Fabio Lastrucci: meno 361

Fu un fatto tranquillo la Fine. Arrivato il momento, la catastrofe se ne venne giù calma e serena, come il sonno di un neonato dopo la sua poppata. Fu un formidabile fiocco rosa nel cielo, un’apocalisse femmina.

Io lo so, c’ero.

Non si ebbero tragedie, nemmeno gli squilli di tromba che i sacri testi avevano preannunciato. I profeti ci indovinarono, ma solo in parte: tutta la roba spettacolare, i grandi boati, era tutto finito al calare del sipario.

Ciò che restava degli ultimi minuti del mondo non era stato altro che una confusa sequenza di voci e di volti.

Lo ricordo benissimo, come ho già detto, c’ero.

Ed ecco il viso di Pippo, rosso ed eccitato, sul punto di buttarsi giù dal sesto piano. O Magda che non tradiva emozioni, la sua bella testa rasata, gli occhi lucidissimi, fissi. Troppo piena di gin per parlare.

Intanto il palazzo ad ogni colpo tremava quasi dondolandosi. E Rocco rideva, Mari rideva, pure Matteo rideva…

Non faceva molto freddo. Era notte, il San Silvestro del 2011.

Una folaga bionda, Lucio, parlava e litigava coi suoi stessi vestiti come se fossero una camicia di forza. Poco lontano, Raffaele aveva già distribuito un sorriso a tutte le donne presenti ed ora passava al marcamento stretto. Io mangiavo un’unghia dopo l’altra. Rosicchiandole a piccoli morsi cercavo di farle durare più a lungo possibile.

Mi trovavo all’ultimo piano di un vecchio edificio del centro, ospite occasionale di una galleria, in un cenone di artisti tra i quali razzolavo sperduto. Dal momento che non avevo sigarette e niente, ma proprio niente da dire a chiunque mi incrociasse, rimanevo lì a indossare la mia faccia vuota nelle ultime ore dell’anno.

Tra la folla guardavo sfilare gli invitati che ridevano o mangiavano. Molti di loro erano estranei completi, il resto, gente che conoscevo da anni, ma più che altro solo di nome.

Li salutavo. Loro ricambiavano.

– Oilà, Malcolm !

– Uè, bello !

– Tieni mica una sigaretta, Malcolm?

– No, ho smesso di fumare.

Fine della conversazione.

Quella sera mi accorgevo che dopo avere smesso, più dell’ottantacinque per cento della mia personalità se n’era andato insieme al fumo. Era scomodo.

Senza avere né argomenti né lo schermo del tabacco, le dita mi ingombravano le mani. Non sapevo come sostenere i dialoghi di circostanza, mi schermivo. Finii presto a tenermi occupato coi liquori. Nel giro di poco tempo, la banalità dei miei discorsi rimaneva la stessa, in compenso da ubriaco non me ne fregava più un accidente.

Cercando bicchieri puliti tra i buffet, piroettavo stando bene attento a non calpestare niente che potesse rivelarsi essere un opera d’arte.

Dal mio ormeggio sul bordo porta stavo ad annusare il profumo delle signore in transito. Il via vai mi sloggiava mandandomi contro i finestroni. Lì il buio dei vicoli ritagliato negli infissi andava stracciandosi sotto le traiettorie dei missiletti cinesi. Guardavo Napoli scaldarsi la voce con il naso premuto contro le fredde vetrate.

– E’ nu’ spettacolo, no? Iamm’ ‘ncoppa! – disse qualcuno imboccando la scala a chiocciola.

Massì. Pur’io.

Sul terrazzo, la notte riempiva il cielo di una cupola nera appena schiarita dalle luci cittadine. Si formavano diversi gruppetti. Un vento sottile faceva rintanare tutti sotto gli scialli e nei baveri delle giacche.

Vista da sopra Santa Teresa, la città pareva essere un uovo all’ostrica, lucido e scintillante. Ce la gustavamo con gli occhi, signori e padroni di tutto quanto la vista riuscisse ad arraffare.

Una scossa maestosa montava da sotto la Sanità. Mani sollevate si alzarono a indicare il nord ruotando sui contorni dei palazzi.

Davide: -Tu non c’eri mai stata qui, a Capodanno?

Tizia: – Guarda che oggi non è Capodanno. E’ San Silvestro…

A Miano si alzò un rombo. Raffiche brevi scoppiettarono un po’ dappertutto. PA-PA-RA-PA’-PA’ (pausa) BOUM! I tric-trac dei ragazzini ballavano nervosi sui balconi.

Noi pure avevamo le nostre munizioni. Qualche furbone si divertì a farne saltare qualcuna sotto i piedi delle signore.

– Geniale, Mario! Io tengo la gonna… toh, si è pure sfilata una calza, mannaggia… Hei, ma che ffai?! Guardate stò pazzo…

Pippo, occhiali scuri, stava volteggiando del tutto stravolto tra i bassi muretti divisori del terrazzo. Rocco lo sfidò allungando un dito: – Pippa, salta un pò questo, se ci riesci…

Lui rispose – Okkei. Alè-oo…

E lo acchiapparono in tre, prima che si schiantasse nel cortile interno sei piani più sotto.

– Gesù, Gesù… quello era il parapetto… – biascicò dopo, le labbra viola. Per consolarsi finì con l’attaccarsi a una bottiglia che lo consolò benissimo.

Anch’io ero abbastanza alticcio. L’alcool mi frantumava prismi multicolori negli occhi mentre fissavo il Centro Direzionale. Ci vedevo i bumpers di un flipper gigantesco.

Un raudo esplose sul solaio. Non ci feci caso. Se ne aggiunse un’altro che annerì un muretto. Seduto sul lato verso la strada restavo assorto a guardare. C’era ancora qualche ultima macchina sul Ponte della Sanità. Sfrecciava tra i palazzi, frettolosa, e il fragore dei grossi mortai pompava il ritmo della mezzanotte che stava avanzando.

Tutte le finestre che riuscissi a vedere lì intorno erano tanti acquari sommersi in una luce giallastra. Le case immiserite dalla prospettiva si riducevano a semplici contenitori, la distanza ne stilizzava qualunque segnale di vita in pochi tratti tutti uguali: macchie di luci colorate sui muri, un salotto “buono”, una parete vuota su cui galleggia un quadro solitario. Magari una marina fatta con cinque-pennellate-cinque.

Dentro gli acquari si agitavano degli esserini senza faccia, senza nome. Ridicoli. Provavo a immaginarmeli immersi nel cotechino con le lenticchie, alle prese con le portate di cernia lessa, insalata di rinforzo e “sciampagna”. Non potevo sentirne gli odori. Nemmeno il fumo delle stelline che i ragazzi facevano ruotare fuori alle finestre.

E sui terrazzi lontani gli ometti ridevano, brindavano. I bambini litigavano, si strappavano cose di mano. Separati dal vuoto sul sottile diaframma dei balconi sembravano così anonimi, no, precari.

Sì, precari, pensavo. Senza saperlo, quella notte stavo osservandoli dal punto di vista del terremoto.

2

Un fagotto inerte va a cadere sull’acciottolato dell’androne. Altri due lo raggiungono accasciandosi con uno sbuffo inghiottito dal silenzio. Li sto buttando da una finestra sul cortile contro la capotte di una Volkswagen parcheggiata qui sotto. E’ un modo comodo per mandare avanti i bagagli. Più tardi, scendendo, andrò a sistemare tutto con calma.

Sul pianerottolo deserto, il mucchio di borse che avevo lasciato trabocca fuori il contenuto dalle cerniere mezze scucite. C’è troppa roba. Se non voglio caricare tutto, è il caso di fare una cernita dell’indispensabile. Questo significa buttare ogni cosa fuori, e lo faccio lanciando vari oggetti per la tromba delle scale. I fardelli snelliscono parecchio. Quando restano da sistemare solo quattro camicie (scozzesi, stupende) ed un binocolo militare, prendo una pausa. La Canadienne blu elettrico la indosso. Dentro uno dei tasconi ci ficco un manuale: “Come vincere la stitichezza senza farmaci” e siedo su un gradino a respirare col naso, rumorosamente.

Gli occhi stanchi guizzano sulle scrostature degli infissi per seguire le evoluzioni delle ringhiere in ferro. Studio il palazzo che abbandonerò, un dignitoso rudere, vecchio, non antico.

Dalle arcate s’intravvede il cortile con le mura semiricoperte dai rampicanti, l’ascensore esterno, i ballatoi che non mancano di aspidistria e gerani. In ogni scorcio, che sia la guardiola del portiere fino ai piani alti, tutto ricorda una scena da teatro Scarpettiano. Oleografia pura, niente di più detestabile per me.

– Dovevi capirlo subito, Malcolm, – mi dico.

Dato che il walkman è a portata di mano, metto giù un appunto sul nastro.

