Fantasy & Science Fiction n. 1

Di Mauro Antonio Miglieruolo

Inizio oggi a occuparmi della nuova (nuova per me) rivista della Elara, Fantasy & Science Fiction, Edizione Italiana, della quale ho appena ricevuto i primi quattro numeri. Una piacevole sorpresa. Il curatore, Armando Corridore, ha lavorato bene, la collana rinnova la buona tradizione italiana delle riviste di qualità degli ormai lontani anni ’60 e ‘70.


Ne aveva già parlato positivamente Daniele Barbieri sul suo blog. A quella valutazione mi accodo per integrarla con alcune considerazioni che mi sembra utile presentare ai lettori. In tempi di prolungate vacche magre non è banale la riproposizione di una rivista che, e qui appare il primo elemento positivo, unificando la tradizione con le tendenze presenti, realizza una sorta di (tentativo di) sintesi di ciò che è stato ed è la fantascienza. La rivista, che è tutt’ora disponibile presso l’editore, ha poi il merito di essere offerta a un prezzo straordinariamente contenuto (euro 5,90), prezzo competitivo rispetto alla pur più ricca, blasonata e editorialmente forte Urania (Mondadori).
21maggio-Fantasy&SFn1Dopo una sinteticissima introduzione del curatore (una sola paginetta) il fascicolo presenta nell’ordine Matheson, Strugeon, Bradbury, Di Filippo, Ellison, Winter, Kessel, Simak, per complessive 160 pagine di buona fantascienza.
Prima di soffermarmi sul racconto che a mio parere è il più significativo (il più significativo, ma non il migliore) degli otto di questo primo numero, desidero parlare brevemente di quello firmato Matheson, La Finestra del Tempo; racconto che ho apprezzato particolarmente in quanto è riuscito a riportarmi ai tempi d’oro (tempi d’oro delle mia gioventù, ma anche della piena forza espressiva del genere fantascientifico) nei quali era il modo specifico di fare fantascienza ad affascinare, non il suo librarsi (che pure risultava avvincente) sulle specifiche tematiche delle avventure nello spazio, nel tempo e nella dimensione. Gli scrittori all’epoca, ispirati dal bisogno di meravigliare e meravigliarsi riuscivano ad andare di là da questo loro (e nostro) bisogno, entrando nella dimensione umana delle aspirazioni profonde della modernità; ed interpretando il bisogno di sfuggire al piattume del vivere quotidiano dando corpo ai sogni, o anche suggerendo sogni, di una gioventù che non riusciva più a guardare nel passato per costruire una propria immagine di futuro; ma che trovavano nel presente depurato delle sue vischiosità di che immaginare un presente successivo più accettabile, più avventuroso, all’interno del quale il loro essere niente si trasformava nell’essere al centro di imprese il cui valore non era tanto il mirabolante, ma la possibilità offerta di cambiare, di entrare a contatto con l’infinito mondo delle possibilità che è nelle possibilità cosmiche (possibilità riconosciute dalla meccanica quantistica). (1)
È il bisogno di spazi, di novità e di potere che caratterizza la fantascienza moderna, non la presenza massiccia delle scienze in sé (che poi è presenza del miracolo tecnologico). In quanto prodotto tecnologico la scienza è sempre stata presente nella letteratura; diventa significativa nel momento in quanto scienza, sa farsi interprete, oltre che del bisogno di aprire la mente a pensieri audaci sull’essere del mondo, dell’imperante bisogno di cambiamento. D’altronde che la scienza cambi la vita lo si può osservare dal settecento in poi. In pieno Novecento la fantascienza finisce con il diventare una sorta di oracolo al quale ci si rivolge per sapere le forme possibili di questo cambiamento, esultando ogni volta che vi è coincidenza tra la risposte fornite e l’evoluzione concreta della realtà sociale (che a volte realizza una delle migliaia di ipotesi avanzate, il più delle volte nessuna).
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Tra gli otto racconti, oltre a quello di Matheson ce n’è un altro del quale ritengo si debba necessariamente parlare. Si tratta di L’Arpa di Sangue, della scrittrice Laurel Winter.
Confesso che non ho gradito. Quantunque senta di dover rendere omaggio all’autrice per l’originalità del tema (un’arpa avida di sangue che scortica le dita delle esecutrici), nonché la drammaticità dello svolgimento, sviluppato con una certa coerenza, alcune carenze presenti all’interno della struttura del racconto impediscono il pieno riconoscimento del suo valore. Non amo i racconti horror, e questo di Winter lo è in senso proprio. E però non è per questa sua specifica caratteristica che non mi sono emozionato leggendolo, ma per l’acceso sentimentalismo che lo caratterizza; per la gratuità delle motivazioni delle protagoniste (le artiste devono sacrificare le loro mani per ottenere buone esecuzioni musicali); e per l’assenza di un contesto in grado di giustificare un tale autodafé in omaggio alla musica. Vi sono domande che il racconto pone, ma alle quali l’autrice rifiuta di rispondere. Domandi quali: perché una società (la nostra) già in partenza tanto crudele nei confronti dei propri cittadini senta il bisogno di incrudelire ulteriormente accettando che una donna sviluppi in sé il masochismo per realizzare una sua vocazione musicale? Che tipo di società occorre costruire affinché si concretizzi nei suoi cittadini una propensione alla barbarie uguale, se non superiore, a quella che, nel lontano nostro passato, accettava di divertirsi con i giochi gladiatori? L’autodistruzione necessariamente è il passaggio obbligato per ogni tendenza alla realizzazione? L’assenza di risposte a tali domande toglie sostanza alla vicenda e alle motivazioni dei protagonisti. Private di qualsiasi riferimento oggettivo queste motivazioni risultano esteriori, non un autentico vissuto. Lo stesso bisogno di realizzarsi attraversando le forche caudine di uno strumento che non si capisce bene da dove sorga e chi e per quale motivo sia stato costruito appare del tutto gratuito, una ossessione, se non una perversione.
Forse la critica pecca di ingenerosità nei confronti di una scrittrice che, almeno in questo racconto, risulta particolarmente capace; ma è anche una critica necessaria: mai bisogna contentarsi di buone scritture sviluppate sulla base di ottime idee. Obiettivo comune di lettore e scrittore deve comunque essere di arrivare a produrre letteratura artisticamente ben lavorata. Cioè a prodotti in cui la storia, lo stile, la forma, l’ambiente, i significati primi e ultimi costituiscano parti di un tutto coerente, parti armoniosamente combinate per realizzare uno specifico effetto: una dimensione di vita allargata, la produzione di nuova supplementare realtà: un racconto.
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Nel complesso un fascicolo altamente consigliabile. Da collezionare.
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(1) Nel caso specifico è la possibilità offerta a un vecchio di rivivere il proprio passato, per una messa a punto dei ricordi e più ancora dei sentimenti.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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