Fantasmi coloniali e schiavitù di oggi

L’intervento di Antar Mohamed Marincola, Carlo Costa, Lorenzo Teodonio e Wu Ming 2 (*). A seguire le riflessioni di Vanna D’ambrosio (**)

Da Imola a Palermo, dove un’azione di guerriglia odonomastica ha trasformato il nome di “Via Indro Montanelli” in “Via Destà“, fino a Roma, dove qualche giorno fa c’è chi ha richiamano alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. “Lezioni” di storia diffusa coltivano il bisogno di rivoltarsi contro alcuni nomi che abitiamo ogni giorno, per conoscere le nostre città. Che il colonialismo non riposi in pace

Fantasmi coloniali

Nella notte di giovedì 18 giugno, la Rete Restiamo Umani di Roma ha compiuto un’azione di guerriglia odonomastica in alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. In particolare sono stati colpiti la via e il largo «dell’Amba Aradam», insieme alla futura stazione «Amba Aradam/Ipponio» sulla linea C della metropolitana.

Le targhe stradali sono state modificate per diventare «via George Floyd e Bilal Ben Messaud», mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sotterranea sono comparsi grandi manifesti con scritto: «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione».

Il gesto degli attivisti romani intende denunciare la rimozione, il silenzio e la censura sui crimini del colonialismo, poiché questi contribuiscono a rafforzare e legittimare il razzismo di oggi. Amba Aradam è infatti il nome di un’altura dell’Etiopia dove l’esercito italiano, guidato da Pietro Badoglio, sconfisse i soldati di Hailé Selassié, sparando anche 1.367 proietti caricati ad arsine, un gas infiammabile e altamente tossico, in aperta violazione del Protocollo di Ginevra del 1925, contro l’impiego in guerra di armi chimiche.

Nei giorni successivi, l’aviazione italiana bombardò le truppe nemiche in fuga. Nella sua relazione al Ministero delle Colonie, Badoglio scrisse che: «in complesso 196 aerei sono stati impiegati per il lancio di 60 tonnellate di yprite (sic) sui passaggi obbligati e sugli itinerari percorsi dalle colonne».

La strada si chiama così dal 21 aprile 1936, quando venne inaugurata da Mussolini in persona. Il suo nome precedente era «Via della Ferratella», forse per via di una grata, nel punto in cui il canale della Marana passava sotto Porta Metronia. Per non cancellare quell’odonimo, venne ribattezzata «via della Ferratella in Laterano» una strada subito adiacente.

Palermo, 8 marzo 2020: Azione di guerriglia odonomastica dei collettivi Fare Ala e Crvena.

 

Negli ultimi anni, molte azioni di guerriglia odonomastica si sono ripetute nelle città italiane, dimostrando che i simboli del passato parlano al presente anche quando li si vorrebbe anestetizzare e seppellire nell’indifferenza. L’intervento di giovedì scorso ha avuto grande risonanza non perché sia il primo di questo genere, ma in quanto si collega esplicitamente alle proteste per l’assassinio di George Floyd, al movimento Black Lives Matter e al proliferare di attacchi contro statue e targhe odiose in tutto il mondo.

Tanta attenzione ha prodotto, come primo risultato, la proposta di intitolare la nuova stazione della metro Ipponio/Amba Aradam al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, con tanto di petizione on-line alla sindaca Raggi. Quest’idea ci rende ovviamente felici, perché da oltre dieci anni ci sforziamo di far conoscere la storia di Giorgio e di sua sorella Isabella, con libri, spettacoli, ricerche, interventi nelle scuole e progetti a più mani.

Ci sembra anche molto significativo che un luogo sotterraneo porti il nome di Giorgio Marincola, dal momento che la sua resistenza fu ancor più clandestina di quella dei suoi compagni, visto il colore molto riconoscibile della sua pelle, specie quando agiva in città, nelle file del Partito d’Azione. E d’altra parte, la miglior memoria della Resistenza è quella che si esprime dal basso, underground, senza bisogno di grandi monumenti, riflettori e alzabandiera: una memoria tuttora scomoda, conflittuale, che fatica a vedere la luce del sole.

Imola, 15 aprile 2019: La statua di Francesco Azzi colpita dal collettivo “Imola Antifascista”.

 

Ben venga quindi la stazione “Giorgio Marincola” della Metro C, ma ci permettiamo di suggerire che quell’intitolazione sia vincolata a un’altra proposta. Non vorremmo infatti che il nome di Giorgio facesse dimenticare quell’altro nome, Amba Aradam. Non vorremmo che intitolare la stazione a un “bravo nero italiano” finisse per mettere tra parentesi la vera questione, quella da cui nasce la protesta della Rete Restiamo Umani, ovvero la presenza di fantasmi coloniali nelle nostre città: una presenza incontestata, edulcorata e in certi casi addirittura omaggiata. Non vorremmo che uscendo dalla stazione Giorgio Marincola si continuasse a percorrere, come se niente fosse, via dell’Amba Aradam. Sarebbe davvero un controsenso.

Roberto Saviano, appoggiando l’idea della “stazione Giorgio Marincola” ha scritto: «la politica sia coraggiosa, almeno una volta». Ma che coraggio ci vuole per intitolare una fermata della metro a un italiano morto per combattere il nazifascismo? Davvero siamo arrivati a questo punto? Siamo d’accordo con Saviano, c’è bisogno di gesti coraggiosi, non di gesti spacciati per coraggiosi che ci esimano dall’avere coraggio.

Palermo, 20 ottobre 2018: intervento in via Magliocco per il progetto Viva Menilicchi!

 

Sappiamo che cambiare ufficialmente il nome a via dell’Amba Aradam sarebbe molto difficile, anche se l’esempio di Berlino dimostra che quando davvero si vuole, certe difficoltà si superano: nella capitale tedesca, tre strade intitolate a protagonisti del colonialismo in Africa sono state dedicate a combattenti della resistenza anti-coloniale contro i tedeschi.

Ci piacerebbe allora che la stazione “Giorgio Marincola” venisse inaugurata insieme a un intervento “esplicativo” su via dell’Amba Aradam, come si è fatto a Bolzano con il bassorilievo della Casa Littoria e con il Monumento alla Vittoria. Si potrebbero affiggere alle targhe stradali altri cartelli, che illustrino cosa successe in quel luogo e in quale contesto di aggressione; si potrebbe aggiungere una piccola chiosa, sul cartello stesso, sotto il nome della via: «luogo di crimini del colonialismo italiano», o qualunque altro contributo che risvegli i fantasmi, che li renda ben visibili, che non ci lasci tranquilli e pacificati, convinti che l’ambaradan sia solo un ammasso di idee confuse.

(*) pubblicato su Giap e ripreso da Comune-info

Antar Mohamed Marincola, educatore e mediatore culturale, è il nipote di Giorgio Marincola. Insieme a Wu Ming 2 ha scritto il romanzo Timira (Einaudi 2012), dove si racconta la storia di sua madre, Isabella, e del fratello Giorgio.

Carlo Costa, storico, ha collaborato con l’Insmli e con il Museo Storico  della Liberazione di Roma. Con Lorenzo Teodonio ha scritto Razza Partigiana (Iacobelli 2008), la prima ricostruzione approfondita della vita di Giorgio Marincola.

Lorenzo Teodonio, fisico, si occupa di conservazione e restauro di libri. Con Carlo Costa ha scritto Razza Partigiana (vedi sopra).

 

Fra gli interventi recenti in “bottega” vedi: Statue e monumenti: crimini, oblio, senso comune, Indro Montanelli, fascista (tra l’altro), «Abbattere la statua di un colonialista ha un… e Statue e lapidi: celebrare i boia ma anche Guerre, monumenti e criminali e fra quelli più vecchi Statue, lapidi, schifezze fasciste e noi e Città: rivolta contro i nomi infami e i molti post sulla vergogna infinita del “sacrario” di Affile dedicato al criminale e boia Rodolfo Graziani.

La schiavitù non è un concetto puramente tecnico

di Vanna D’Ambrosio

L’esclusione dalle forme di protezione aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù

 

Ho parlato di contatti.
Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, Ia sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite [
1].

