«Finitudine»

«Un romanzo filosofico su fragilità e libertà» di Telmo Pievani: le riflessioni di Giuliano Spagnul

Finitudine dell’uomo e del mondo

In un racconto breve di Giorgio Manganelli, uno di quei cento che si stringono stretti stretti ognuno dentro la propria pagina, si racconta di due angeli che commissionano un’enorme campana ad un artigiano ateo. Gli dicono che deve servire per il giorno del giudizio che è imminente. L’artigiano ne ride ma fabbrica la campana; quando è finita ne è tanto orgoglioso che pensa che quella campana dovrebbe veramente servire per l’ultimo giorno. All’arrivo degli angeli, questi gli dicono che il giorno del giudizio non ci sarà più. Ma l’artigiano risponde che è troppo tardi e suonando la campana “i cieli si aprirono”. (NOTA 1)

L’ultima fatica di Telmo Pievani, filosofo della scienza e divulgatore scientifico fuori dalla corte dei numerosi ruffiani della semplificazione, così come della spettacolarizzazione della scienza, è un romanzo filosofico sulla fragilità e la libertà che la consapevolezza della “Finitudine” ci impone di affrontare senza più alcuna illusoria, quanto vana, scappatoia a portata di mano. È una vera e propria resa dei conti che Pievani immagina svolgersi al capezzale di un moribondo, l’autore de L’uomo in rivolta Albert Camus, nella realtà morto a seguito di un incidente stradale e qui sopravvissuto, nella finzione letteraria, ancora per alcuni mesi; cosciente quanto basta per scrivere un libro a quattro mani col suo amico scienziato Jacques Monod. L’alternarsi della lettura del libro con i dialoghi su questo e sulla vita dei due amici, entrambi ex-partigiani, entrambi premi Nobel (Camus prima, Monod poi) supportano un pensiero che si vuole loro erede, depositario dell’ultima parola, prima che il suono della campana annunci l’avvenuta apertura dei cieli.

È un libro questo che, scritto nelle pieghe del tempo sospeso della pandemia, richiama l’immagine di quel triangolo di ferro sbattuta con forza per invitare i boscaioli a sospendere il loro assiduo lavoro di deforestificazione intensiva per correre a nutrirsi di quel cibo caldo necessario a ridar loro nuova forza ed energia. Nella contabilità del dare e dell’avere l’energia consumata deve essere ripristinata, ma intanto il bosco vieppiù si spoglia e la finitudine compie un ulteriore passo in avanti. Il libro inizia con un “incipit” dal De rerum natura di Lucrezio (in verità un esergo che si riproporrà con brani diversi ad ogni apertura di capitolo) in cui si descrive “fiaccata la nostra era e la terra stremata”, sempre meno in grado di somministrare quel cibo capace di reintegrare e rinnovare. Due millenni sono trascorsi dalle parole di Lucrezio ma quell’immagine di una terra senile, e priva di una qualsiasi chiarore oltremondano che possa riscaldarne la desolazione, sembra essersi rafforzata sotto la luce impietosa del metodo scientifico.

Ciò che si è aggiunto oggi a quel che mancava ai tempi di Lucrezio, riguardo ai mezzi conoscitivi della realtà, fa sì che le rughe di questo nostro pianeta possano apparirci ben più profonde, nella sua collocazione entro uno scenario cosmico complessivo che ha acquisito una data d’inizio, scientificamente accertata, e un altrettanto attendibile pronostico sull’inevitabile fine. In questo conteggio del tempo che ci rimane la partita si fa sempre più stretta man mano che il cerchio d’osservazione si restringe alla nostra galassia e, ancor di più, al nostro periferico sistema solare che vede la terra , in cui alligna una strana eccezione cosmica chiamata vita, aver già consumato gran parte dell’esistenza concessale. “Stiamo per andare in pensione” e “se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni”. Si potrebbe dire che non è poca cosa, eppure tutta questa prima parte che vuole introdurci a una finitudine nostra che si rispecchia con quella del mondo tutto, ci impone il peso di una vecchiaia che comunque non può non stridere con l’altrettanto evidente giovinezza di una specie, la nostra, che ha intrapreso, da pochissimo, una strada che si vuole emancipatoria da quella natura che abitiamo e che siamo. È evidente che qui molto dipende dal punto di vista: se guardiamo dall’alto con un occhio che simula quello del dio onnisciente non possiamo non caricarci del peso del cosmo intero, tanto astratto nella sua aspirazione a raggiungere l’infinito quanto concreto nei minuziosi dettagli che la tecnologia ci permette di scoprire. Uno sguardo dal basso, da umili bipedi terrestri, non può invece non farci avvertire la nostra imberbe voglia di cercare di guadagnare spazio e tempo nel mondo concreto in cui ci è capitato di dover vivere.

È destino che gran parte degli uomini di scienza, prima o poi, si lascino tentare dal fare filosofia. Poco male se si considera che filosofare è pratica comune che coinvolge tutti gli individui di qualunque strato sociale e livello culturale appartengano. Fare filosofia vuol dire pensare la vita e chiedersi dei perché e dei come; ma occorre far attenzione a non voler imporre la propria concezione filosofica a norma di vita valida per tutti, che significherebbe fare un salto ben poco filosofico. Occorrerebbe uno studio e una conoscenza approfondita dei due attori protagonisti , Camus e Monod, per valutare quanto l’abile lavoro dell’autore marionettaio sia corretto; cioè quanto i due acconsentirebbero a quel tirare i fili del loro pensiero e della loro vita. Non avendone la competenza ci limitiamo a dar fiducia a ciò che Mangiafuoco mette loro in bocca. Oltre alle avvincenti storie di scoperte scientifiche, nel descrivere l’avventura umana essa non può che essere vista “come sembra suggerire Lucrezio (…) da sempre contronatura.” Sul significato di tale affermazione oggi, sarebbe doveroso precisare cosa si debba intendere con natura, con questo termine che noi stessi abbiamo inventato e che abbiamo imparato a usare nei modi più diversi, e comunque tutti strumentali; sulle conseguenze da trarre, invece, il discorso è inevitabilmente più semplice: la scienza, come invenzione umana, si oppone al corso naturale degli eventi, li modifica e quindi pone l’umano, anche se dentro i limiti temporali dettati dalla finitudine, come eccezione da tutto ciò che lo circonda, una eccezionalità guadagnata dal progressivo accoglimento da parte dell’uomo del “messaggio più radicale e sovversivo della scienza: la rottura dell’antica alleanza animistica”. Quell’alleanza di un uomo impaurito, ancora incapace di incamminarsi a testa alta in un mondo in cui la propria libertà si misura con l’accettazione della propria finitudine. È un essere contro e a fianco della natura: contro la natura nel rendere migliore la propria e altrui vita a dispetto delle regole comunemente date dalla natura stessa, e a fianco nell’opera di “disincantamento radicale del mondo” che la natura esige come prezzo per poter essere conosciuta e, in una certa misura, dominata.

Ti ricordo che stiamo scrivendo questo libro insieme, uno scrittore e uno scienziato, per proporre un’etica del disincanto fedele alla scienza, che si faccia carico di tutta la lucidità della finitudine. Ciò che è raramente coincide con ciò che è desiderabile.” È in questo disincanto del mondo che la scienza si fa etica, “etica della conoscenza” che “si basa su valori di umanesimo, perché si tratta di rispettare l’uomo come creatore della norma: un umanesimo scientifico, realista, perché conosce l’animale umano – assurdo, strano -, le sue pulsioni e passioni, le esigenze e i limiti dell’essere biologico; un umanesimo socialista, non ideologico, liberato da ogni profezia sulla Storia, che faccia leva sulle più elevate qualità umane – il coraggio, l’altruismo, la generosità, l’ambizione creatrice -, anch’esse di umili origini, ma trascinanti nei loro ideali. Noi, stranieri nel cosmo, possiamo conquistare l’universo solo mediante la conoscenza.”

Divagazioni eretiche: e se fosse finitudine della scienza?

Ma è poi così vero che il disincanto del mondo avrebbe in sé la potenza di consegnare in mano all’uomo gli strumenti per un nuovo umanesimo finalmente scientifico, razionale e luminoso? Aveva quindi torto quel gesuita nel dire “che un umanesimo senza Dio è impossibile”? (NOTA 2) È la scienza, da sola, in grado di elevarsi a levatrice di una nuova etica, un’”etica della conoscenza” finalmente libera di affrontare il reale per quello che è: divenire continuo e incessante senza scopo e senza senso? Una scienza portatrice di nuovi valori da svelare agli animi timidi e paurosi nei confronti della verità della vita, cioè della morte. Ma sì, certo che la morte è indispensabile alla vita e ben lo sapeva il popolo ignorante e chiassoso delle feste (e delle rivolte) dei secoli oscuri; quel popolo che aveva paura della morte ma sapeva anche riderne e nella festa esprimeva la forza di un sapere irriducibile a quello algido, razionale del potere. A ben guardare, forse, non è lo scienziato illuminato a potersi definire “sovversivo a tutto tondo” perché in realtà non ha fatto altro che dare una spallata a un sapere vecchio divenuto ormai incomprensibile (e quindi non più utile, se non addirittura d’intralcio) al potere stesso. Non c’è stato nulla di così sovversivo nella nascita del metodo scientifico, né c’è stata un’autentica repressione che possa definirsi veramente tale nei soi confronti, solo la cauta e prudente nascita di una collaborazione, difficile ma necessaria, tra due diverse concezioni dell’uomo e del mondo. Dio è stato, di comune accordo, messo fuori gioco; i miracoli contingentati e i rispettivi campi d’influenza ben separati (e comunque sorvegliati e saturi di conflitti e polemiche). Da questa nuova Santa Alleanza il mondo magico viene definitivamente liquidato. Lo spiraglio di possibilità diverse che il ‘500 aveva fatto intravedere viene anch’esso definitivamente chiuso nella luce abbagliante del nascente secolo dei lumi. Le vittime di tutto questo (al di là dei custodi del vecchio sapere occupati a razionalizzare tutte le cose di questo come dell’altro mondo, fino al sesso degli angeli) sono state le migliaia e migliaia di esseri umani (soprattutto donne) prima arsi vivi nei roghi della Santa Inquisizione e poi relegati nei vari luoghi di confinamento penali, ospedalieri, produttivi. Dobbiamo comunque ringraziare la scienza che ha saputo rintuzzare sempre più in un angolo le insorgenze del sacro? Dobbiamo difenderla con una “manutenzione quotidiana, vigilanza e protezione da nemici intuitivi che non se ne sono andati: sono da qualche parte là, nel deserto, e torneranno ad assediare il fortino”? In realtà non dobbiamo ringraziare nessuno, men che meno quegli scienziati coinvolti da una grande passione per la ricerca. Se mai sono loro a dover ringraziare (il fato o il caso poco importa) per aver potuto vivere con passione e poter condividere questa passione con una comunità di affini, legata da obblighi comuni che rinforzano la legittimità degli eventuali risultati della loro ricerca. Ma come non capire che l’importanza di questo nuovo sapere è, quanto meno, pari a quello che hanno avuto altri saperi, come ad esempio, quello del mondo magico che ha accompagnato per millenni la storia dell’umanità, rendendola capace di trascendere la natura in valore. Come avrebbero potuto i balbettanti animali umani fare il balzo da ciò che è dato verso ciò che è possibile senza il grande ombrello protettivo del magico? Può la scienza, oggi sempre più compromessa con un potere che la ridefinisce, la incoraggia o la inibisce a suo comodo, costituire una protezione altrettanto efficace dei tanti vituperati “animismi” e affini del passato? E se no, a che servirà tutta la potenza di questa Scienza costretta in un fortino in perenne attesa di Tartari che non hanno nessuna voglia di cingerla d’assedio, ma, se mai, di allearsi direttamente con il potere e lasciarla, lei sola, a meditare stoicamente sul tempo rimanente allo scoccare della fatidica campana?

Nota 1: «Centuria n. 63» in Giorgio Manganelli, Centurie, Milano Adelphi.

Nota 2: Luigi Bini, Ingmar Bergman da “Come in uno specchio” a “Sinfonia d’autunno”. Milano Edizioni Letture 1980.

 

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