriera, mentre a Belfast i militanti e i prigionieri repubblicani come rivendicazione.

 

NELL’IMMAGINE – ripresa da Wikipedia – l’adesivo, su un lampione di Bilbao, dice: “Siete nei Paesi Baschi, non in Spagna”.

QUI IN “BOTTEGA” TROVATE ALTRI POST DI GIANNI SARTORI SULLA SITUAZIONE POLITICA DEL PAESE BASCO.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *