Fine anno di Resistenza per il popolo curdo, in Kurdistan e in Europa

di GIANNI SARTORI   

Una nuova lotta nelle carceri turche, lo sconcertante silenzio del «Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti» e la presa di posizione dell’Anc sudafricana per la liberazione di Ocalan

C’è sicuramente qualcosa di paradossale, schizofrenico, nell’agire di Erdogan. Solidale con il popolo oppresso palestinese, repressivo in politica “interna” nei confronti dell’altrettanto oppresso popolo curdo. Una sorta di “colonialismo interno di Stato”, profondamente analogo a quello praticato da Israele verso i palestinesi.

La recente dichiarazione dei prigionieri curdi di PKK e PAJK rilancia l’eco mai dimenticato della protesta dei POW irlandesi negli anni settanta. Il rifiuto di indossare la divisa carceraria da parte dei detenuti repubblicani (in quanto prigionieri politici e non criminali) portò prima alla protesta degli “uomini-coperta” e infine allo sciopero della fame del 1981 che costò la vita a dieci militanti (tre dell’INLA, sette dell’IRA).

Nel loro comunicato del 26 dicembre, i prigionieri curdi definiscono come “fascismo” l’imposizione della uniforme carceraria.

Di sicuro tale norma non verrà accettata: «Noi come detenuti del Pkk e del Pajk non indosseremo mai l’uniforme. Noi la faremo a pezzi se la costringerete su di noi. La nostra posizione su questo argomento è veramente chiara. Lo scopo principale dell’uniforme è di spogliare gli individui della loro identità e volontà».

Ossia l’imposizione per decreto «dell’omogeneità dello Stato nazione e la sua politica della negazione e dell’annientamento».

Con orgoglio i prigionieri curdi rifiutano l’ennesimo attacco nei confronti della loro dignità e rivendicano l’identità di resistenti, di «persone che difendono i diritti umani e la libertà di pensiero per una vita libera e giusta. Noi siamo le persone che lottano per la libertà sociale e la verità in linea con la legittima autodifesa per i nostri obiettivi e ideali».

Si evoca anche, nel comunicato, la ribellione del 14 luglio 1982, quando la lotta si estese a molte carceri coinvolgendo circa 8mila prigionieri politici. Per la cronaca, il 1982 fu l’anno in cui entrava in vigore la nuova Costituzione turca e venivano criminalizzati sia l’uso della lingua curda che ogni altra espressione culturale.

E IN EUROPA?

Intanto a Strasburgo il presidio a tempo indeterminato che da anni si tiene davanti al Consiglio d’Europa ha visto crescere in dicembre la partecipazione di centinaia di persone divenendo un vera e propria manifestazione di massa.

La richiesta, costante negli anni, rivolta sia al Consiglio d’Europa che al CPT (Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) rimane quella di togliere il leader curdo Abdullah Ocalan dal duro regime di isolamento a cui viene sottoposto.

Dal settembre 2016 mancano notizie precise sul suo stato di salute e si teme per la sua sicurezza, come per quella degli altri detenuti. Oltre 700 (settecento!) richieste dei suoi avvocati per poterlo incontrare sono state respinte, in violazione di ogni norma e regolamento dell’Onu e del Consiglio d’Europa, compresi quelli firmati dalla stessa Turchia. In particolare: la Convenzione dell’ONU del 10 dicembre 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli; la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti; il Protocollo aggiuntivo dell’ONU del 4 febbraio 2003. Tutti regolamenti (ratificati dalla Turchia nel settembre 2005) che impegnano gli Stati a garantire che le persone detenute non siano esposte alla tortura o a altre misure inumane. Anche consentendo che tali persone prigioniere vengano visitate regolarmente nelle loro celle ai fini di misure preventive non giudiziarie.

A questo punto è lecito chiedersi perché le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa mantengano un atteggiamento di totale inerzia e indifferenza di fronte a quelle che appaiono con evidenza autentiche violazioni dei diritti del prigioniero politico Öcalan.

In particolare, il CPT avrebbe diritto alla visita negli istituti di pena, potendo quindi ispezionare e indagare autonomamente dato che ogni Stato firmatario si è impegnato a permettere tali visite e a collaborare con il CPT. In teoria, il Comitato dispone di un accesso illimitato alle aree di sorveglianza e può muoversi senza alcuna limitazione, anche incontrando i prigionieri separatamente, senza la presenza di guardie o altro. Nel secondo paragrafo della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura viene stabilito che le visite possono svolgersi in qualsiasi momento; non solo in tempo di pace, ma anche durate stati di guerra e di emergenza. Se il rispettivo Paese non dovesse collaborare o non accettare le raccomandazioni del Comitato, a questo Paese – se i due terzi dei componenti votano a favore – e successivamente all’opinione pubblica viene fornito un documento sul caso preso in esame. Ma questo non sta avvenendo per Ocalan, mettendo in forse ogni dichiarazione di buoni propositi per impedire che le persone in stato di detenzione vengano sottoposte a minacce e pericoli.

Insomma è lecito chiedere al CPT, come intende – qui e ora – garantire la sicurezza e l’integrità psicologica e fisica del prigioniero Ocalan?

COMPLIMENTI ALL’ANC

Da segnalare la presa di posizione, di segno diametralmente opposto, di una organizzazione come l’African National Congress (ANC, il partito di Nelson Mandela). Durante il suo 54° congresso (Johannesburg, dicembre 2017) ha pubblicamente richiesto l’immediata liberazione di Ocalan e di tutti i prigionieri politici. Il nuovo segretario dell’ANC, Ramaphosa (così come quello uscente, Zuma) aveva condiviso la dura lotta contro l’apartheid – costata ai neri della RSA lutti, sofferenze, impiccagioni, secoli e secoli di detenzione – del compianto Nelson Mandela. Niente come la definizione di «Mandela curdo» esplicita quale sia il ruolo attuale di Ocalan per il suo popolo.

Nel comunicato finale l’ANC dichiara apertamente di «sostenere la lotta del popolo curdo per i diritti politici e umani e per la pace e la giustizia in Medio Oriente» chiedendo «a tutte le parti coinvolte di svolgere il proprio compito per una soluzione politica». Inoltre chiede «la liberazione di Abdullah Öcalan e di tutti prigionieri politici». Un sostegno esplicito e autorevole, provenendo da una delle organizzazioni che maggiormente hanno lottato contro il razzismo istituzionalizzato, contro la discriminazione e l’oppressione. Un omaggio postumo all’impegno del compianto Essa Moosa, scomparso nel febbraio 2017. Moosa era stato l’avvocato sia di Mandela che di Ocalan, oltre che presidente del Kurdish Human Rights Group (KHRAG).

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *