FATE (VOCE DEL VERBO FARE)

una neuropoesia di PABUDA per chi a Goro… fa schifo

 

fate schifo, è un dato di fatto:   fate-whitehead_alfred_north_process_and_reality

cine-ripreso, audio-registrato,

tele & radio documentato.

suona male stare a dirvelo?

io credo

sarebbe molto meno fraterno

e amichevole

lasciarvi tra le nebbie dei distinguo,

lasciarvi indecisi

tra gli apparenti opposti:

– da un lato – l’apologia

che del vostro schifo fanno

i seminatori d’odio professionisti

e – dall’altro – la relativizzazione,

la beneducata disinformazione,

la pelosa & democratica

presa di distanza

con annessa demagogica

parziale giustificazione

(per capirci…

si legga Mauro su “Repubblica”)

congegnata per sortire,

alla fine della fiera,

una generale e italianissima

autoassoluzione.

ma voi, da qualche parte

(su un quaderno,

su un bloc notes, su un diario,

o su un foglietto)

per non dimenticarlo, segnatevelo:

fate schifo: è un dato di fatto:

non conta quel ch’eravate,

dicevate, facevate sino all’altro ieri:

conta quel ch’adesso

avete pensato, avete detto,

avete fatto.

a quanto pare, a cose fatte,

neppure vi vergognate.

è un peccato, davvero:

non dovreste vergognarvi

di provar vergogna,

(e, magari, di chiedere scusa

a ciascuna di loro e al mondo intero):

è un peccato non vi passi neppure

per la testa

perché, di fatto, è l’ultima chance

che vi resta:

la vergogna potrebbe essere un aiuto,

una spinta, un punto di partenza,

per pensare allo schifo nauseante

ch’avete messo in piazza

e cominciare a provare, anche voi,

l’unico senso giusto:

l’istintivo, primordiale, umano disgusto.

ma manco un leggero rossore

sulle vostre guance vedo.

fate schifo – il concetto, a questo punto,

dev’essere chiaro, credo –

ma fate anche un po’ paura:

siete un segnale, un allarme che urla

e rompe i timpani:

perché di gente che coi mezzi più vari

(più discreti e astuti dei vostri, magari)

fa lo schifo che fate voi

ce n’è un’enormità:

ce n’è nelle campagna e nelle città,

tra il popolino arricchito, indebitato, ignorante

e tra l’oligarchia milionaria e potente,

tra gli analfabeti e tra i laureati,

tra i rimbecilliti che si cuociono il cervello

davanti alla tv

e tra i rimbecilliti che s’inventano

e ammanniscono programmi e notiziari,

quiz, concorsi, cronache sportive

e documentari…

dentro alla tv.

ce n’è: nell’elettorato e tra gli eletti,

tra gli atei e tra i baciapile,

tra gli accattoni disperati

e tra i vescovi ingioiellati,

tra gli operai e nei consigli

d’amministrazione:

ce n’è per ogni dove:

tra i liberali e tra gli ex comunisti,

tra gli eterni democristiani e – ovviamente –

tra i fascisti e i nazionalisti

(quelli neri, i rosso-bruni, gli azzurri e i verdi).

per ora, schifoso popolo

di qualche centinaio d’italiani fieri

e fiere italiane

che t’ammazzi di lavoro

per tener ben sopra il rosso, in banca, il conto

e fai quelle cose schifose

senza vergognartene punto,

per ora, popolo obbrobrioso,

ti crogioli abbastanza tranquillo

nella melma catodica maleodorante

delle tue coraggiose imprese

per tenere dodici donne emigrate e senza casa

alla larga dal tuo paese…

perché la sai lunga

e perché ti trovi in abbondante compagnia:

con te c’è buona parte della triste e piccola

borghesia

ma pure ci son certe stelle

della moderna aristocrazia.

e t’illudi che tra schifosi siete tutti uguali:

sgobboni e magnati,

politici razzisti e razzisti popolani, alla pari.

palle! popolo minaccioso, allevatore d’odio

e, all’occorrenza, di redditizi molluschi bivalvi

quando sarai veramente,

seriamente nella merda –

alla prossima crisi globale

verticale

dello spaghetto allo scoglio –

i tuoi compagni virtuali,

giornalistici e mediatici, di bravate xenofobe

t’abbandoneranno:

altri e più preziosi frutti di mare

ed (e)lettori

e inquilini, e correntisti e alcolisti

e dipendenti

e consumatori e radio-telespettatori

da spolpare

facilmente si procureranno:

abbandonandoti al tuo misero, fetente, destino:

in una scarpata, una trincea,

una bancarotta fraudolenta, un ospizio,

un pollaio industriale,

un manicomio, una cella, una sala operatoria,

un sottomarino alla deriva.

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Pabuda
Pabuda è Paolo Buffoni Damiani quando scrive versi compulsivi o storie brevi, quando ritaglia colori e compone collage o quando legge le sue cose accompagnato dalla musica de Les Enfants du Voudou. Si è solo inventato un acronimo tanto per distinguersi dal suo sosia. Quello che “fa cose turpi”… per campare. Tutta la roba scritta o disegnata dal Pabuda tramite collage è, ovviamente, nel magazzino www.pabuda.net

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