Durante le due settimane passate a Napoli, la maggior parte del tempo l’ho speso tutto in un isterico cambiare casa. Rifacendo i bagagli qualche ora fa, me ne sono reso conto con un’occhiata all’elenco dei vecchi indirizzi, quello che mi tiene il conto dei traslochi fatti. Con questo di stasera arrivo al settimo. Pensavo meno.

Però.

Sto per andarmene da via Tribunali lasciando un grosso appartamento umido e pigro. Può essere mai pigra una casa? Secondo me, sì. Questa qui lo è…

Gratto la barba di ieri e l’altro ieri. E’ circa lamezza. Sto contando i pacchi dei libri da buttare giù, sono sette carichi di dimensioni pressoché uguali. Su una scatola rimasta chiusa da tempo, c’è un etichetta sbiadita che mi incuriosisce, “SFIGA COLLECTION”. Mi chino ad aprirla mentre la sigaretta spenta che ho in bocca da ore sfugge dalle labbra e cade.

Provo una leggera delusione nel trovarvi i libri con argomento catastrofico che avevo messo da parte mesi fa. Rivedendoli noto di ricordarne tutti i titoli uno per uno. Molti li conoscevo già prima della Fine, tipo i Ballard edizione Urania, qualcun’altro come l’Apocalisse di Giovanni l’ho scoperto dopo per un interesse che, data la situazione, definirei professionale.

– Tornate a nanna, amigos… non mi avete chiarito granché le idee.

Sto per richiudere tutto, senza capire più l’ordine con cui avevo impilato tanto bene i vari testi. Ne esce fuori un cumulo disordinato in cui si spiegazzano copertine e angoli. Da un albo di Corben spuntano dei fogli spillati che non ricordavo. La Camel caduta sul tappeto finisce schiacciata da alcuni fumetti. Ne prendo un’altra portandola alla bocca meccanicamente.

Quei fogli contengono un raccontino, proprio un raccontino, il mio contributo al folklore sull’argomento. Devo averlo scritto mesi e mesi fa, quando è successa la cosa. In cima alla prima pagina ci sono almeno tre titoli, tutti cancellati. Spulciando le righe in fondo, manca il finale (ovviamente), manca anche una spiegazione al fatto, la portata della catastrofe e altre cose sensate.

Confrontata alle altre versioni, questa Fine descritta tutta in due o tre foglietti, è veramente una miseria.

Dimenticato dall’evento che ha spazzato via uomini e animali, mi annodo per terra come un fachiro e leggo delle ultime ore del mondo con una vaga sensazione d’imbarazzo.

Le gambe oppresse dalla posizione formicolano.

Facciano pure.

3

Un coro di sirene suonava l’attacco di una suite metropolitana. – Uè stateve accorti! – gridarono in due sovrastati dal fracasso. Mi girai per vedere esplodere un petardo a neanche un metro di distanza. Fece un botto soddisfacente.

– Non sento più nulla! Raffaè, è roba tua?

Qualcuno nitrì una risata in risposta.

Avevo le orecchie sfondate. Si era acceso un antifurto nel cervello e non sapevo come diavolo spegnerlo.

Mari che stava vicino a me, in frazioni di secondo aveva trovato rifugio altrove. Inseguire la contemporaneità allena i riflessi degli artisti, pensai. Mi passarono due raudi che accesi e buttai via con fretta eccessiva. Uno si ammosciò in una pozzanghera, l’altro fece il suo dovere.

Le antenne vibravano. Tre tizi mi fecero le corna. Che ore potevano essere? Lo chiesi. Sette minuti alla mezzanotte.

Di fronte, nel palazzo sul cortile, un ragazzino lottava con un altro più grande. Qualcuno in penombra, ghignò: – Non portano i calzoni corti come me, una volta. Ma ginocchia ce l’hanno. Se le sbucceranno eccome, sissì…

Rocco: – Madonna, è bellissimo questo fuoco, guard … da dove viene?

Matteo: – Da San Gennaro.

Si andava scaldando. Era già abbastanza viva, lo dicevano i funghetti di fumo dappertutto. Una città in calore.

– Malcolm, ti diverte questo spettacolo? – fece Lucio. Alzai la mano destra in aria come il Papa. Yeah. Ero lo statico nel dinamico e mi divertivo con gli occhi.

Stavo nuotando nel fumo che saliva dalla Sanità. Avrebbe dovuto essere grigio, invece le luci della strada lo tingevano di un colore rugginoso. Sbocciava in ventagli sovrapposti a formare dei fiori stile Italsider. Tutte le case ne erano coperte, ormai le inghiottiva lasciando fuoriuscire solo un merletto di contorni debolmente nerastri.

