Fantascienza e pedagogia: fobie, magie, resistenze e utopie

di Andrea Mameli (*)

«Quando c’era il futuro» è il titolo del saggio (Franco Angeli, 125 pagine, 16 euri) di Daniele Barbieri e Raffaele Mantegazza che esplora confini, punti di contatto, scintille fra pedagogia e fantascienza. –

Ma ha senso parlare di fantascienza nel 2013? Esistono chiavi di lettura valide anche per l’impegno politico-sociale dell’oggi? Ne ho parlato con Daniele Barbieri.  

Perché tu e Mantegazza avete scritto un libro all’incrocio fra pedagogia e fantascienza?

E’ la prima volta che io e Raffaele ci incrociamo su carta, anche se abbiamo passioni e interessi comuni. Lui usa la fantascienza nelle sue lezioni all’università e immagino constati spesso il fenomeno che io osservo lavorando nelle scuole o altrove. C’è un nodo drammatico da affrontare: può essere la violenza sessuale, l’apatia politica, le molte facce del razzismo, la stessa definizione di umanità, le catastrofi ecologiche in corso e il tentativo di uscirne, e così via. A me pare che quando si prende il problema di petto, parlando “politicamente corretto” come ora sembra d’obbligo, e cercando stimoli nella situazione data (cioè la scuola che, salvo rarissime eccezioni, versa in condizioni di totale apatia) quasi mai si riesce a suscitare passione autentica. Al massimo si registra un apprendimento di tipo passivo. Insomma questi drammi così vicini a noi in un contesto scolastico sembrano ancora più lontani di Leopardi o di Boccaccio. Sarebbe complesso spiegare il perché in due parole ma invece la narrazione fantascientifica, il laboratorio che gioca a immaginare futuri, la provocazione di ragionare a partire da qualcosa che è assolutamente estraneo alla nostra attuale esperienza “reale”, possono invece spalancare più facilmente porte che di solito restano chiuse. E’ un paradosso molto fecondo.

Cos’oggi, la fantascienza?

La migliore fantascienza resta un grimaldello per uscire da un presente pigro e politicamente ingabbiato, soprattutto oggi. Credo che per Mantegazza la pedagogia (e dentro di essa la fantascienza) sia uno degli strumenti per contrastare l’oppressione. Esiste in Italia un antico pregiudizio verso il genere fantascientifico e così molte persone scoprono con stupore che anche Primo Levi ha scritto racconti di science fiction. Fuori dall’Italia da molto tempo alla fantascienza viene attribuito un ruolo importante per “riaprire” – ovviamente dentro la fiction – le strade (in sociologia, in politica, oltre che ovviamente nella fisica, nella chimica, nell’astronomia) che non abbiamo tentato di percorrere. In questo senso anche la fantascienza più brutta, intendo quella letterariamente meno riuscita, può essere analizzata per capire all’incrocio di quali paure e di quali desideri ci stiamo muovendo. E’ chiaro che alcuni autori e alcune autrici hanno una formazione scientifica e questo influenza tutto ciò che scrivono ed altrettanto palese che la maggioranza dei libri di fantascienza nasce da persone che non hanno purtroppo la minima infarinatura scientifica. Ma tutti e tutte – chi scrive come chi legge – devono fare i conti con due questioni che non mi stanco di ripetere. La prima: da un secolo circa la scienza e la sua cuginetta tecnologia hanno invaso le vite delle persone prima di una parte del mondo e poi dappertutto. E’ impensabile che questo non influenzi il nostro immaginario. La seconda questione: noi viviamo (o almeno la stragrande maggioranza di noi vive) in questa società scientifico-tecnologica senza avere la minima formazione, senza le conoscenze di base per capirne leggi e regole. Quindi siamo in una sorta di tecno-magia che rende impossibile il controllo, persino la comprensione di come i poteri usano la conoscenza scientifica e le sue applicazioni.

C’è qualcosa di nuovo nella fantascienza contemporanea?

Si vorrebbe morta la science fiction ma è viva (anche se con gli inevitabili acciacchi di chiunque viva in una fase storica così depressiva). Sulle novità ci sarebbe da ragionare assai ma voglio raccontare una cosa che mi ha colpito molto questa estate. Urania ha portato in edicola una trilogia di Robert Saywer. La storia inizia quando nella rete nasce Webmind, un’entità intelligente e incorporea. Nella fantascienza più banale ogni novità e ogni mutazione sono portatrici di sciagure. Il canadese Saywer (che non è uno scienziato ma mostra una solida preparazione) invece esplora soprattutto il versante positivo e ottimista di questo cambiamento imprevisto. Non è un ingenuo, ha ben presente rischi e contraddizioni eppure questa trilogia comunica che la parte migliore dell’umanità potrebbe trovare un alleato non previsto nel ribellarsi all’insensato modo di vivere che ci viene imposto. Se il “meticciato” fra una rete intelligente altamente evoluta e il genere umano ci porta su una strada di liberazione allora ne ricaveremo non solo meno guai e più giustizia ma anche felicità, se si può usare questa parola così difficile e ambigua. C’è chi si però si è arrabbiata/o con Sawyer: il “meno peggio” dicono è l’obbiettivo massimo, le utopie sono pericolose. Dal punto di vista intellettuale e politico considero questa trilogia piena, ricca, importante e resto assai sorpreso che molte persone considerino nocivo aspirare al meglio, persino il sognare. A parte che io non considero il Novecento portatore solamente di catastrofi ma anche di conquiste sociali e scientifiche, per me questa visione così cupa è un freno all’azione, persino una “museruola” alla possibilità di pensare. Di fronte a una crisi mondiale – più o meno inventata, come quella che viviamo – è molto difficile portare le persone a constatare che non esiste soltanto una ricchezza economica enorme da redistribuire secondo giustizia, che non esiste soltanto la possibilità di risolvere la maggior parte delle tragedie mondiali fermando il meccanismo che produce e alimenta le guerre: ma che c’è anche anche una ricchezza sociale diffusa in tutto il mondo, ci sono intelligenze ed esperienze che il capitalismo dilapida, anzi perseguita perché le teme. Se non prendiamo atto di questa enorme potenzialità non troveremo ragioni per opporci seriamente a chi vuole lasciare tutto quanto com’è.

Dove state presentando “Quando c’era il futuro

Un po’ dappertutto. E mi piacerebbe che ci fossero molti luoghi libertari e “liberati” o resistenti come la Val di Susa, No Dal Molin, No Muos. Spero che il giro continui in scuole intelligenti (qualcuna ne resta) magari occupate, nelle poche biblioteche che sopravvivono, nelle aggregazioni di chi non si riconosce nel pensiero unico dominante. C’è poi uno scenario più fantascientifico…. per esempio vorrei presentare il libro con una serie di letture, accompagnato da un robot.

Un robot immaginario?

No, vero, costruito da Matteo Suzzi.

(*) Andrea Mameli è giornalista scientifico freelance e blogger (lo trovate su www.linguaggiomacchina.it). Questa intervista è uscita – al solito: parola più, parola meno – sulla rivista «A», numero 386 del febbraio 2014. Un numero molto bello (124 pagine) che si apre con riflessioni su “forconi”, crisi economica, spazi liberati e si chiude ricordando Masaniello; in mezzo Honduras e musica, psichiatria e hacker, pedagogia libertaria e morti di amianto, Haiti e tecnologie appropriate solo per indicare alcuni temi. E’ meglio abbonarsi (anche per sostenere una voce davvero «libera e dunque liberatrice» come si legge su un cartello a pagina 44) ma «A» è comunque scaricabile gratis e si sta attrezzando – cammina all’indietro ma non interpretatela come metafora politica – per rendere disponibili tutti i 385 numeri precedenti. Aggiungo solo che rispetto all’intervista (di novembre) un incontro con il robot di Matteo Suzzi c’è stato, potete leggerne qui in blog, come alcuni incontri in spazi libertari… con molte convergenze ma anche dissensi profondi e fecondi (per esempio sulla possibilità di riappropriarsi della tecnologia) e magari ne parlerò in un’altra occasione. (db)

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