Il reclutamento di manodopera a basso costo è stato ampiamente incentivato dopo la seconda guerra mondiale attraverso la forza lavoro immigrata. In base alla teoria dei ‘ push and pull factors’ gli spostamenti migratori seguono la logica dei fattori di attrazione e di spinta. Le pressioni del mercato globale hanno creato i presupposti per la ‘ schiavitù moderna’, congiuntura economica poco favorevole, in cui i fattori di spinta sono determinanti come anche gli immigrati.
Fondamentali nei lavori manuali da esterno, ad esempio, si pensi all’agricoltura, alle imprese di costruzioni, alla cura degli animali e del territorio, e nei lavori domestici o settori come la ristorazione, i servizi alberghieri e i servizi legati alla salute e all’assistenza delle persone. In questa lettura, la schiavitù odierna, dunque, non è una conseguenza del sottosviluppo ma, al contrario, appare nei processi produttivi dei Paesi ricchi perché consente eccezionali profitti ed è una strategia vantaggiosa per l’economia globalizzata.

Lo schiavismo moderno, che nessuna legge internazionale definisce, è un termine ombrello attraverso cui si enfatizzano le commistioni tra la tratta di persone, il lavoro forzato e la schiavitù.

Lo sa bene questa sanatoria che rifiutando la migrazione come un’esperienza che ingloba tutte le dimensioni dell’esistenza umana, confina il migrante al suo esclusivo ruolo di lavoratore-bracciante.

Infatti una delle sue frasi si impone: «non aspiriamo all’uguaglianza, ma alla dominazione. Il paese di razza straniera dovrà ridiventare un paese di servi, di braccianti agricoli, o di operai industriali. Non si tratta di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e legittimarle [ 2]».

Sanatoria che risulta essere ‘ il pessimo prodotto della scelta governativa che invece di affrontare il problema nella sua interezza e dal punto di vista primario dei diritti e delle garanzie, ha deciso di muoversi solo per provare a soddisfare le immediate esigenze del sistema economico e produttivo [ 3]’.

Un permesso di lavoro per 6 mesi, ossia valido il tempo della raccolta che asseconda una rappresentazione dell’io e dei diritti radicalmente gerarchica e definita in base a criteri di riferimento ed orizzonti definiti per cui l’immigrato non ha possibilità di essere classificato, di avere altro spazio all’interno della società di destinazione [ 4]o altro “ modo d’essere all’interno del gruppo“, se non quello di essere un corpo – forza lavoro -. Un’etichetta a cui, tuttavia, si pretende ancora di collegare ‘ l’entità fisica, psicologica e morale’, ‘ uomo’ [ 5].

Insomma, ‘ un inganno per le migliaia di migranti in attesa della possibilità di emergere dalla condizione di annullamento civile e sociale in cui sono costretti [ 6]’.

Una sanatoria che senza mezze misure vuole mantenere il migrante in una condizione di marginalità, senza concedere il pieno godimento dei diritti fondamentali, attraverso un inserimento lavorativo forma di una integrazione subalterna.

Sicuramente il sistema di lavoro temporaneo è una forma di restrizione dell’immigrazione. La sua caratteristica è legare l’immigrato a un singolo datore di lavoro e quando ciò accade, lo sfruttamento risulta più semplice. Ed infatti, già questa sanatoria ha alimentato le speculazioni ed i raggiri ai danni di migranti costretti a pagare dai 6.000 agli 8.000 euro per ‘regolarizzare’ la loro posizione sul territorio italiano.
Ovviamente, laddove i datori di lavoro privati hanno un alto grado di controllo sulla capacità di rilasciare un PDS, il potenziale di sfruttamento è un rischio che si auto verifica.

Un lavoro si definisce para-schiavistico perché è connotato dalla totale assenza di libertà decisionale. Il perimetro di tale azione si verifica su due aspetti contrapposti: da un lato è necessario che lo sfruttamento intensivo sia finalizzato a rapidi guadagni, dall’altro vi è la necessità di non degradare troppo la fonte di guadagno stessa (ossia le persone sottomesse) per non renderla inattiva e impossibilitata a produrre ulteriore ricchezza. Per garantire i profitti è necessario, dunque, assicurare un continuo ricambio delle vittime o di quanti accettano volontariamente, o meglio per necessità, tali condizioni lavorative, attraverso impieghi di breve durata.

Lo stato di sudditanza socio-economico e socio-psicologico, le forme di sfruttamento basate sul dominio e sulla completa coercizione, sono gli elementi che spiegano cosa s’intenda per condizione servile [ 7]. Come ben suggerisce questa sanatoria.
È stato osservato che in Europa negli ultimi anni un inasprimento della politica migratoria è stato accompagnato da una riduzione della protezione dei migranti. Dal Global Slavery Index 2018 emerge che, anche nei paesi con risposte apparentemente più forti alla schiavitù, l’esclusione dalle forme di protezione normative, aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù.
La vulnerabilità alle condizioni servile è matematica nelle situazioni e nei luoghi in cui l’autorità dello Stato e della società non è in grado di proteggere i migranti.

Non si tratta, dunque, di un concetto puramente tecnico.

La vulnerabilità alla condizione servile definita, dall’International Organization for Migration (IOM) come suscettibilità ai danni di alcune persone rispetto ad altre a seguito dell’esposizione a un certo tipo di rischio. Le dimensioni in cui si manifesta la vulnerabilità dei migranti sono: fattori individuali (come età, genere, etnia), fattori familiari e domestici (come dinamiche familiari interne), fattori della comunità (come gli atteggiamenti culturali e l’ambiente naturale) e i fattori strutturali (come le strutture legali e una più ampia stabilità sociale) .
La giustizia rientra, istituzionalmente, in quella dimensione discriminante per cui si produce la condizione servile, supportata da politiche restrittive in materia di immigrazione combinate a forti incentivi economici e a salari indegni.
Una “
persecuzione burocratica [ 8]” che colpisce gli immigrati nei Paesi di destinazione, che contribuisce a definirne la loro diversità e a delimitare, in ultimo, i contorni dell’identità nazionale.

Si potrebbe pensare che […] l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo per trovarvi un’esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta. Ma non è così. L’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto […] Bisognava comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità della nostra cultura [ 9]’.

I siti di vulnerabilità – ossia le zone dove si verifica il crimine della schiavitù moderna -, le caratteristiche delle vittima (o cosa rende alcuni migranti più vulnerabili a schiavitù moderna di altre?), le caratteristiche del trasgressore e le prospettive del guardiano, sono i riferimenti che spiegano le dinamiche della schiavitù moderna e, nello stesso tempo, i punti su cui intervenire per non commettere questo crimine. Così lontano, così vicino.

Note

[ 1] Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.

[ 2] Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.

[ 3] Cfr.  Siamo qui, sanatoria subito.

[ 4] Bourdieu in Sayad 2002.

[ 5] Polanyi, 2010. Inoltre, vedi Bales, 2002: «Questa nuova forma di schiavitù imita l’economia mondiale: si sottrae al rapporto di proprietà e all’impegno gestionale fisso, concentrandosi piuttosto sul controllo e sull’uso delle risorse e dei processi. […] Nella nuova schiavitù lo schiavo è un articolo di consumo: in caso di necessità può aggiungersi al processo di produzione, ma non è più un bene ad alta intensità di capitale».

[ 6] Cfr. Siamo qui, sanatoria subito. Inoltre vedi Bartoli, 2012: «Quando l’etnia, la nazionalità, la cultura e la religione non sono trattate come categorie aperte, negoziabili, mutanti, frutto di processi storici, ma come un dato naturale, inalienabile, immutabile, che determina totalmente i comportamenti e le opinioni dell’individuo che vi è rubricato e ne decreta l’incommensurabile diversità dal «noi», allora divengono nomi criptati del concetto di razza. Il diritto finisce dunque per creare, quasi fossero nuove denominazioni di razza, l’identità di “straniero” – che rischia di rimanere tale a vita e non ottenere mai la cittadinanza per residenza, perché questa è basata sullo ius sanguinis e difficile da ottenere anche per i figli degli immigrati nati e vissuti in Italia – e quella del “clandestino”, che è tale per definizione di legge – “La clandestinità è una sorta di status d’eccezione in cui finanche i diritti fondamentali possono essere sospesi”».

[ 7] Cfr. Carchedi – Mottura – Pugliese, 2015: «Il fattore che la caratterizza è la mancanza di libertà. In questo tipo di relazioni la caratteristica sembra essere la distanza tra le parti in causa, distanza necessaria a mantenere il rapporto sui binari della completa soggezione coatta delle vittime».

[ 8] Dal Lago, 1998.

[ 9] Dal Lago, 2004.

(**) ripreso da www.meltingpot.org

La vignetta – scelta dalla “bottega” – è di Mauro Biani. Le immagini del testo di Vanna D’ambrosio rimandano al museo della schiavitù nell’isola di Gorèe in Senegal: che è sorta sulla Maison des Esclaves – la casa degli schiavi – nellla quale sono transitati milioni di africani strappati alla loro terra per essere portati in catene nelle Americhe.

Redazione
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