Capodimonte non si vedeva quasi più.

Voci arrochite da pacchetti su pacchetti di Marlboro chiedevano: – Tieni una sigaretta? Io le ho finite…

Si scivolava sulle bottiglie cadute per terra. Mancava pochissimo. Lanciai un grido più mimato che altro – UAAAAAGHHH!

Nessuno colse lo spirito della citazione

– Era l’Urlo di Munch, sapete ?!

Ancora un minuto – MANCA UN MINUTO! PREPARATEVI CHE MANCA UN MINUTO!

La gallerista scintillava attorniata da bicchieri alzati. Saliva ancora gente dalle scale.

– L’accendino, CHI CAZZO LO TIENE UN ACCENDINO?

– Seeeh, seh, seh…

– Mari, oè, vieni qui!

– No, vieni tu!

– Ma fa freddo! Io scendo di sotto, me ne fotte assai che ò Capodanno.

Uno zoccolo di mulo fece tremare il vicolo. Marzio, in posa da generale, un piede sulla balaustra, la mano sul ginocchio, ordinava – Distruggete tutto.

Immaginavo i bambini che tiravano migliaia di maniche a migliaia di padri assonnati, gonfi di souté di vongole e vino. I terrazzi e le finestre si riempivano di facce come tanti televisori.

Pochi secondi. Ero lucido e mi facevano male i piedi.

– E iamm bell’ !!! – La notte si spaccava sotto un cielo che appariva tutto un rattoppo colorato. Ormai il fumo nascondeva le case, i lampioni, le chiese. In aria, ad ogni fischio lacerante, si spargevano su di noi briciole di pani infuocati. Mi portai in fondo al terrazzo, spalle al gruppo.

Mezzanotte: l’anno vecchio moriva sotto le raffiche di un mostruoso plotone. Dietro il grilletto, tutta la città.

Mi tremavano i denti nelle mascelle. Guardavo Materdei in fiamme, la Sanità che soccombeva al peso delle esplosioni. Le arterie dei quartieri pulsanti di tamburi inferociti. Napoli scompariva sotto un velo da sposa, il fragore che prendeva allo stomaco stava per collassare su se stesso, invecchiando in fretta. Al culmine del parossismo si avvertiva che già coincideva la discesa. I suoni si dilatavano allontanandosi tra loro. Il muro compatto di fuoco sfilacciava, raggrumando in ciuffi di scintille.

In quel delicato momento di passaggio un colore rosa accecante si versò nel cielo. Non ci feci caso subito. Poi non avrei visto altro che quello.

Il racconto termina così, a crudo. Senza un seguito, senza una cazzo di morale.

Scuoto la testa. Non va bene.

In tasca, una Bic mi rende poeta. Aggiungo altre due righe dopo un penoso spremere di meningi.

Dietro di me vedevo solo abiti vuoti sul pavimento e un silenzio totale che avvolgeva ogni cosa. Ancora non capivo che stavo debuttando sul palcoscenico del pianeta deserto. L’avrei imparato presto.

Faccio un aeroplanino con i fogli, lo lancio verso una finestra e lo guardo planare e allontanarsi.

Adieu, borbotto tra i denti. Poca retorica, ho un trasloco a cui pensare. Già… un trasloco…

Anche se non so che farmene, il mondo è cosa mia.

UNA BREVE NOTA

Se siete capitate/i qui per caso e volete capire perchè “meno 361” andatevi a leggere “Due o tre che so sulla fine-mondo prossima” e tenete conto che il 2012 è bisestile. Domani si prosegue. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Molto carino, simpatica la doppia dimensione, vari i riferimenti autobiografici, almeno credo…

  • Grazie dell’apprezzamento. La Fine del Mondo è un pò defilata, ma serve per mettere in scena una Fine tutta interiore. A cui segue, ovviamente, un nuovo inizio.

  • Magnifica la descrizione della notte dei fuochi. Mi ha fatto venire una nostalgia di Napoli… Anche la festa in galleria, i personaggi, lasciano il segno. Un bel racconto, che riflette benissimo l’inquietudine-piacere che si prova pensando alla”fine del mondo”. Non ci crede nessuno, ma tant’è… Buon anno.

  • Lietissimo che ti sia piaciuto, Consolata! Dette da una scrittrice come te, queste parole mi danno una bella carica per l’anno nuovo. Aspetto tue novità sul prossimo ALIA Space Opera!

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