Filippo Abignente, deportato dimenticato

di Mauro Sonzini


Raccontare le storie della deportazione è difficile perché talora non ci s’immagina dove prendano avvio né quando e dove si concludano. Inoltre spesso s’avvitano su se stesse fino al punto da distorcere gli assunti da cui s’è partiti.

Più che asserire, è dunque utile conoscere. Serve pazienza. Prima ancora umiltà.

Questa storia nasce ben prima della deportazione. E si spinge ben oltre la sua fine costringendoci a chiederci se siamo cittadini onesti e conseguenti o cerchiamo viceversa solo modi di appuntarci medaglie o, peggio, rimuovere le nostre responsabilità.

Questa storia inizia nel lontano 1911 quando, giunti da Napoli, i marinai italiani aggrediscono Tripoli dando avvio alla guerra italo-ottomana, la prima con uso militare della radio, la prima con bombardamenti aerei. Si disse, al solito, l’impero ottomano è in decadenza, i Turchi sono invisi agli Arabi, la protezione militare è inadeguata, si vincerà senza combattere. Fu, al solito, imbroglio: se i Turchi sono invisi, perché non dovremmo esserlo noi che ai Turchi vogliamo sostituirci? La rivolta è dunque scontata. Così quattromila Libici – fra cui temibilissimi bimbi di dieci anni – finiscono deportati in nostre colonie confinarie come Gaeta, Ponza, Favignana, Ustica, le Tremiti, località che con il fascismo torneranno di gran moda. Nessuno esige pentimenti o scuse. Basterebbe riconoscere l’abuso. Tanto più che spesso il torto si ritorce.

A seguito delle truppe d’occupazione Giovanni Abignente si trasferisce a “Tripoli, bel suol d’amore” e convola a nozze con Luigia De Bono, famiglia italiana d’origine maltese radicata a Tripoli da quattro generazioni: dalla loro unione martedì 29 maggio 1923 nasce Filippo. Superate le elementari, alla vigilia della II guerra mondiale il sedicenne Filippo Abignente trova lavoro alla ditta Uldani come apprendista meccanico idraulico, attività essenziale nel piano fascista di colonizzazione dei territori. Tanto bene apprende il lavoro che, dopo il rovesciamento del fronte ad El Alamein, quando Tripoli finisce occupata dagli Inglesi e di conseguenza la ditta Uldani chiude, nei primi mesi del 1943, forse favorito dal lignaggio maltese di mamma Luigia, il diciannovenne Filippo continua il proprio lavoro con l’amministrazione militare britannica.

Ma, come dirà Badoglio, la guerra continua: a diciannove anni Filippo è chiamato alle armi, cosa che nella Tripoli occupata dagli Inglesi è dovere poco allettante e soprattutto non facile. Eppure, per senso del dovere o onor di patria, Filippo riesce non si sa come a lasciar Tripoli e giungere in Italia. Ma la comprensione scarseggia: per ironia della sorte Filippo finisce rinchiuso a Gaeta come i ribelli libici. La quasi totalità dei compagni in carcere è composta, oltre a qualche criminale, da disertori, disubbidienti, autolesionisti, insubordinati: una moltitudine di soldati refrattari al delirio bellico voluto e imposto dal fascismo. I più deprecabili per il giudizio allora in auge. Fra loro Filippo è fra i più giovani.

La guerra continua sempre più imprevedibile, gli Angloamericani sbarcano in Sicilia, risalgono il Meridione, persino Mussolini e il fascismo cadono: dal nuovo governo Badoglio almeno si auspicherebbe l’amnistia. Ma la guerra continua ancor più incalzante e la fortezza di Gaeta deve esser abbandonata: caricati su un treno, i detenuti sono trasferiti in provincia di Verona al carcere militare di Peschiera del Garda. Ma a Bologna vengono bombardati: le guardie in fuga li abbandonano. E i prigionieri insorgono finché essi pure sono condotti in rifugio.

Poi giunge l’8 settembre, con campane che suonano a festa, grida, abbracci e … l’occupazione nazista. I detenuti reclamano libertà, soprattutto quando si delinea l’imminenza dei militari teutonici. Mentre re e governo se ne vanno in fuga, essi, i disertori, i disubbidienti, gli autolesionisti, invano chiedono d’esser armati contro i nemici. Riporta Giovanni Melodia: “Se arrivano i tedeschi, dateci le armi: combatteremo per il nostro paese. Poiché dobbiamo morire, vogliamo sia da soldati. Almeno chiuderemo bene la nostra vita disgraziata”. Il comandante del carcere invece prova a servirsene come merce di scambio per la propria libertà. E’ la resa. Fra guardie e detenuti 2000 uomini vengono svenduti ad un solo carrarmato. Alcuni tentano ancora l’evasione individuale: fra tanti che finiscono ripresi, qualcuno ce la fa.

Poi i nazisti, dato che anche per loro la guerra continua, forse su pressione dei redivivi fascisti, offrono ai detenuti libertà in cambio d’arruolamento nelle file repubblichine: altrimenti finiranno prigionieri a lavorare in Germania. Ben diversamente dai tanti codardi di quei giorni, i detenuti rifiutano in massa: prima non firmano il modulo loro distribuito, poi si guardano bene dal sollevare la mano alla reiterata richiesta in cortile. Perché di guerra nessuno vuol più saperne. Spiega Giovanni Fioris: “Chi me lo fa far d’andar a combattere contro chi? Ci fan prigionieri? Quand’è finita la guerra, me ne torno a casa”.

Così lunedì 20 settembre 1943 circa 1800 detenuti, fra cui Filippo, di nuovo sono caricati su carri bestiame e all’alba di mercoledì 22 settembre 1943 arrivano in una piccola stazione poco oltre Monaco di Baviera. Dopo quattro chilometri a piedi fanno ingresso nel lager di Dachau. E’ il primo gruppo di Italiani: nessuno fra i nostri connozionali resisterà nei campi di concentramento quanto loro. Inoltre non trovano alcun italiano a chiarir subito loro le spietate leggi di sopravvivenza. Al contrario per primi si trovano ad incassar sdegnati quanto improvvidi insulti di altri prigionieri, francesi e tedeschi anzitutto: “Fascisten! Badoglio!”. Infatti in tal eterogenea accozzaglia, a ben guardare, si scorge pressoché completo il quadro della latente opposizione al fascismo: renitenti, antifascisti, onesti, indignati, zingari, slavi italianizzati, greco-albanesi, reduci di Spagna, condannati dal Tribunale Speciale, forse anche qualche ebreo, residenti all’estero come, appunto, Filippo.

Un po’ per caso, un po’ per innato spirito, il gruppo esibisce subito atti di “resistenza”. Fatti totalmente spogliare nel grande spiazzo dell’Appelplatz, forse per proteggersi dal freddo alcuni iniziano ad attizzare piccoli falò. Michele Lupoli riferisce: “C’ho freddo, c’ho freddo! Abbiam acceso delle camicie così, abbiam fatto qualche po’ di fuoco per scaldarci”. Aggiunge Marco Apruzzese: “Arriva uno Spagnolo comunista e fa: “Guardate, Italiani, che rischiate l’immediata fucilazione!”, “Perché?”. Ancora Lupoli: “Arriva il kommandoführer col comandante, ci mettono tutti in fila. Ci avevano dichiarato sabotatori: eravamo sabotatori a bruciar i nostri indumenti! Ci hanno fatto un discorso in tedesco, io non capivo. Però ci hanno fatto capire che ci facevano stare cinque giorni a digiuno. Tutti quanti!”. Per quei piccoli fuochi una apposita commissione d’inchiesta intenterà un procedimento a Berlino: forse per questo il loro triangolo dal rosso di politici passa al nero d’asociali e sarà loro comminata la “strasse”, l’irridente rasatura centrale dei capelli da fronte a nuca.

Dopo depilazione, disinfezione, visita, immatricolazione, doccia, vestizione, sono tutti condotti e rinchiusi in fondo al campo, alla baracca 25. Qui, giorno dopo giorno, nulla fanno se non marce su e giù, appelli e contrappelli. Soprattutto prendon botte, tante botte, come e peggio delle bestie, coi randelli di gomma, per punizione, per far presto, per qualsiasi motivo, spesso pure senza motivo. In fila, all’appello, in marcia, in bagno, a letto. Persino di notte, quando di botte all’improvviso vengono svegliati, buttati di botte giù di colpo dai castelli e a botte gettati fuori a correre all’impazzata, cogli zoccoli spesso spaiati, per le fangose strade del campo, ovviamente in mezzo a selve di botte. Pian piano perdono personalità, diventano cose, pezzi, stücke. Non hanno nome, solo numero e solo tedesco quello di Filippo. : “drei­und­fünfzig­tausend­sieben­hundert­sieben­und­sechzig“, 53767 quello di Filippo.  Intanto, come i compagni, anch’egli comincia a sentirsi la morte alitare sul collo.

Dopo quattro settimane, all’improvviso giovedì 7 ottobre 1943 si sparge voce che stanno cercando mestieri per un lavoro. Racconta Bruno Nicolausig: “Sceglievano più che altro operai, diciamo così, gente competente, mi pare 300 fra elettricisti, falegnami, muratori, carpentieri”. Grazie al suo mestiere in lista entra anche Filippo: insieme ai compagni mercoledì 13 ottobre 1943 parte in camion e, sulle sponde dell’Elba vicino a Riesa, raggiunge il castello Neuhirschenstein. Assegnati a dipendenza esterna del campo di Flossenbürg cui passano in carico, il loro compito è spogliar totalmente l’edificio fino a renderlo squallido ma senza demolirne i pezzi: è infatti stato designato a tetro carcere per Leopoldo III, re del Belgio, che di lì a poco vi sarà imprigionato. Il lavoro è incalzante ma ben strutturato, condotto direttamente dalle SS: in un paio di mesi è portato a termine. Ciononostante diversi compagni muoiono di stenti.

Mentre la guerra ancora continua, insieme a molti compagni sabato 11 dicembre 1943 Filippo è trasferito alla caserma SS d’applicazione di Dresda. Bruno Nicolausig riferisce: “Noi eravamo lì un paio di centinaia, gli stessi italiani che erano in quel castello, s’era adibiti alla manutenzione di questo immenso complesso. C’erano persino ospedali dentro, c’era pure una specie di campo di punizione per i militari”. Nel male immane della prigionia è piccola fortuna: per via dei frequenti ed improvvisi trasferimenti sovente dalle cucine recuperano cibo avanzato. Eppure di Filippo non ci sono notizie malgrado l’esercizio del proprio mestiere: intuita l’antifona, probabilmente vive alla giornata facendosi piccolo piccolo e, per risparmiar forze, si lascia come un pesce portar avanti dalla corrente.

Quattro mesi dopo, giovedì 9 marzo 1944, il ventenne Filippo è inserito in un nuovo transport. Anche allora la destinazione faceva rabbrividire: Mauthausen. Scrive Aldo Carpi: “Quando siamo arrivati al campo e siamo entrati, pareva un po’ come entrare nella porta dell’inferno”. Per Filippo e per i suoi compagni che già hanno attraversato quelle di Dachau e Flossenbürg, forse nella porta dell’inferno hanno più l’impressione di sprofondare. Ulteriore numero, ulteriori visite, ulteriore quarantena, ulteriori preoccupazioni, ulteriori vessazioni. E botte. Le solite tante botte. Occorre tener duro.

Un mese e mezzo dopo, venerdì 28 aprile 1944, il quasi ventunenne Filippo è assegnato al sottocampo di Gusen, in realtà suddiviso in tre distinti campi di lavoro. Anche qui di Filippo nulla emerge. Ancora la guerra continua ma ciò ora comincia ad apparir positivo perché la pressione alleata sul Reich si fa sempre più forte e sempre più vacue rende le teutoniche prepotenze. Arriverà prima o poi la liberazione. Ma ancor tanta è la strada da percorrere. Tanta fame, tanto freddo, tanta fatica, tante offese, tanta paura, tanta frustrazione, tanta rabbia. Tanta inesorabile morte.

La guerra continua. Anche i nazisti intuiscono che la loro fine è sempre più vicina. E’ il momento più difficile: le residue energie rasentano il lumicino anche perché il cibo è stato dimezzato. Si diffondono direttive di distruzione dei lager e sterminio dei prigionieri. Primi a rischiare sono i tanti malandati, ormai inabili al lavoro, a partire dai malati che provano persino a fuggire dall’ospedale pur se non si reggono in piedi. Eppoi nel lager chi può non considerarsi malandato? Fra sabato 21 e domenica 22 aprile 1945 è attuato il vergasung, la gassificazione: centinaia di prigionieri sono chiusi in baracche e di notte sterminati col gas. All’alba non c’è che da rimuoverne e accatastare i cadaveri. Come della stragrande parte dei prigionieri, di Filippo ancor nessuna notizia: probabilmente non è che numero, impercettibile spettro che scivola nel campo, come a sottrarsi alla vista. Da altri sottocampi arrivano intanto sfiniti ancora prigionieri.

La guerra continua. Sabato 28 aprile 1945 la Croce Rossa fa liberare i Francesi che lasciano Gusen. La fine è vicinissima. Sì, ma quale fine? Cambia il comando: al posto delle SS c’è la polizia austriaca. Anche i kapos si dileguano: ormai non s’attendono che gli Americani. Ma intanto si continua a morire.

La guerra continua. Nella notte fra venerdì 4 e sabato 5 maggio 1945 nessun dorme. Eccoli gli Americani: prima d’entrare s’assicurano delle condizioni del campo. Poi fanno ritirare la polizia austriaca. Così i prigionieri si lanciano nell’irrefrenabile e mortifero arraffamento di qualsiasi cosa sia ingeribile. Al mattino di domenica 6 maggio 1945 la situazione è critica: nel caos più totale armati s’aggirano nazisti sbandati, ex militari, persino civili e prigionieri decisi a prendersi con la forza ciò che ritengono loro dovuto. Fortunatamente gli Americani e la guardia armata formata prevalentemente da prigionieri polacchi fanno rientrar la situazione. Ma intanto si continua a morire.

La guerra è finita ma ancor non c’è pace: il ventunenne Filippo è finalmente liberato e finalmente si palesa al block 22. Ma intanto si continua a morire.

Dopo la liberazione il ventiduenne Filippo rientra nella sua città natale, Tripoli, formalmente ancor Libia italiana, pur se ormai sotto totale amministrazione militare inglese. A Filippo poco cambia: per gli Inglesi ha già lavorato alcuni mesi nel 1943, prima di venir risucchiato a Gaeta, poi a Peschiera, infine nel vortice concentrazionario nazista. Gli Inglesi lo riaccolgono e gli consentono di ricominciar la vita riprendendo il suo lavoro.

La guerra è finita ma ancor non c’è pace. A render le cose totalmente differenti non è solo l’assenza di guerra: legittima comincia a manifestarsi l’aspirazione alla libertà del popolo libico costretto per oltre trent’anni a sottomettersi ad un popolo straniero. Ancor più dopo la firma del trattato di pace nel febbraio 1947, quando la strada verso l’indipendenza è ormai segnata. Si moltiplicano così gesti di spregio e rivalsa contro i vinti oppressori italiani. A farne le spese sono forse i connazionali più incolpevoli come Filippo che paga pure la brutalità subìta nei lager. Nessuno forse sa cosa abbia passato, magari qualcuno agita ricordi di libici deportati in Italia. Filippo comunque non lo tollera, ancor più dopo ciò che ha subìto. Ancor meno tollera gli sputi sulle ragazze che in strada passeggiano con lui. Col cuore dilaniato di chi nel profondo si sente sempre tripolino, domenica 14 agosto 1949 il ventiseienne Filippo chiede e ottiene d’esser rimpatriato.

La guerra è finita ma ancor non c’è pace. Mercoledì 24 agosto 1949 il ventiseienne Filippo sbarca a Gaeta, la stessa Gaeta dove nel 1911 sono stati deportati i libici ribelli e dove nel 1943 egli pure è stato incarcerato: lo mettono di nuovo in un lager, nel campo profughi della caserma Vittorio Emanuele II. E’ solo, sconfortato, senza parenti, senz’aiuto. E dinanzi non trova che muri. Chiede lavoro ma per i profughi non è previsto. Così non riesce a prender residenza e non riesce a diventar a tutti gli effetti cittadino italiano. Martedì 15 novembre 1949 l’ultimo sfregio. Al ventiseienne Filippo viene negata l’assistenza dell’International Refugee Organisation: essendo partito di propria sponte, non può esser considerato profugo. Insomma l’Italia, anche la nuova Italia, si rivela ben peggiore di Tripoli. Nell’intera pratica mai compaiono i lunghi venti mesi patiti nei campi nazisti: Filippo vuol forse sottacere la condanna, forse si vergogna, forse è pudore. Poi servirebbe? A Filippo non resta che andarsene, migrare ancora, in Australia o, chissà, America Latina.

La guerra è finita … ma ancor non c’è pace. Come la stragrande parte dei deportati Filippo è lasciato sparire nel nulla. Salvo mi sia sfuggito qualcosa, di lui nessuno si occupa, anche negli anni: né autorità, né associazioni, né storici, né giornalisti, né i social, né chicchessia, quasi mai sia esistito. Ancor meno d’un numero, d’un pezzo, d’uno stück. Malgrado i tanti propositi dichiarati, nonostante 1001 iniziative attuate, a dispetto dei tanti denari investiti e spesi, in certo qual modo ci dimostriamo peggio di loro.

Beninteso questo non è che primo tassello di una riparazione collettiva che tutti quanti gli dobbiamo. A Filippo come a tutti i suoi compagni. Anzitutto a quelli, tanti, troppi, rimossi. A tanti anni di distanza pare intento per molti versi impraticabile. Eppure proprio per questo lo si deve portar il più possibile avanti. A costo d’andar controcorrente. Per la nostra coscienza. Ancor prima che per la nostra conoscenza.

Lunedì 1° febbraio 2021

Mauro Sonzini – studioso di Resistenza e Democrazia

FONTI:

Abignente Filippo, International Refugee Organisation, “Care and maintenance program”, Archivio Croce Rossa Internazionale, Bad Arolsen.

Abignenti Filippo, Flossenburg concentration camp, individual files, Archivio Croce Rossa Internazionale, Bad Arolsen.

Abignenti Filippe, Mauthausen concentration camp, personal files (male), Archivio Croce Rossa Internazionale, Bad Arolsen.

Abignenti Philippo, Dachau concentration camp records, in stevemorse.org

Abigmenti Filippe, Holocaust survivor and victims data base, in ushmm.org

Francesco Cassata, Giovanna D’Amico, Giovanni Villari, Il libro dei deportati: I deportati politici 1943-1945, Mursia, 2009.

Giovanni Melodia, “La quarantena” in Di là da quel cancello, Mursia, Milano, 1988/1997.

Archivio della Deportazione Piemontese, intervista di Elena Peano a Bruno Nicolausig, 14 aprile 1982;  intervista di Maurizio Gentile a Giovanni Fioris, 19 dicembre 1982;  intervista di Lilia Davite a Michele Lupoli, 1° febbraio 1983; intervista di Filippo Colombara e Gisa Magenes a Marco Apruzzese, 18 maggio 1983.

Aldo Carpi, Diario di Gusen, Einaudi, Torino, 1971.

Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965/1970.

Mario Pedinelli, “I primi giorni della liberazione del campo di Gusen” in Il Movimento di Liberazione in Italia, anno 1956, n° 41.

LE IMMAGINI sono state scelte dalla “bottega” tranne il documento dell’Organizzazione internazionale Rifugiati inviato da Mauro Sonzini.

La prima fotografia (guerra di Libia, 1911) è ripresa da parentesistoriche.altervista.org. Nella seconda e nella terza – entrambe da Wikipedia – prigionieri libici alle Tremiti e la liberazione di Gusen. Infine un piroscafo… a salutare il nuovo esilio (emigrazione se preferite) del protagonista di questa storia.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo una citazione o una foto. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il“collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Elisabetta Boschiggia

    Caro Mauro Sonzini, ti sono grata per il lavoro di recupero che continui a fare di uomini che hanno fatto la Seconda Guerra Mondiale subendone le atroci conseguenze. In questo caso caso porti alla luce la storia di Filippo Abignente, con i pochi documenti che sei riuscito a rintracciare attraverso un faticoso e meticoloso lavoro di recupero. E così Filippo entra a far parte, almeno, di una memoria e potrà essere raccontato, insieme a tanti altri che ancora non hanno un nome ma che hanno subito tutti i dolori e le frustrazioni di quella storia di guerra, morte, sofferenze, atrocità, attesa e, anche, speranza. Mi voglio immaginare che Filippo abbia, infine, potuto trovare un luogo di pace e di riscatto per concludere gli anni della sua vita con un sorriso verso il sole dell’avvenire.
    Grazie.
    Elisabetta Boschiggia

    • Mauro Sonzini

      Grazie Elisabetta,
      il fatto è della sua storia ci sono ancora tanti aspetti da esplorare. A cominciare da come è cresciuto: in un clima d’autentica fratellanza con arabi, maltesi ed ebrei oppure covando un nazionalistico sentimento di dominio? Quali sono state le sue scuole? Quali i suoi compagni? E’ stato fascista, ha tratto profitto dalla politica fascista in Libia oppure è stato bistrattato perché maltese, o ancora si è tenuto critico nei confronti del regime. Che effetto produce su di lui la guerra? Come riesce a sottrarsi in piena occupazione inglese? Perché viene arrestato e incarcerato? E ancora come viene accolto dopo il rientro dai campi? Qualcuno condivide con lui i suoi sentimenti, le sue rabbie, le sue frustrazioni, le sue scelte? Con qualcuno si farà ancora vivo? Domande per ora senza risposte. Chi è stato interpellato, non ha fatto per ora sapere. D’altronde questo non era, spero, che il primo passo. La Storia è animale strano, pervaso d’audacie e perplessità, entusiasmi e diffidenze. Eppure le sue strade restano sempre aperte, anche quando tutti i testimoni sono scomparsi. Allo stesso modo però non la si potrà mai considerar conclusa. Perché ci sarà sempre qualcosa in più da sapere, da comprender meglio. Il piacere della scoperta. Alla prossima, dunque …
      Mauro Sonzini

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