Femminismi in America Latina/2

Tra violenza patriarcale ed estrattivista e interconnessione con la natura
di Maristella Svampa
Traduzione Marina Zenobio per Ecor.Network.

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5 Danni ambientali e Zone di sacrificio

Una volta in dicembre ci è capitato di imbatterci in una manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo, sezione di Cordoba. Non ci conoscevano, ma quando ci hanno viste marciare si sono subito unite. Stavamo lì, camminando facendo il giro della piazza, con loro e con un sacco di altra gente. A un certo punto volevamo fermarci ma ci hanno detto di non farlo ‘perché le Madri non smettono mai di marciare’ per chiedere giustizia contro il genocidio ambientale”.

Norma, del gruppo di Madres del Barrio Ituzaingó Anexo, Córdoba, Argentina, 2018 (Berger y Carrizo, 2019: 23-24)

È noto che gli ambientalismi popolari del Sud e il movimento per la giustizia ambientale nato negli Stati Uniti negli anni ’60 hanno una radice comune, ovvero la coincidenza tra la mappa della povertà e la mappa dell’inquinamento. Terre degradate, scarichi di sostanze inquinanti nelle aree urbane, costruzione di quartieri popolari sulle discariche, sversamenti di sostanze chimiche utilizzate dalle industrie, sversamenti di minerali e idrocarburi che distruggono il suolo e inquinano le acque, discariche a cielo aperto, alterazione e distruzione della flora e della fauna, morte degli animali, desertificazione o campi attraversati da fossati sono alcuni dei danni che lo sfruttamento industriale, petrolifero e minerario ha causato nel corso del tempo. Così, una delle prime questioni affrontate dalle donne nei territori è quella degli effetti sulla salute e sulla vita quotidiana delle attività industriali ed estrattive tradizionali, associate al livello di concentrazione locale delle imprese e al peso delle responsabilità ambientali.

“Ambientalismi popolari”, nel linguaggio di Joan Martínez Alier (2004); “ecofemminismi di sopravvivenza” in quello di Vandana Shiva (Svampa, 2015). Il fatto è che in America Latina i gruppi di donne che denunciano i danni ambientali e la configurazione di zone di sacrificio sembrano molto legati ai vecchi e nuovi estrattivismi. E’ certo che, in nome del progresso, le comunità povere insediate nei territori interessati sembrano rese invisibili, i danni ambientali e sociosanitari naturalizzati, ossia che la sofferenza ambientale è vissuta come normale e quotidiana. Pertanto, la resistenza sociale inizia così, con il processo di denaturalizzazione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, dando dei nomi al mal di vivere e alle sue conseguenze sui corpi: “danni ambientali”, “giustizia ambientale”, “sofferenza ambientale”, “zone di sacrificio”.

Vivere in una “zona di sacrificio” implica la radicalizzazione di una situazione di disuguaglianza e razzismo ambientale, dove si intersecano questioni sociali, etniche e di genere. D’altra parte, la configurazione delle zone di sacrificio si riferisce a un processo, generale ed esteso nel tempo, di svalutazione di altre forme di produzione e di vita diverse dall’economia dominante. Non si tratta solo dell’emergere di una territorialità che esclude altre territorialità subalterne, sommerse o dislocate, ma anche del degrado dei territori, della qualità della vita di fronte al consolidamento di modelli di sottosviluppo (Svampa e Viale, 2014). Con il passare del tempo, ciò che rimane alle comunità locali sono i danni ambientali e sociosanitari, corpi e territori convertiti in aree di sacrificio, intere zone dove ciò che predomina è la sofferenza ambientale, e le vite stesse diventano usa e getta e sacrificabili.

In America Latina esistono numerose esperienze legate ai danni ambientali, dove le donne svolgono un ruolo centrale nella denaturalizzazione. In Cile, per esempio, c’è il caso della regione di Quintero- Puchuncaví, il polo industriale più contaminato del paese, vicino a Valparaiso, dove nel 1964 entrò in funzione la prima fonderia e raffineria di rame dell’Impresa Mineraria Nazionale (ENAMI). Nel 2016, il parco industriale ospitava più di diciassette imprese, tra cui sette centrali termoelettriche a carbone, una raffineria e fonderia di rame, tre imprese coinvolte nella distribuzione di idrocarburi, due di stoccaggio di prodotti chimici e tre aziende di distribuzione di gas. Anche se si parla poco del ruolo delle donne nelle denunce, sono loro ad aver creato il gruppo Donne delle Zone di Sacrificio in Resistenza di Puchuncaví-Quintero. Il lavoro etnografico e di accompagnamento di Paola Bolados e Alejandra Sánchez Cuevas testimonia questo processo di denaturalizzazione, il modo in cui queste donne hanno ridefinito la violenza e l’ingiustizia ambientale in termini di denuncia diretta delle strutture di dominio politico generate dal neoestrattivismo (Bolados e Sánchez Cuevas, 2017: 40). Dalle parole di Carolina Orellano, cofondatrice di Mujeres de Zona de Sacrificio Quintero-Puchuncaví en Resistencia:

Le donne che vivono nelle zone di sacrificio sono drammaticamente invisibili quando si tratta dei sintomi della contaminazione e dell’escalation degli abusi. Solo nel luglio di quest’anno la nostra realtà è diventata una questione rilevante per il Ministero della Salute, ma non per il SERNAM (Servicio Nacional de las Mujeres creato dal governo cileno nel 1991, ndt), e solo due anni fa la nostra realtà ha cominciato ad interessare la “Rete Nazionale delle Donne per la non violenza”. Forse questo perché abbiamo naturalizzato non solo la violenza del patriarcato ma anche l’alienazione imposta dal neoliberalismo estrattivista, essendo la terra e le donne oggetti di abuso. È urgente che questa espressione di violenza diventi anche motivo di lotta a livello nazionale (Bolados e Sánchez Cuevas, 2017: 44).

Un caso simile è quello del polo di inquinamento del bacino Matanza-Riachuelo in Argentina. Questo bacino copre 64 km quadrati e attraversa 14 comuni della capitale, oltre alla stessa città di Buenos Aires. Lì vivono più di quattro milioni di persone, molte delle quali appartengono ai settori più esclusi, che sopportano una situazione di sofferenza ambientale cronica di cui sono responsabili le imprese industriali che ivi si trovano, ma anche per l’assenza di politiche di protezione e risanamento da parte dei tre governi coinvolti – nazionale, provincia di Buenos Aires e città di Buenos Aires -. Una vera e propria zona di sacrificio, in cui appare nuovamente la difficoltà di affrontare la naturalizzazione e la verbalizzazione di una situazione di estrema sofferenza ambientale. Il cortometraggio Las mujeres del río (Le donne del fiume), diretto da Soledad Fernández Bouzo 3 , mostra come le donne dei diversi quartieri colpiti chiedano di essere ascoltate e di vedere riconosciuti i loro diritti:

Dobbiamo essere viste, dobbiamo essere considerate e avere i canali abilitati per esercitare i nostri diritti. Il nostro obiettivo è far sentire la voce dei bambini, affinché non naturalizzino i rifiuti, non naturalizzino l’aria, non naturalizzino i liquami, non naturalizzino il vivere in una scuola e in un quartiere sporco, che abbiano alternative e che possano essere protagonisti della creazione di alternative (Fernández Bouzo, 2018).

Situazioni tali a quelle di Puchuncaví-Quinteros e Matanza-Riachuelo mostrano come nello spazio urbano si sono andati via via configurando dei “profili epidemiologici”, che evidenziano non solo l’insostenibilità delle grandi città ma anche l’impatto differenziato in termini di classi sociali, perché quegli impatti variano da una classe sociale all’altra e subiscono modifiche storiche a seconda delle relazioni di potere che influenzano gli stili di vita (Breilh, 2010). Su questa linea, Soledad Fernández Bouzo e Melina Tobías sostengono che “dal punto di vista epidemiologico, i settori più poveri, che vivono in alloggi precari in aree degradate della città e senza accesso ai servizi di base, sono caratterizzati da un cosiddetto profilo a mosaico (Ferrer, 2011). Questo vuol dire che soffrono di una combinazione di problemi di salute ambientale tradizionali e moderni” (Fernández Bouzo e Tobías, 2020).

I nuovi estrattivismi, legati all’espansione dell’agrobusiness, aggiungono altri elementi a questa situazione di ingiustizia ambientale e sociale. Un esempio paradigmatico sono i danni sociali e sanitari provocati dal glifosato, l’erbicida venduto da Monsanto/Bayer e associato alla soia transgenica, la cui monocoltura si sta diffondendo in Argentina, Brasile, Paraguay e Bolivia. In Argentina, per esempio, la soia ogm occupa circa 25 milioni di ettari di territorio. Almeno 12 milioni di persone risiedono in zone dove ogni anno vengono irrorati più di 500 milioni di litri di prodotti agrotossici e dove i livelli di esposizione (non più potenziale), arrivano a 40-80 litri/chili per persona e anno (Svampa e Viale, 2020: 118). Ebbene, l’impatto del modello basato sulla soia – che rappresenta uno dei maggiori problemi ambientali e sanitari del paese – è stato messo all’ordine del giorno dalle donne. Dall’inizio del 2000, il quartiere Ituzaingó Anexo, situato nel sud-est della città di Cordoba che ospita circa 5.000 persone, ha visto la mobilitazione di un gruppo di madri preoccupate per l’aumento di patologie come, tra le altre, il cancro e gli aborti. Hanno cominciato a chiedere alle autorità di effettuare analisi sulle malattie e sui possibili inquinanti. Di fronte alla mancanza di controlli ambientali ed epidemiologici, le donne si sono organizzate con le loro famiglie per realizzare le proprie indagini, “una mappa delle malattie e delle morti nel quartiere, andando di casa in casa nel nostro territorio, parlando con i nostri vicini. Abbiamo iniziato a scoprire cosa fossero le agrotossine, perché fino ad allora non sapevamo cosa fossero, a cosa servissero, chi le producesse e per quali usi” (testimonianza raccolta in Berger e Carrizo, 2019: 15-16).

Nel 2012, queste denunce hanno portato al primo processo penale connesso all’irrorazione di glifosato in Argentina (Svampa e Viale, 2014) 4. Anche se le condanne non hanno soddisfatto le aspettative del gruppo di Madres del Barrio, questo processo è stato una pietra miliare, il primo caso in cui gli effetti dell’irrorazione di glifosato, legati a un problema di salute pubblica, sono stati portati a giudizio. D’altra parte, la lotta delle Madri del Barrio Ituzaingó Anexo ha dato visibilità nazionale e internazionale a un problema che tocca lo zoccolo duro del modello economico argentino. Da maggio 2014, seguendo l’esempio delle Madri di Plaza de Mayo – che facevano il loro giro settimanale davanti al Palazzo del Governo di Buenos Aires, esigendo l’apparizione dei loro figli -, le Madri del Barrio Ituzaingó Anexo marciano con le mascherine in Plaza San Martín, a Córdoba, come protesta e richiesta di giustizia.

Sulla stessa linea si includono le resistenze delle donne nelle piccole città, nelle aree urbane marginali e nelle zone rurali colpite dall’inquinamento causato dall’espansione della frontiera petrolifera. Per esempio in Argentina, punta di diamante del fracking in Sud America, i conflitti territoriali con le comunità mapuche sono aumentati. Tuttavia, per testimoniare la portata dei danni ambientali sulle comunità mapuche, bisogna risalire fino al 1977, con la scoperta di un enorme giacimento di gas, Loma de la Lata, inizialmente nelle mani di YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales) e poi di Repsol. Dal 2010 in poi, con l’avanzare del fracking, la disputa sulla terra, così come gli impatti socio-sanitari, ambientali e territoriali si sono aggravati. E’ il caso della comunità Gelay Ko nella provincia di Neuquén, dove è stato perforato il primo pozzo di fracking nel paese. Lì, l’opposizione al fracking è stata guidata da Cristina Linkopan, mapuche lonko, che nel 2011 ha scalato le torri di perforazione paralizzando l’attività. Linkopan è morta nel marzo 2013, con una diagnosi di ipertensione polmonare. Nei suoi brevi 30 anni e con quattro figli, aveva sempre vissuto circondata da pozzi di petrolio, senza acqua potabile e con un inquinamento permanente dell’aria e della terra.

Ha detto Linkopan poco prima di morire:

Cade acqua contaminata, cade sul territorio e cade sulle piante. I nostri animali mangiano quelle piante e bevono quell’acqua, noi viviamo dei nostri animali, non abbiamo mai vissuto come impresa, non abbiamo mai vissuto della provincia, i nostri animali sono come noi gli alleviamo, i nostri anziani ci nutrono coi nostri animali e continuiamo a vivere dei nostri animali. E oggi viviamo in una povertà abissale perché abbiamo questa compagnia petrolifera che ha distrutto il cento per cento del territorio che avevamo prima, potevamo allevare mille pecore e oggi non possiamo allevare nemmeno cento capre perché non abbiamo acqua e l’erba è molto cattiva… non cresce nemmeno l’erba (Linkopan, 2012, citato in García Gualda, 2016: 26) 5.

Lo stesso vale per quelle famiglie che vivono in povertà e invisibilità sociale sulle rive del Rio Negro, ad Allen, in Argentina, dove i pozzi di fracking si moltiplicano tra le piantagioni di pere e mele. Lì le donne subiscono, come sostiene Belén Álvaro, “un’esperienza perturbata dello spazio che le circonda, fatto di paura e angoscia a causa della presenza di rumori legati all’attività, motori in funzione 24 ore al giorno e vibrazioni permanenti” (Álvaro, 2019). A questo si sommano i danni alla salute provocati dal cambiamento della qualità dell’aria e dell’acqua. L’altra faccia della tendenza all’invisibilità è il negazionismo. Un esempio: tra i numerosi incidenti avvenuti ad Allen, uno è stato particolarmente grave, nel 2015, e ha prodotto l’esplosione di un pozzo di francking. Quando gli abitanti della zona, soprattutto donne, hanno iniziato a protestare, il responsabile della Segreteria per l’Energia della provincia ha negato l’avvenimento e ha persino dubitato dell’esistenza di abitanti nel quartiere vicino all’esplosione. In una intervista ad una importante radio provinciale ha dichiarato: “Sto guardando su Google Earth ma qui non risulta esistere nessun quartiere” (Svampa, 2018b).

La naturalizzazione della sofferenza ambientale e dell’inquinamento costituisce spesso la prima e unica realtà. Così, i collettivi delle persone colpite, guidati da donne, devono costruire quasi da zero un linguaggio che possa dare un nome a ciò che stanno soffrendo. Come sottolinea Berger, è lunga la strada che porta dalla rilevazione del danno al salto verso la mobilitazione pubblica, dalla denuncia in cerca di visibilità alla richiesta di diritti, riparazione e risarcimento (Berger e Carrizo, 2019: 125). Di conseguenza, la dinamica di autorganizzazione di queste flebili voci riflette un processo di costruzione lento – un cammino fatto di passi brevi ma decisi -, dove la ricerca di riconoscimento e di un reale esercizio dei diritti va tracciando un discorso sull’ingiustizia sociale, che sottolinea anche la necessità di tessere legami comunitari, basati sulla cura della vita. Insomma, di fronte alla contaminazione cronica – tra nuovi e vecchi estrattivismi – ci ritroviamo con narrazioni di voci flebili, quasi inudibili di fronte a un potere che cerca di rendere invisibili le rivendicazioni e per il quale siamo solo cittadini di seconda classe, con vite tossiche usa e getta.

Ma in gran parte è anche grazie alle denuncia di queste donne che soffrono per la disuguaglianza ambientale e sanitaria, dentro nuovi e vecchi estrattivismi, nella grandi città come lungo la frontiera estrattiva, che si è aperto uno spazio propizio per l’emergenza di una epidemiologia critica 6. Si tratta di una prospettiva che non solo mette in discussione l’attuale rapporto società-natura, ma sottolinea come stia generando profili epidemiologici differenziati. In Argentina, sebbene il modello della soia sia sostenuto dal potere economico e politico, scienziati come Andrés Carrasco e, dopo di lui, altri spazi universitari – come la Rete dei Medici delle Città Fumigate e l’Equipe Socio-ambientale della Facoltà di Medicina dell’Università di Rosario – hanno iniziato a generare un’epidemiologia critica, realizzando studi e indagini sul campo tra le località vicine ai terreni fumigati. Questi studi hanno confermato il legame tra pesticidi, come il glifosato, e danni alla salute. Come dice Carrasco riferendosi al glifosato: “non ho scoperto nulla di nuovo. Dico la stessa cosa delle famiglie che vivono su territori fumigati, solo che l’ho confermato in laboratorio”.(Lavaca, 2014).

6 Acqua per la vita

Quando iniziammo la lotta contro Agua Zarca non sapevo che sarebbe stata tanto dura, ma sapevo che avremmo vinto, me lo aveva detto il fiume. Adesso continueremo non solo come popolo lenca ma anche con altre organizzazioni, con la speranza di cambiare la situazione nel nostro paese. Non ci resta altro che lottare”.

Berta Cáceres, 2015, dichiarazione alla BBC

Di fronte al collasso socioambientale, l’acqua è destinata a diventare un bene insufficiente. La forte identificazione con la terra e i suoi cicli vitali di riproduzione hanno reso la difesa dell’acqua per la vita (e non per l’assetato estrattivismo) uno degli slogan centrali dei femminismi ecoterritoriali. Oggi le forme di accaparramento e appropriazione dell’acqua, nel contesto dell’espansione estrattivista, sono state esacerbate sia attraverso il sovraconsumo e la concentrazione, sia attraverso la privatizzazione e l’inquinamento. Per esempio l’acqua e le miniere, l’acqua e il fracking, l’acqua e le mega-dighe sono intrinsecamente legate. Di conseguenza, con l’aumento del metabolismo sociale del capitare e la mercificazione dei beni comuni, queste forme di appropriazione hanno incrementato in modo esponenziale le disuguaglianze ambientali, sociali ed etniche già esistenti.

Accade con l’estrazione mineraria, l’attività estrattiva più contrastata in America Latina. L’estrazione a cielo aperto non solo lascia enormi danni ambientali, utilizza sostanze inquinanti e una grande quantità di energia. Soprattutto consuma milioni di litri d’acqua dolce, entrando così in competizione con altre attività economiche – tradizionali e sostenibili – e con i consumi di acqua domestici e residenziali. Per esempio, la compagnia mineraria La Alumbrera è autorizzata a consumare 100 milioni di litri al giorno nella provincia di Catamarca, una delle province più povere e aride dell’Argentina. Nel settembre 2021, l’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina (OCMAL) ha contato 284 conflitti minerari dichiarati, 301 progetti coinvolti, 6 transfrontalieri, 264 casi di criminalizzazione, 39 consultazioni minerarie e 162 conflitti legati all’acqua (OCMAL, 2021).

Un caso emblematico è quello di Máxima Acuña, nota come “la signora della laguna blu”, che si è opposta al progetto minerario di Conga, a Cajamarca, Perù. La costruzione di Conga avrebbe portato il prosciugamento e la distruzione di quattro lagune della zona, le quali fanno parte di un sistema di interconnessione di acqua, così che si sarebbe danneggiato per sempre il suo insieme, tanto più in considerazione della mancanza di ghiacciai (Amancio, 2016). La storia di Máxima, una contadina analfabeta che vive a 4.000 metri di altitudine, in lotta contro la compagnia mineraria Yanacocha è diventata famosa: “Hai mai sentito dire che le lagune sono in vendita? – domandava Máxima Acuña, alzando una pesante pietra il giorno che l’impresa provò a cacciarla – O che i fiumi sono in vendita, la sorgente è in vendita ed è proibita?” (Amancio, 2016). Nonostante sia stata picchiata, minacciata e la sua casa sia stata bruciata, Máxima ha continuato a vivere la sua vita nel suo territorio e a difendere l’acqua delle lagune. Alla fine, grazie alla lotta delle comunità e alla pressione popolare, il progetto Conga è stato sospeso nel 2011.

In Bolivia risalta la lotta delle donne contro l’estrazione mineraria portata avanti dalla Rete Nazionale di Donne in Difesa di Madre Terra (RENAMAT), il cui slogan principale è “Acqua per la vita, non per la miniera”. A livello regionale c’è la Rete Latinoamericana di Donne in Difesa dei Diritti Sociali e Ambientali (2020), nata con il proposito di dare visibilità ai danni che l’estrazione mineraria provoca alle donne, alle loro lotte, alla relazione con la natura e al saccheggio delle risorse minerarie a beneficio economico delle corporazioni. Questa include numerose organizzazioni con alle spalle una lunga lotta contro l’estrattivismo tra cui Censat-Agua Viva (Colombia), Acción Ecológica (Ecuador), Colectivo Casa (Bolivia), Movimiento Ecofeminista en El Salvador e il Grupo de Intervención y Formación para el Desarrollo Sostenible (Grufides – Perú).

Altro caso è la miniera di litio, che è un’attività estrattiva a base di acqua. L’aumento della domanda di questo minerale, considerato strategico per la transizione energetica, ha scatenato una sorta di febbre dell’oro che ha colpito il cosiddetto “triangolo del litio” (Argentina, Bolivia e Cile). Sia il Cile che l’Argentina stanno cercando di consolidarsi come grandi esportatori di litio a livello mondiale, senza abbandonare il modello di primarizzazione, per il quale hanno un quadro normativo altamente mercificato (che nel caso cileno include la privatizzazione dell’acqua), e un sostegno degli Stati nazionali alle compagnie minerarie nella loro sempre crescente domanda di acqua per produrre sempre più tonnellate di litio da esportare. Ciò mette a rischio il fragile ecosistema del deserto, la sua vita silvestre, i mezzi di sopravvivenza delle persone che lì vivono – soprattutto le comunità indigene -, minaccia la rottura del fragile equilibrio idrico e tende a prosciugare le fonti e le riserve di acqua in zone già di per sé caratterizzate da siccità e stress idrico. Allo stesso modo l’estrazione di litio entra in competizione con l’acqua destinata alle attività agricole e di pascolo delle comunità indigene locali, e rappresenta una minaccia per la biodiversità. Una ricerca condotta per il Cile da Ingrid Garcés, dell’Università di Antofagasta, indica che per ogni tonnellata di litio prodotta vengono utilizzati due milioni di litri di acqua dolce (Fundación Terram, 2019).

A partire dal 2010, nel caso dell’Argentina questo ha scatenato forti conflitti per l’acqua nella regione di Atacama, per l’impatto sui mezzi di sussistenza locali, sull’economia locale e sulla biodiversità. Così, nelle Salinas Grandes, è stata creata la Tavola composta da 33 Comunità Originarie per la difesa e la gestione del territorio (Salta e Jujuy), con la partecipazione di numerose contadine indigene dedite a diversi compiti, tra cui la tessitura. In questo slancio per la difesa dell’acqua, si è sviluppata la nozione di “conca” come concetto politico, che “ha permesso di collegare le rivendicazioni del Diritto Indigeno – insieme alle richieste di rispettare la consegna dei titoli territoriali – con i diritti universali come il Diritto alla Salute e il Diritto all’Acqua, e più specificamente con la richiesta di rispetto del principio di precauzione sancito dal Diritto Ambientale” (Argento, Puente e Slipak).

In Cile, un paese plasmato da decenni di neoliberismo, l’acqua è un bene privatizzato. In questo contesto di stress idrico, il Cile deve desalinizzare l’acqua di mare per alimentare le sue miniere di rame. L’espansione della frontiera del litio ha ulteriormente aggravato la disputa sull’acqua. Il suo impatto sulla regione di Atacama in Cile è tale che è stato uno dei temi del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, che si è riunito in Cile nel dicembre 2019. Non è un caso che le organizzazioni socio-ambientali chiedano che la privazione dell’acqua e l’inclusione dei Diritti della Natura siano i principali temi da affrontare nell’attuale Convenzione Costituzionale, la cui presidente è una donna indigena, Elisa Loncon. Una delle leader di questa lotta contro la privatizzazione dell’acqua è Francisca Fernández Droguett – antropologa e membro del Movimiento por el Agua y los Territorios (MAT), attivista del Comitato socio-ambientale della Coordinadora Feminista 8M e della Cooperativa de Abastecimiento Popular La Cacerola (Ñuñoa) -, parla di “idropolitica dell’espropriazione” di fronte all’intensificazione dell’estrattivismo e delle resistenze (OPLAS, 2021).

D’altro canto, l’espansione delle mega-dighe e la trasformazione dei fiumi in idrovie sono un esempio di privatizzazione per deviazione, poiché questi processi lasciano le comunità, i contadini, le popolazioni indigene e le piccole città senza acqua. Oggi, i tortuosi fiumi che attraversano il Sudamerica si trasformano in percorsi d’acqua per l’estrattivismo, la cui funzione è quella di mobilitare e trasportare materie prime, minerali, metalli, soia, olio, foglie di palma, insomma, tante merci che vengono estratte ed esportate dall’America Latina al mondo, dal fiume Magdalena al Paraná.

Uno dei casi più eclatanti in difesa dei fiumi, dei diritti umani e dei diritti del popolo lenca è stato quello di Berta Cáceres, attivista e fondatrice del Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolare e Indigene di Honduras (COPINH), che ha ricevuto il Premio Goldman 2015 e che – nonostante il prestigio internazionale di cui godeva e delle misure cautelari richieste della Corte Interamericana per i Diritti Umani per le continue minacce alla sua vita – è stata assassinata nel marzo del 2016 dalle forze repressive del suo paese, per il suo impegno di contrasto ad un megaprogetto idroelettrico. “Attualmente siamo più di 400 mila lenca. Siamo un antico popolo presente in Honduras e nel Salvador orientale. […] Ci consideriamo i custodi della natura, della terra e soprattutto dei fiumi” dichiarò Cáceres alla BBC nel 2015 (Martins, 2015). La lotta del COPINH continua e a portarla avanti è anche una figlia di Berta Cáceres, rafforzando i messaggi dell’acqua e della connessione tra popoli indigeni e natura.

Siamo la più grande comunità dell’Honduras e c’è molta diversità al nostro interno. Siamo custodi della natura, della terra e soprattutto dei fiumi. Nella nostra tradizione, gli spiriti femminili risiedono nei fiumi e le donne sono le loro principali custodi. La nostra vita spirituale è legata alle foreste e all’acqua. Siamo una comunità che regala sorrisi. Un popolo forte e vigoroso. Lottiamo contro il progetto di Agua Zarca da un punto di vista della non violenza, esercitando il diritto alla giustizia e all’acqua e chiedendo il rispetto e la dignità del popolo Lenca (CIDON, 2018).

Sulla stessa linea si situano le resistenze contro le mega-dighe in Brasile, dove negli anni novanta si è costituita il Movimiento Antirrepresa (Movimento anti-dighe, MAB l’acronimo spagnolo). Uno dei casi più noti è stata la lotta contro la centrale idroeletttrica di Belo Monte, uno dei maggiori progetti del Plan di Aceleracion del Crecimiento (PAC) e tra le più grandi centrali idroelettriche a livello mondiale. Come in tanti altri casi si tratta di una richiesta di giustizia ambientale riguardante l’acqua. La parola d’ordine è “L’acqua è della gente non di Belo Monte”. Sono state le donne ad aver narrato la storia della resistenza e della perdita dei legami sociali causate dallo sfollamento, storie raccontata nelle tele tessute, storie ricamate (Ertzogue e Busquets, 2019) 7 . Tra il 2013 e il 2015 le donne hanno prodotto 70 tele e hanno partecipato alla mostra internazionale “Tessuti, ricamare la resistenza”, al Memorial de América Latina (San Paolo).

Per noi, donne coinvolte, le tele sono state una via per denunciare le nostre storie negate”, ha dichiarato una delle attiviste del Collettivo di Donne. “Noi danneggiate abbiamo la vita a rischio. Nelle tele abbiamo incontrato il filo, la meta, la linea per cucire un significato, per diventare più forti come soggetti nel processo di emancipazione umana, affermando la nostra identità di combattenti di fronte alla realtà diseguale del modello energetico brasiliano (citato in Ertzogue e Busquets, 2019).

Si potrebbe anche citare la lotta delle donne della zona pedemontana di Orinoquia e dell’Amazzonia, nella cordigliera orientale della Colombia, regione caraibica e della conca del Magdalena, donne che difendono i fiumi dall’espansione della frontiera petrolifera (Roa Avendaño et al., 2017). Ma la lista resterà comunque incompleta. Ciò che più si nota è come si ripete e si amplifica un linguaggio di valorizzazione che si oppone alla territorialità dominante, in difesa dei fiumi, dei bacini idrici, dei ghiacciai, tutta un’ecologia politica femminista dell’acqua che segna l’interconnessione tra l’acqua, la vita, la biodiversità e la natura.

Anche tra le donne colpite dalle agrotossine, la chiave per la denaturalizzazione della contaminazione è stata la problematica dell’acqua. Come racconta una donna colpita, sopra citata, “La nostra lotta non è iniziata direttamente perché siamo venute a conoscenza delle fumigazioni ma perché, tra gli altri problemi, siamo state colpite in un altro diritto fondamentale: l’acqua. Stanche di bere acqua di scarsa qualità fornita dalla cooperativa Sabia SRL, abbiamo preteso che fosse sostituita dalla rete idrica potabile” (Grupo de Madres del Barrio Ituzaingó Anexo, in Berger e Carrizo, 2019: 15).

I messaggi dell’acqua sono molteplici. Per esempio c’è da evidenziare che il processo di appropriazione e privatizzazione dell’acqua si è intensificato dopo la sua quotazione alla borsa di Wall Street (2020). Da una logica puramente speculativa, il passo compiuto dal capitalismo finanziario attenta ai diritti dei popoli e alla sostenibilità della vita, esacerba le problematiche già esistenti e aumenta la minaccia di crisi climatica e collasso ecologico. Come afferma Acción Ecológica dell’Ecuador, una delle organizzazioni composta per lo più da donne, con una lunga storia di lotte e saperi in difesa dell’acqua e del territorio: “Ogni click sui computer delle borse valori può avere effetto sull’acqua – risorsa che si trova in natura e nei territori dove vivono le comunità – minando il diritto dei contadini o della popolazione urbana ad accedere all’acqua per la sopravvivenza”. (Acción Ecológica, 2021) 8 .

Insomma, come sostiene Rita Segato (2019), la parola disuguaglianza non basta a descrivere l’oscena realtà di concentrazione in cui viviamo: “questo è un mondo segnato dalla proprietà o dalla signoria”. Su questa linea si potrebbe dire che il neoestrattivismo, l’acqua e la proprietà vanno di pari passo: sempre più acqua è destinata all’estrazione dei metalli e del litio, più acqua per il fracking, mentre i fiumi vengono deviati e/o trasformati in idrovie per l’estrattivismo, i ghiacciai vengono distrutti non solo per il riscaldamento globale ma anche per l’estrazione, le zone umide vengono devastate dagli incendi o eliminate per espandere la frontiera agropecuaria e urbana, i bacini idrici sono sempre più inquinati da fuoriuscite tossiche, o sperimentano flussi storicamente bassi – come nel caso del fiume Paraná, il secondo più grande del Sud America dopo il Rio delle Amazzoni -, le reti di acqua potabile sono contaminate da agrotossine e prodotti chimici industriali. Così la difesa dell’acqua come bene comune, pubblico e come diritto umano fondamentale è una delle colonne portanti delle lotte ecoterritoriali condotte dalle donne nel processo di sostenibilità della vita.

(2. Continua)

* Sociologa, scrittrice e ricercatrice presso il Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica e Tecnica (CONICET), Argentina. Docente all’Università Nazionale di La Plata. Si è laureata in filosofia all’Università Nazionale di Cordoba e ha conseguito un dottorato in sociologia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Platinum Konex Award in Sociologia (2016) e il National Sociological Essay Award per il suo libro Debates latinoamericanos. Indianismo, Desarrollo, Dependencia y Populismo (2018). Nel settembre 2020 ha pubblicato El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal)desarrollo, insieme a Enrique Viale, pubblicato da Siglo XXI (www.maristellasvampa.net).  maristellasvampa@yahoo.com


NOTE:

3 Il documentario raccoglie le testimonianze di varie donne, tra cui Beatriz Mendoza, che ha iniziato la causa per la bonifica del Riachuelo che ha raggiunto la Corte Suprema di Giustizia della Nazione, che ha ordinato una bonifica che, fino ad ora, non è stata effettuata

4 In pochissimi casi, l’irrorazione aerea e terrestre in prossimità dei centri abitati e delle scuole rurali rispetta le distanze regolamentari, anche dove queste sono state approvate dalla pressione collettiva.

5 Si veda il documentario diretto da Fernando Pino Solanas, La guerra del francking, 2013, dove riporta a testimonianza di Linkopan due mesi prima della sua morte.

6 Come dice Jaime Breilh (2010), una “epidemiologia critica supera questa nozione restrittiva e propone una costruzione innovativa dello spazio della salute urbana, riprendendo i contributi della teoria critica dello spazio e della geografia, e articolando questi progressi con quelli dell’epidemiologia stessa in una prospettiva di determinazione sociale della salute”.

7 “Il MAB – Movimiento de Afectados por las Represas (Movimiento di danneggiati dalle dighe), fin dalla sua costituzione ha svolto un ruolo storico nella difesa dei diritti delle popolazioni danneggiate dalle dighe. Nel 2011 al suo interno si è creato il Collettivo Nazionale di Donne, la cui traiettoria si è incrociata con le ricamatrice della periferia di Santiago (Cile), donne che avevano già resistito alla dittatura cucendo la resistenza”. (Ertzogue y Busquets, 2019).

8 Si veda anche la campagna che abbiamo realizzando in Argentina con diversi collettivi, come quello del Pacto Ecosocial del Sur e #EscritorasNoHayCulturaSinMundo, sui Messaggi dell’acqua, disponibile in: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScYRoKwqRB7Yr-zPWbadiRnErFsk-MTJfHqEsrEv_0Dot13Lg/viewform?vc=0&c=0&w=1&flr=0&fbclid=IwAR1da2hAQB0X-JthfhxBd7Iq6Rl-2jKpDa8TM3uPlLCmbL8UFC8VUL688Xw

 

alexik

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